Ventimiglia: la “caccia al nero” e la solidarietà che resiste

“L’ultimo è stato trovato venerdì 25 maggio, nell’orrido del Frejus. Il corpo del ragazzo migrante, morto mentre cercava di attraversare il confine italiano verso la Francia, era in avanzato stato di decomposizione, e ovviamente senza documenti: ci vorrà del tempo prima di arrivare a una identificazione”.

 

Ventimiglia: la “caccia al nero” e la solidarietà che resiste

 

Foto:  Parolesulconfine.com

L’ultimo è stato trovato venerdì 25 maggio, nell’orrido del Frejus. Il corpo del ragazzo migrante, morto mentre cercava di attraversare il confine italiano verso la Francia, era in avanzato stato di decomposizione, e ovviamente senza documenti: come per gli altri prima di lui, ci vorrà del tempo prima di arrivare a una identificazione. E’ accaduto con Blessing, 21 anni, caduta nel fiume mentre fuggiva da un inseguimento della Police NationalMamadou è morto invece per sfinimento, dopo aver vagato tre giorni sulle montagne al Monginevro. Insieme a suo cugino Ibrahim, ancora minorenne, volevano cercare rifugio alla chiesa di Claviere ma, braccati da alcuni agenti delle forze dell’ordine (non si sa ancora se italiani o francesi) si sono persi nella fuga. Ibrahim alla fine è riuscito a salvarsi, ma con l’arrivo della stagione calda e il disgelo, le brutte sorprese potrebbero non essere finite. Come il Mediterraneo, infatti, anche le montagne si sono trasformate in uncimitero a cielo aperto: si parla di 17 persone migranti morte dal 2015 ad oggi, anche se, in realtà, non esiste ancora un elenco ufficiale. Quello che si sa per certo, è che non si tratta di semplici vittime della montagna. “Queste morti sono la conseguenza diretta della chiusura della frontiera”: ne sono sicuri gli attivisti dell’Associazione Ambulatorio Internazionale Città Aperta (AAICA) di Genova, che in questi ultimi anni hanno fornito assistenza ai migranti respinti dalla Francia e accampati a Ventimiglia, l’ultima città italiana prima del confine francese. Sabato 26 maggio hanno raccontato la loro esperienza presso la Biblioteca Interculturale Cittadini del Mondo a Roma, nell’ambito di un incontro dal titolo “Il Silenzio Rimbombante. Ventimiglia la nostra Calais”. 

A Calais si trova infatti il grande accampamento di rifugiati e migranti in viaggio verso il Regno Unito, diventato a poco a poco una sorta di città (o “giungla” come ormai viene definita). Uno spauracchio per tutte le città di confine, compresa Ventimiglia, che agli occhi delle nostre istituzioni rischiava di riprodurne i meccanismi. E allora meglio sgomberare, “pulire”, e quando la determinazione delle persone in fuga la vince, far finta di non vedere. “Da quando nel 2015 la Francia ha sospeso gli accordi di Schengen è cambiato tutto” racconta Lia Trombetta, attivista e medico di AAICA. E’ da lì, infatti, che sono cominciati i blocchi e i rastrellamenti sulla base del colore della pelle, dando l’avvio a una vera e propria caccia al migrante sulle Alpi innevate. La Francia è la meta, ma chi viene preso è ricacciato verso l’Italia (minori compresi). Pian piano i respinti e i nuovi arrivati hanno cominciato ad assembrarsi a Ventimiglia, in attesa di ritentare l’impresa. Giovani, ma anche donne e bambini, che spesso dopo il deserto, le torture in Libia, la traversata del Mediterraneo, come in un crudele gioco a tappe, ora devono affrontare la montagna prima del tanto agognato premio finale: la prospettiva di un futuro e di una vita dignitosa da ricostruire altrove, magari ricongiungendosi ad amici e parenti. “A Ventimiglia abbiamo assistito a una deriva illegale dello stato – spiegano gli attivisti – dal 2015 la situazione è cambiata molte volte, con forme di repressione e resistenza molto diverse”. 

Poco alla volta, sorgono accampamenti spontanei, in particolare sotto al ponte del cavalcavia che costeggia il fiume Roya. Vivono tra cumuli di immondizia, con tende e ripari costruiti alla bell’e meglio, sopravvivono grazie alle distribuzioni di cibo e coperte, tra identificazioni quotidiane, risse – inevitabili in un contesto del genere – malattie, problemi di ogni tipo. Ma del resto non è permesso loro di organizzarsi in maniera più umana e dignitosa. “Molte ong hanno offerto il loro aiuto ma non erano ben viste – raccontano gli attivisti – servizi basilari come l’acqua, bagni chimici, presidi medici, venivano infatti considerati un ‘pull factor’, ovvero un motivo di attrazione, inteso dalle istituzioni in senso ovviamente negativo”. Dappertutto dunque carenza: di servizi, ma anche di informazioni basilari, in primis sulla salute, come ha più volte sottolineato Antonio Curotto, anche lui medico di AAICA e volontario di lunga data in contesti del genere. 

Solo la solidarietà non è mai mancata, malgrado le difficoltà, i fogli di via, i bastoni tra le ruote da parte delle autorità e delle istituzioni. Gli attivisti ripercorrono la storia della permanenza dei migranti nella città ligure di confine: dai primi sgomberi all’occupazione degli scogli dei Balzi Rossi, il trasferimento alla chiesa nel quartiere Gianchette, con circa 1000 persone; la nascita, a giugno 2016, del campo istituzionale della Croce Rossa, che ancora esiste (“un campo di transito, tipologia che nemmeno esiste nella legislazione italiana”) che però di persone ne poteva ospitare solo 300, il presidio Caritas nella chiesa di S. Antonio, anch’esso insufficiente. Il 18 aprile a Ventimiglia il campo informale che si trovava sotto il cavalcavia, nel letto del fiume Roya adiacente a Via Tenda, è stato sgomberato con le ruspe.” Da agosto 2017 la zona è pesantemente militarizzata e sono poche le esperienze ancora in piedi, come l’infopoint Eufemia, del Progetto20k rete di solidarietà e aiuto concreto per la libertà di movimento – spiegano – Sulle montagne al confine, i sentieri sono pattugliati dai droni, così come dalla gendarmeria francese, arrivata ad accamparsi sparsa in piccole pattuglie sparse sui monti”. 

Non tralasciano ovviamente di raccontare le violenzesubite dai ragazzi durante le identificazioni tramite le impronte digitali, descritte anche nel rapporto Amnesty, Hotspot Italia, uscito nel novembre 2016; e poi i rastrellamenti per le strade, con i giovani costretti a salire sui bus verso il sud Italia, fino ai rimpatri di massa dei sudanesi tramite voli charter con destinazione Khartoum, sulle quali sta tuttora indagando la Corte Europea dei Dritti dell’Uomo. “La caccia al migrante continua” spiegano gli attivisti, che non nascondono la preoccupazione per il futuro, specie dopo gli ultimi rivolgimenti politici post-elezioni. Eppure l’esperienza di Ventimiglia non è stata vana. Al contrario, la descrivono come “un esperimento politico a tratti incredibile, fatto di assistenza, solidarietà e autogestione”. L’occupazione nel 2015 degli scogli dei Balzi Rossi da parte dei migranti ne è un esempio: “Quella di essere visibili sugli scogli e vivere questa lotta alla luce del sole è stata una loro scelta politica” raccontano, descrivendo, pur con le difficoltà del contesto, la nascita di nuove pratiche collettive, frutto di assemblee in tutte le lingue e momenti di incontro e partecipazione. “Forse è anche per questo che è stato considerato pericoloso e subito sgomberato”. 

Ma loro non hanno mollato, e questo nonostante la costante e crescente criminalizzazione della solidarietàda parte delle istituzioni: “Si è cominciato già nel 2015, con il divieto di somministrare cibo e bevande in luoghi pubblici, per questioni di igiene, dicevano”. Oggi ad essere messe sotto accusa non sono solo le organizzazioni della società civile e le ong ma anche numerosi cittadini europeifiniti sotto processo per aver fornito soccorso e riparo ai migranti in transito. “In questi ultimi anni i confini si sono allargati e trasformati – spiega Giulia Bausano, attivista e fondatrice del blog Parole sul Confine, nato proprio per dar voce ai soggetti di queste esperienze, i migranti e gli attivisti solidali, che altrimenti si disperderebbero – da Genova a Nizza, da Ventimiglia a Bardonecchia, da Briançon a Torino, fino alla Libia e perfino da noi a Roma. Sono i nuovi confini interni ed esterni, dove si sperimentano nuove pratiche di controllo sociale e repressione del dissenso, ma in cui si è mossa una sorta di resistenza sotterranea, fatta di vie di fuga alternative, mutuo aiuto, incontro e confronto, che ci hanno aiutato a non abbandonare la speranza”. 

Anna Toro

Lunedì, 04 Giugno 2018

da: www.unimondo.org

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