Il 15 ottobre in piazza: “Noi il debito non lo paghiamo”

Sei punti per spiegare perchè non si deve pagare il debito. La convocazione per una giornata di analisi e dibatto il prossimo 29 Ottobre su crisi, l’Europa e le alternative ai diktat della Bce.

Il 15 ottobre in piazza: “Noi il debito non lo paghiamo”

Il volantone della Rete dei Comunisti che verrà distribuito in piazza sabato 15 ottobre.

 

Sei punti per dire NO al pagamento del debito

E’ stata appena resa pubblica la lettera segreta della Bce che già Unione Europea e Confindustria tornano alla carica invocando nuove misure antipopopolari (su pensioni, lavoro e privatizzazione dei servizi) e terapie d’urto “con lubrificante” che portino l’Italia al di fuori dalla “maledizione” che colpisce i paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna).
Anche nel nostro paese sta crescendo un movimento di resistenza popolare, sindacale e giovanile che intende opporsi in ogni modo al fatto che siano ancora una volta i lavoratori, i giovani, le donne, i pensionati, i malati, a pagare i costi di un debito pubblico che sta arricchendo solo le banche e le società finanziarie. Per consentire che cresca la mobilitazione nata con il giusto obiettivo “Noi il debito non lo paghiamo”, occorre conoscere alcune cose fondamentali.

1. Venti anni di tagli e sacrifici non gli sono bastati
I lavoratori e i settori popolari nel nostro paese stanno ancora pagando ancora le conseguenze delle terapie d’urto già adottate negli anni Novanta (quelle dei governi Amato, Ciampi, Prodi) per entrare nei parametri di Maastricht e poi nell’Unione Economica Monetaria dei paesi europei che hanno adottato l’Euro. In questi venti anni il debito pubblico, nonostante i sacrifici imposti a lavoratori e famiglie, non è affatto diminuito ma è sempre aumentato: nel 1991 era il 106% del Pil mentre nel 2011 è salito al 120%. Le misure antisociali messe in campo in questi venti anni hanno già devastato servizi sociali strategici come sanità, istruzione, previdenza, trasporti. L’adesione all’Euro ha visto ridursi del 37,9% in soli dieci anni il potere d’acquisto di salari e pensioni. I governi Prodi e Berlusconi hanno continuato a trasferire enormi risorse pubbliche e ricchezza dal lavoro e dal risparmio delle famiglie alla rendita finanziaria rappresentata da banche, società di assicurazione, fondi d’investimento italiane e stranieri. In questi venti anni i lavoratori e le famiglie hanno “già dato!”. Infatti dal 1992 a oggi sono stati buttati nel secchio bucato del pagamento del debito e degli interessi sul debito qualcosa come 430 miliardi di euro tra tagli ai servizi sociali, nuove imposte, blocco dei salari e delle pensioni, riduzione prestazioni previdenziali, privatizzazioni. Adesso chiedono nuovamente di riprendere la giostra con nuovi tagli, sacrifici, rinunce a diritti sociali e sindacali acquisiti, negazione di ogni vera prospettiva di lavoro, di reddito, di salario, pensione e di servizi sociali degni di questo nome.

2. Chi sono i proprietari del debito pubblico italiano? Banche e speculatori!
La mappa del possesso dei titoli del debito pubblico italiano, ci fa capire perfettamente l’immenso spostamento di ricchezza sottratta ai lavoratori e al risparmio delle famiglie per essere trasferita alle banche e alle società finanziarie.
Se nel 1991 il debito pubblico era in possesso per il 58,6% alle famiglie – sia quelle più ricche sia quelle che avevano investito liquidazioni, qualche risparmio e piccole eredità nei Bot e nei titoli di stato – oggi questa quota è crollata al 14%. Al contrario il possesso dei titoli del debito italiano in possesso degli investitori stranieri (banche, fondi, assicurazioni) è schizzato dal 6% del 1991 al 43% del 2010. Ma anche banche, assicurazioni e fondi di investimento “italiani” (un eufemismo nell’epoca della finanza globale) che nel 1991 possedevano il 25% dei titoli, oggi ne posseggono il 38%. La Banca d’Italia infine possiede una piccola del 4% dei titoli del debito pubblico italiano. Riassumendo: l’85% dei titoli del debito pubblico italiano sono nelle mani di banche, assicurazioni e fondi di investimento, siano essi stranieri o italiani. Praticamente oggi solo una infima minoranza del debito pubblico è nelle mani delle famiglie italiane.
Sui 1.900 miliardi di euro del debito pubblico italiano, le banche e le società finanziarie francesi possiedono titoli del debito pubblico italiano per 511 miliardi di euro; quelle tedesche per 190 miliardi; quelle anglo-sassoni per 77 miliardi, quelle spagnole per 31 miliardi. Dunque quasi la metà del totale del debito pubblico italiano è nelle mani dei cosiddetti “investitori esteri”, ma ben i quattro/quinti del debito sono nelle mani di banche e soggetti finanziari privati.

3. Chi verrebbe danneggiato dal mancato pagamento del debito pubblico?
Se in Italia venisse congelato il pagamento del debito pubblico, a doversi preoccupare sarebbero soprattutto le banche, le compagni assicurative e i fondi di investimento in gran parte stranieri e in misura minore italiane e la criminalità organizzata che ricicla molti capitali sporchi attraverso l’acquisto dei titoli del debito pubblico. In misura meno rilevante sarebbero poi le famiglie più ricche o le poche famiglie che in questi anni di crollo del risparmio sono riuscite a mantenere quote di patrimonio più o meno consistenti investite in titoli del debito pubblico italiano (il cosiddetto Bot people oggi ridotto a poca cosa rispetto al passato).
Tutti questi soggetti, non solo incassano i soldi della cedola sui titoli di stato italiano alla loro scadenza, ma incassano ogni anno una media di 70/80 miliardi di euro di interessi che lo Stato paga annualmente ai possessori dei titoli indipendentemente dalla loro scadenza. Quindi già solo congelando il pagamento degli interessi, si avrebbero a disposizione ogni anno risorse finanziarie rilevanti per avviare piani straordinari per l’occupazione, per risanare scuola e sanità, per veri investimenti produttivi e infrastrutturali, e per la prima volta lo si farebbe con risorse sottratte alle banche e alle entità finanziarie private e restituite agli interessi collettivi.
Facendosi due semplici calcoli, è ormai evidente come i quaranta o cinquanta miliardi di euro in tagli alle spese e nuove imposte imposti dalla Bce e dal governo, pesino enormemente sulle condizioni di vita dei settori popolari ma sono del tutto insignificanti nella porta girevole dei mercati finanziari internazionali dove girano ogni giorno migliaia di miliardi. Ad esempio la Borsa di Milano nel 2007 aveva una valore delle aziende quotate pari a 801 miliardi di euro, oggi ne vale solo 400.

4. Il non pagamento del debito pubblico aiuta la democrazia
Ritenere che la soluzione alla questione del debito pubblico possa passare attraverso ripetute manovre “lacrime e sangue” dei vari governi, è una sanguinosa menzogna che occorre demolire agli occhi della società. A questa sanguinosa menzogna si può e si deve contrapporre una soluzione diversa e alternativa fondata sul non pagamento del debito, la nazionalizzazione delle banche e la irrinunciabilità della democrazia. Il nesso tra non pagamento del debito e questione democratica è infatti strettissimo e torna ad essere materia che porta direttamente al nodo del cambiamento politico di sistema. Il problema fondamentale infatti non è il “come o quando pagare il debito”, il problema decisico è che “il debito non va pagato” per imporre un nuovo ordine di priorità all’uso delle risorse disponibili nel nostro e negli altri paesi sottoposti al massacro sociale imposto dalla Bce o dall’Ecofin dell’Unione Europea.
In tutti i paesi ipotecati dal debito (quello estero negli anni ottanta e novanta nei paesi in via di sviluppo, quello pubblico nei paesi europei nel XXI Secolo), la popolazione è stata non solo vessata dalle manovre lacrime e sangue e dalle terapie d’urto – ieri quelle del Fmi e della Banca Mondiale, oggi quelle della Banca Centrale Europea – ma è stata sistematicamente espropriata di ogni sovranità o possibilità di decidere sulle soluzioni adottate. Sistemi elettorali maggioritari, autoritarismo dei governi e sedi decisionali sopranazionali, hanno impedito con ogni mezzo che la società potesse esprimersi sulle scelte decisive, magari anche scegliendo di fare i sacrifici ma solo dopo essere stata consultata, informata e messa nelle condizioni di decidere. Nell’Unione Europea oggi questo tema è stato posto all’ordine del giorno sulla base di una divaricazione incompatibile tra democrazia e capitalismo. I governi delle banche, veri e propri governi unici ormai e indipendentemente dal partito/coalizione al governo, decidono nelle sedi europee i provvedimenti che dovranno essere adottati e certificati nei singoli paesi. E la discussione stessa si sintetizza in quelle sedi privando di decisionalità sia i parlamenti sia le istanze sociali che possono solo ricorrere agli scioperi e agli scontri di piazza per segnalare la loro opposizione alle misure lacrime e sangue. La stragrande maggioranza dei partiti parlamentari votano poi i provvedimenti o ne agevolano l’approvazione in nome dell’obbedienza alla superiore istanza europea che viene sbandierata ancora come baluardo rispetto all’instabilità e garanzia di un assetto democratico che occorre salvaguardare anche a costo di misure antipopolari. La rappresentanza politica istituzionale subisce così un ulteriore arretramento che ne svuota ogni contenuto democratico e di rappresentanza sociale.

5. Referendum obbligatorio contro i diktat della Unione Europea
Questa contraddizione tra democrazia e governabilità dei paesi aderenti all’Unione Europea, appare ormai dirimente in un paese-limite come l’Italia. Infatti se in altri paesi si sono potuti tenere dei referendum sui vari aspetti dell’integrazione nell’Unione Europea (adozione dell’Euro, Costituzione Europea etc.), nel nostro paese questa possibilità democratica ci è stata sempre sistematicamente negata con effetti molto gravi. In Francia e in Olanda, la società ha potuto discutere e votare sulla Costituzione Europea, in Danimarca, Svezia, Irlanda, Norvegia si sono potuti tenere referendum sull’adesione o meno all’Eurozona o alla stessa Unione Europea. In Islanda addirittura c’è stato il recente referendum che ha sancito il non pagamento dei debiti delle banche. In Spagna, gli Indignados e i movimenti della sinistra e repubblicani hanno chiesto un referendum contro l’introduzione del vincolo di bilancio nella Costituzione Queste sono state tutte occasioni in cui la gente ha dovuto/potuto informarsi ed esprimere la propria volontà. Il problema per l’establishment europeo, semmai, è che ogni volta che la società dei vari paesi si è potuta esprimere democraticamente, ha votato contro i progetti dell’oligarchia istituzionale e finanziaria bocciandoli sonoramente. In Italia niente di tutto questo è stato fino ad oggi possibile perché la Costituzione vieta i referendum in materia di bilancio e di trattati internazionali. Questo limite “oggettivo” ha permesso da un lato a tutti i partiti, inclusi purtroppo anche quelli della sinistra radicale, di marginalizzare l’analisi e il dibattito sulla natura imperialista dell’Unione Europea, dall’altro ha impedito che le questioni europee trovassero interesse e attenzione in vasti strati della società. Il sistema bipartizan, approfittando di entrambe le condizioni, ha sempre veicolato un europeismo enfatico ed acritico come un dogma che abbiamo visto operare in sede di approvazione della manovra finanziaria imposta dalla “lettera della Bce”. In realtà questa è ormai una foglia di fico, sia perché nel 2001 il centro-sinistra promosse il referendum confermativo su materia costituzionale come il titolo V della Costituzione (sul federalismo), sia perché è inaccettabile che venga introdotto il pareggio di bilancio nella Costituzione ma si impedisca – trincerandosi dietro la Costituzione – un referendum su questa modifica così rilevante (e del tutto assurda da ogni punto di vista, NdR).

6. Proposte e alternative per la mobilitazione popolare, sindacale, politica contro il debito
Di fronte all’annodarsi della crisi sistemica del capitalismo che sta colpendo soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione Europea (gli altri grandi paesi al contrario non vanno affatto male), si vanno affacciando analisi e proposte che in qualche modo indicano delle alternative rispetto alla subordinazione ai diktat della Banca Centrale Europea, delle istituzioni finanziarie internazionali e dei governi unici delle banche.
La campagna sul non pagamento del debito e la democrazia lanciata il 1 ottobre scorso da una grande assemblea popolare al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, va nella direzione giusta. E’ chiaro che se dobbiamo indicare una alternativa al massacro sociale e all’autoritarismo crescente, non possiamo sottrarci dall’indicare delle soluzioni. Una campagna politica e di massa contro il pagamento del debito non deve alimentare illusioni velleitarie ma deve collocarsi ben dentro il senso comune della gente e il conflitto di classe nei vari settori sociali.
a) Il non pagamento del debito è una delle soluzioni che possiamo mettere in campo, consapevoli però che questa battaglia implica un cambio radicale nelle priorità del sistema politico ed economico in cui operiamo. Non è infatti possibile disgiungere dal non pagamento del debito la questione della nazionalizzazione delle banche, perché è soprattutto il debito “pubblico” verso le banche quello che va eliminato (e che metterebbe in crisi le banche). Non pagamento del debito e nazionalizzazione delle banche sono due misure complementari che rimettono al centro l’interesse collettivo a scapito degli interessi privati che si sono rivelati antagonisti proprio verso gli interessi della collettività. I governi hanno costretto le popolazioni e le casse pubbliche a dissanguarsi per riempire i bilanci delle banche, per evitare che fallissero e regalandogli addirittura la possibilità di lucrare sui titoli del debito pubblico.
b) Una via d’uscita all’implosione politica e sociale che si sta abbattendo sui paesi più deboli dell’Unione Europea, può essere quella di fuoriuscire dall’UEM (Unione Economica Monetaria europea in pratica la zona Euro) e di dotarsi anche di una propria moneta diversa dall’Euro e di una nuova e comune area economica e commerciale. L’Euro ha imposto ai paesi aderenti un regime di cambi fissi sulla moneta, una fuoriuscita dall’area euro consentirebbe di utilizzare una banda di oscillazione tra il 10 e il 20% su una nuova moneta e quindi avrere maggiore libertà di manovra.

Per combattere gli effetti antipopolari della crisi e i diktat delle istituzioni finanziarie e politiche dell’Unione Europea, dobbiamo guardare al di fuori di una logica meramente nazionalista o eurocentrista, facendo tesoro delle esperienze di altre aree del mondo. E’ decisivo coordinare l’azione politica, sindacale e sociale con i movimenti negli altri paesi e soprattutto con i paesi Piigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e con i movimenti dei paesi del Mediterraneo Sud che sono strettamente collegati con questi paesi europei. Ma diventa straordinariamente utile anche il confronto con i movimenti sociali e le forze intellettuali che in questi trenta anni hanno condotto e vinto la battaglia contro il pagamento del debito nei paesi dell’America Latina. In diversi di questi paesi, la ripresa dello sviluppo economico interno e il significativo cambiamento politico dai dogmi e dai provvedimenti liberisti, ha coinciso proprio con la mobilitazione dei movimenti sociali e poi con la decisione di alcuni governi di non pagare il debito e di sganciarsi dal cambio fisso con il dollaro. Oggi la fuoriuscita dalla gabbia dell’Unione Monetaria Europea marcia di pari passo con la fuoriuscita dal capitalismo che sta trascinando l’umanità nell’abisso.
 

Il debito non lo paghiamo
Referendum contro i diktat dell’Unione Europea
Nazionalizzare le banche
Rimettere in discussione l’adesione dell’Italia all’Eurozona
Contro le manovre antipopopolari del governo unico delle banche resistenza, conflitto, indipendenza e organizzazione
 

La Rete dei Comunisti

www.retedeicomunisti.org

 

Cosa opponiamo al governo unico europeo della banche?
Sabato 29 ottobre a Roma una giornata di analisi e confronto sulla crisi globale in Europa, il ricatto del debito, le alternative ai diktat della BCE.

 

E’ ormai evidente che la crisi economica in corso segni un passaggio storico tra un prima e un dopo lo sviluppo capitalistico del dopoguerra. La crisi agisce asimmetricamente colpendo con maggiore forza le economie capitalistiche negli Stati Uniti e in Europa. La crescita delle economie dei Brics pare destinate a cambiare significativamente la mappa dei rapporti di forza a livello internazionale. Per il processo che ha portato all’Unione Monetaria e all’Unione Europea i cambiamenti si rivelano ancora più significativi; verso l’alto indicando una gerarchizzazione brutale dei poteri decisionali, verso il basso attaccando complessivamente le conquiste sociali e i diritti acquisiti dei lavoratori e dei settori popolari.

La causa fondante della crisi attuale, cioè la finanziarizzazione dell’economia capitalista avviata dagli Stati Uniti già dagli anni ’80, spinge non solo ad accentuare la competizione globale ma porta anche a processi di riorganizzazione complessiva interna alle aree economiche che riguardano i paesi coinvolti. Per l’Unione Europea questo è un passaggio ineludibile per sostenere il proprio ruolo internazionale. La tenuta dell’euro, la questione dei debiti sovrani (in realtà prodotti dal sostegno alle imprese, alle banche ed anche ai sistemi politici), il rafforzamento delle istituzioni finanziarie della Unione Europea, la nascita e concentrazione di holding europee, l’accelerazione sui processi di unificazione politica continentale ed infine il controllo ferreo sulla forza lavoro e le privatizzazioni, sono tutti aspetti complementari di un processo a carattere continentale.

A questa ristrutturazione sottintende anche una ricomposizione delle classi dominanti e soprattutto dei poteri decisionali della borghesia europea. Questa tendenza è emersa allo scoperto con il ruolo che stanno avendo la Francia e soprattutto la Germania, le cui classi dominanti dettano i tempi e i contenuti delle scelte da fare, affermando una egemonia sull’Europa che non nasce tanto dalla politica quanto dai caratteri dei sistemi produttivi e dalla loro solidità, un aspetto questo su cui lo Stato non gioca affatto un ruolo marginale. La Germania è tra i principali esportatori ed ha mantenuto un ruolo centrale dello Stato, la Francia vede lo Stato impegnato in molte grandi imprese e possiede – diversamente dalla Germania – un apparato militare aggressivo (vedi la vicenda libica). Si tratta di elementi materiali che predispongono la nascita di una borghesia europea a prevalenza “carolingia”. Attorno a questo asse della governance sull’Europa, si vanno aggregando pezzi delle borghesie “nazionali” in declino – come quella italiana – nelle quali alcuni settori sono appunto destinati ad essere perdenti in questa ricomposizione di classe dominante a livello europeo.

Adottare il metodo dell’analisi di classe sulla situazione italiana rende ancora più chiaro il processo in atto. La debolezza dell’apparato produttivo italiano, ancora forte nell’export manifatturiero, fortemente frammentato ed ulteriormente disgregato anche dai processi di privatizzazione delle imprese e delle banche pubbliche prodotti dai passati governi del centro sinistra, si è rappresentata politicamente con il blocco sociale berlusconiano, blocco composto da settori sociali e produttivi quantitativamente pesanti sul piano elettorale ma debolissimi sul piano della progettualità. Le spregiudicate alleanze internazionali assunte negli anni passati (che hanno irritato sia gli Usa che l’Unione Europea), le posizioni demenziali della Lega e le tattiche opportuniste della Confindustria pronta ad accaparrarsi benefici senza mai pensare alle prospettive, sono li a testimoniarlo, e la “variabile Marchionne” ne è l’esempio più recente.

La borghesia italiana, che si conferma ancora volta come “stracciona”, arriva all’appuntamento storico con la crisi sistemica – che sta accelerando ed incrudendo i processi di unificazione europea – debole, divisa e senza alcun rapporto di forza da giocare con la Germania e con la Francia, anzi, pronta a dividersi e – per chi ne ha ovviamente la possibilità – a salire sul carro dei vincitori in posizione subordinata, In tal modo il nostro paese accede ai processi di unificazione europea da una condizione del tutto subalterna, da PIIGS appunto, collocando gli interessi collettivi in secondo piano rispetto a quelli predominanti. In termini più espliciti, e se ci è permesso anche storici, la nostra classe dominante si appresta ancora una volta a “tradire” non solo gli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne ma anche quelli del “popolo” italiano, includendovi quindi i settori sociali che in questi anni sono stati la base sociale del governo Lega – Berlusconi.

Che le cose stiano in questo modo lo verifichiamo tutti i giorni con i diktat della Banca Centrale e dell’Unione Europea, con la totale subalternità del duopolio Berlusconi-Bossi, con il ruolo determinante del Presidente della Repubblica Napolitano (sull’economia, ma anche nell’aggressione alla Libia), con le posizioni del PD e di quella parte della borghesia, finanziaria e produttiva da questo rappresentata, pronta a salire sul carro del “governo unico delle banche” lasciando gli altri a piedi. Quando si attuerà nuovamente il “tradimento”, questo, paradossalmente, sarà realizzato da quel centrosinistra e da quella parte della borghesia “progressista” pronti a sacrificare gli interessi delle classi subalterne all’“interesse generale” della costruzione di una Unione Europea ormai gerarchizzata nei suoi ruoli di potere.

La crisi del blocco sociale berlusconiano ed il ruolo che il centrosinistra dovrà per forza assumere per tenere testa ai processi di centralizzazione europea, acutizzano il conflitto sociale ma aprono uno spazio politico con caratteristiche di classe che ha bisogno di una risposta. La risposta o dovrà venire da una sinistra coerente ed anticapitalista oppure potranno emergere tendenze più o meno reazionarie che non potranno che essere il mero riflesso della disgregazione che si prospetta per le classi lavoratrici e per il paese, e non solo per il nostro. Pensiamo che questa sia la sfida politica che oggi ci si pone davanti in modo chiaro. Dopo le sconfitte subite in questi anni, occorre capire qui ed ora come rispondere avviando un processo virtuoso di ricomposizione politica dei settori di classe.
 

Su questi temi la Rete dei Comunisti promuove per sabato 29 Ottobre a Roma una giornata di analisi e dibattito articolata in due momenti:

 

– Una prima tavola rotonda (la mattina) di analisi e approfondimento sui meccanismi economici, politici e istituzionali della crisi e della governance nei e sui paesi dell’Unione Europea. In queste settimane sono state avanzate proposte di mobilitazione sul non pagamento del debito, la nazionalizzazione delle banche, la fuoriuscita dall’Unione Monetaria europea, che hanno la necessità di essere approfondite e messe a confronto

– Una seconda tavola rotonda (il pomeriggio) sulle scelte politiche e le indicazioni di lotta con cui movimenti sociali e sindacali possono ingaggiare in Italia e in Europa la lotta aperta contro il governo unico delle banche.

L’invito, come è nostra abitudine, è quello ad un confronto di merito ed un dibattito che punti alla qualità dell’analisi senza la presunzione di arrivare subito a conclusioni da buttare nel mercato della politica.

 

La Rete dei Comunisti

www.retedeicomunisti.org

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