“Arrenditi, Jannacci!”

Con l’elezione di Macron all’Eliseo, anche i massimi esponenti della geo-filosofia della “terza via” paiono aver vissuto il loro momento di estasi imperial-hegeliana. Ma non si sono limitati allo stupore filosofico, perché oggi va in scena ancora una volta per la prima volta la dipartita del socialismo europeo. E come ogni volta anche stavolta il clima somiglia a “Jannacci, arrenditi!”, divertente canzone di quarant’anni fa.

 

EDITORIALE 

Arrenditi, Jannacci! 

di Andrea Ermano

 

«L’imperatore – quest’anima del mondo – io l’ho visto uscire a cavallo dalla città, in ricognizione; è davvero una sensazione singolare vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, spazia sul mondo e lo domina», così Hegel riferisce la meraviglia da lui provata nel 1806 al passaggio della Storia Universale nelle vesti del Bonaparte.

    Con l’elezione di Macron all’Eliseo, anche i massimi esponenti della geo-filosofia della “terza via” paiono aver vissuto il loro momento di estasi imperial-hegeliana. Ma non si sono limitati allo stupore filosofico, perché oggi va in scena ancora una volta per la prima volta la dipartita del socialismo europeo. E come ogni volta anche stavolta il clima somiglia a “Jannacci, arrenditi!”, divertente canzone di quarant’anni fa:

    «Jannacci, arrenditi! Sei circondato… Vieni fuori dall’edificio e rientra nel sistema… Ché per adesso non ti facciamo niente. Se vieni fuori, ti promettiamo che ti mettiamo una pietra sopra. Jannacci arrenditi, ci sono 10.000 dollari di taglia. Possiamo fare metà per uno. È d’accordo anche il tuo avvocato. È d’accordo anche tua sorella…». (Ascolta “Jannacci, arrenditi!” su YouTube).

    Beninteso, nessuno nega la crisi del PS francese, cui si sommano le varie sconfitte elettorali, avvenute o annunciate, in Gran Bretagna, Germania, Spagna e Grecia. I talk show strabordano di partiti socialisti in caduta libera: PSF, Labour, SPD, PSOE e PASOK formano un unico tele-marasma di macerie.

    Senza contare le crisi di panico, come quella dell’ex primo ministro francese Manuel Valls, che, prevedendo lo sfascio ormai prossimo, aveva abbandonato governo e partito per saltare sul carro del vincitore. Però, poi ha sbagliato la rincorsa. E lo hanno ritrovato, politicamente esanime, nei rigagnoli della Storia Universale.  

In tutto questo bailamme c’è un’importante domanda politica rimasta inevasa. Come mai la crisi della socialdemocrazia infuria in Europa, mentre negli USA la sinistra liberale sembra ormai ancorata a posizioni socialdemocratiche?

    Si badi che – a parte Franklin D. Roosevelt – le cose non sono sempre state così. Basta ricordare le sciagurate scelte neoliberiste di Bill Clinton – con tutta la fila di pinguini dell’Ulivo mondiale al seguito, inclusi i massimi esponenti della geo-filosofia della “terza via” – per capire quanto sia stata grande la svolta politica impressa da Barack Obama.

    Quindi, se i popoli d’Europa si vanno stufando di questa nostra sinistra incolore, dall’altra parte dell’oceano il po­polo statunitense ha pur confermato per due mandati alla Casa Bianca un socialdemocratico afro-ame­ri­cano. E, dopo il “rossonero”, avrebbe eletto anche una ricca femminista, se questa si fosse solo mostrata un attimino più sensibile all’agenda pro labour.

    Poi c’è un terzo fatto, anch’esso non del tutto trascurabile, politica­mente: la virata a sinistra della Chiesa di papa Francesco, do­ve – lasciatecelo dire – giungono a maturazione tra gli altri anche gli antichi germogli siloniani di una teologia per “cafoni” a sud del mondo.

    Per quale ragione, dunque, le idee socialdemocratiche funzionano a Washinton e in Vaticano, ma non a Bruxelles?

    Forse la spiegazione risiede nel fatto che la sinistra liberale americana e la Chiesa bergogliana possono fare riferimento a due forme di “statualità” che sono politicamente sopravvissute alla crisi dello stato nazionale europeo per via della loro scala “imperiale”.

    Tra gli stati nazionali, invece, nessuno più possiede forza sufficiente a produrre una narrazione persuasiva circa le possibilità della politica di entrare nel merito delle questioni che realmente coinvolgono la vita e i beni dei cittadini.

    Un doge veneziano, per esempio, non può abolire per decreto l’au­mento del livello del mare. E i valligiani carducciani non bloccheranno con voto per alzata di mano lo scioglimento dei ghiacciai alpini a mon­te del loro Comune rustico.

    La tremenda debolezza politica delle Nazioni europee, del resto, è stata solennemente certificata dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, nel 60° dei Trattati di Roma: «I Pae­si europei si di­vi­dono in due ca­tegorie: gli Stati piccoli, e quelli che ancora non hanno realiz­za­to di esser tali». Di qui la necessità di una fase costituente europea.

    Ed è proprio in questo lunghissimo intervallo tra il “non più” dei vec­chi Stati nazionali e il “non ancora” degli Stati Uniti d’Europa a venire che si colloca parte importante della crisi dei partiti socialisti in questo continente. Perché – al netto di questa pletora di tecnocrati scimuniti e incolori – la parola socialdemocrazia, al di fuori  di un orizzonte di senso “statuale”, non significa e non può significare un granché.

    Quale Welfare potrai mai progettare, se lo Stato rischia una bancarotta ogni vent’anni come la Spagna cinquecentesca? Quale coesione so­ciale può esistere senza un Welfare? E quali politiche d’oc­cupazione, d’in­clusione e d’integrazione se non sussiste una società minimamente coesa?

Il vero problema sta nel fatto che una spinta decisiva verso la costituente europea non verrà dai governi e nemmeno dai parlamenti. Beninteso, ci vuole classe dirigente, parla­mentare e di governo, come no. Ma duecento Giscard d’Estaing e duecento Giuliano Amato non bastano a scrivere una costituzione, se dietro di loro c’è la fobia dell’idraulico polacco e nessuna legittimazione di massa.

    Una mobilitazione di massa capace di legittimare una fase costi­tuente europea, senza comportare un evento bellico o un’in­sur­rezione, può avere luogo: a patto che nasca da una vasta coscienza del passaggio epocale e possa poi tradursi nell’elezione popolare di una Assemblea costituente (ciò che nell’Italia del 2013, con incredibile dissipazione d’energie vive, il “Parlamento dei nominati” non ha voluto concederci, fino al capolinea del 4 dicembre 2016).

    Vedremo, ora, se l’asse Merkel-Macron riuscirà ad inaugurare un patto di collaborazione federale rafforzata tra paesi della zona euro. Fin lì possono arrivare, e sarebbe già un miracolo. Dopodiché, per procedere oltre (com’è necessario), occorre il dispiegarsi di un movimento di massa in grado di “osare più democrazia” e di riaprire la strada verso una società minimamente coesa.

    Finora l’unico esperimento funzionante in questa direzione su scala europea è stato l’Erasmus. Dunque, per costruire gli Stati Uniti d’Eu­ropa, ci vuole qualcosa come un Erasmus allargato, uno strumento di massa capace di cambiare le cose non solo nella formazione perma­nente, ma anche nella partecipazione democratica dal basso, nel­l’oc­cupazione e nella solidarietà, nella sicurezza e nell’integrazione.

    Occorre uno “strumento degli strumenti” tramite il quale le società civili europee, e in primo luogo le giovani generazioni, possano iniziare a intervenire sulla realtà anziché stare lì a farsi piovere addosso per altri vent’anni.

    Ora, questo “strumento degli strumenti” potrebbe essere dato da una nuova forma di servizio civile europeo. In Italia la reintroduzione di una leva universale obbligatoria (Cost. 52), attuata sul piano civile, comporterebbe una spesa a regime di circa due-tre miliardi l’anno, a fronte dell’attuale disponibilità pari a circa un decimo di questa cifra. Lo ha detto Luigi Bobba, sottosegretario di Stato competente in materia, dopo le recenti “aperture” della ministra della Difesa Pinotti a Treviso.

    Due miliardi di fabbisogno non ci sembrano una cifra enorme, se pensiamo che Mr. Trump esige dall’Europa almeno un punto aggiunti­vo di Pil per il solo rafforzamento della NATO: cifra pari in Italia a una ventina di miliardi e a circa centoventicinque per la zona euro.

    Una sinistra di governo degna del nome dovrebbe, dunque, mettere qui “il cacciavite”. E sarebbe ragionevole collegare il rifinanziamento della NATO a un “dividendo sociale” riservato al servizio civile euro­peo, cioè collegato – repetita juvant – a politiche di piena occupazione, solidarietà sociale, formazione permanente e partecipazione demo­cratica.

    Altrimenti, se vai verso una situazione di malessere alle stelle, non potrai sviluppare una buona strategia di difesa dell’Occidente, a meno che tu non voglia consegnarlo ai sovranisti. E cioè alla conflagrazione.

 

L’AVVENIRE DEI LAVORATORI

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Direttore: Andrea Ermano
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