Pubblico Impiego in Movimento, assemblea nazionale a Milano

Il 10 giugno si terrà a Milano l’assemblea nazionale dei delegati e dei lavoratori che fanno parte di Pubblico impiego in movimento, un coordinamento unitario del sindacalismo di base. L’assemblea è aperta a tutti e prevede anche una relazione del coordinatore di Medicina Democratica sulla sanità pubblica.

 

 

Assemblea nazionale

Milano, 10 giugno

 

Il 10 giugno si terrà a Milano l’assemblea nazionale dei delegati e dei lavoratori che fanno parte di Pubblico impiego in movimento, un coordinamento unitario del sindacalismo di base. L’assemblea è aperta a tutti e prevede anche una relazione del coordinatore di Medicina Democratica sulla sanità pubblica. Nel frattempo, in questi giorni, la ministra della funzione pubblica Madia ha raggiunto un accordo coi confederali e i loro reggicoda ‘autonomi’ sui decreti attuativi della Riforma della Pubblica amministrazione. Coi problemi che scaturiscono da questi accordi dovrà misurarsi l’assemblea di Milano. Sull’argomento pubblichiamo una analisi del compagno Federico Giusti.

Aginform
21 maggio 2017

 

Niente rinnovi salariali all’orizzonte.
Ma il Governo porta a casa quello che voleva, ossia i decreti Madia

Che il rinnovo dei contratti pubblici fosse in subordine alla approvazione dei decreti Madia era cosa risaputa dopo l’accordo tra sindacati e governo. Sono trascorsi due anni dal pronunciamento della Consulta che giudicava illegittimo il blocco dei contratti ma i sei anni non erano sufficienti se nel frattempo se ne sono aggiunti altri due, otto anni senza alcun rinnovo e con il potere di acquisto praticamente fermo. Una scelta arrendevole, quella di Cgil Cisl Uil e autonomi, non adeguatamente contrastata dai sindacati di base.

La campagna denigratoria contro il pubblico, i nuovi codici disciplinari, l’applicazione di codici etici e comportamentali, hanno alimentato il clima di paura e di rassegnazione nel pubblico con 3 milioni di dipendenti subalterni ai dettami governativi e sindacali: alla fine 8 anni senza contratti e con una pace sociale che vede i lavoratori e le lavoratrici incapaci di mobilitarsi anche contro l’arretramento dei salari e le carenze di organico. Il governo ha ottenuto cio’ che voleva: riscrivere le regole vigenti nel pubblico, inserire i licenziamenti facili, dividere la forza lavoro mettendola in competizione solo per pochi euro di salaro accessorio, renderla ricattabile dai dirigenti e dalle loro valutazioni. In ogni caso, il mancato rinnovo è legato anche a fattori economici, poichè i i soldi per pagare i fatidici «85 euro medi» di aumento a regime previsti dall’intesa del 30 novembre ad oggi non ci sono nelle casse dello Stato. Per trovare questi soldi bisognerà attendere la legge di bilancio di fine anno. Solo per l’amministrazione centrale servono almeno 1,2 miliardi, altrettanto sarà l’importo da stanziare per i contratti della sanità e degli enti locali.

L’arrendevole linea sindacale all’insegna della subalternità ha quindi favorito il governo senza nulla in cambio: stiamo andando verso i 9 anni di vacanza contrattuale e il passaggio del turn over dal 25 al 75% stride con il rispetto di tutti quei vincoli finanziari che il governo ha conservato per la spesa di personale. Le trattative vere e proprie debbono ancora partire, serve del resto la direttiva ministeriale da inviare all’Aran che definirà i criteri-guida per le trattative.

Nove anni senza contratto hanno determinato una perdita salariale di 7.000 euro, i pochi aumenti salariali al momento andranno solo alle fasce di reddito più basse, oscura poi resta la gestione del bonus da 80 euro di cui beneficiano i redditi entro 26 mila euro. Per essere ancora piu’ chiari: con questi aumenti contrattuali, quando arriveranno, si potrebbe superare di pochi euro il reddito annuale di 26 mila euro e cosi’ perderemmo anche il bonus. Il governo sa bene che i lavoratori e le lavoratrici della pubblica amministrazione si troverebbero con un accordo nullo, cioè senza alcun aumento, visto che gli 85 euro promessi (se e quando arriveranno, se ci sarà la copertura finanziaria) del rinnovo contrattuale porteranno gran parte dei redditi annuali oltre i 26 mila euro determinando così la perdita del cosiddetto Bonus Renzi che , guarda caso, ha lo stesso importo. Al danno seguirebbe così anche la beffa a cui aggiungere il progressivo svuotamento del contratto nazionale e un peso sempre maggiore accordato al salario accessorio e alla sua diseguale distribuzione vincolata alle valutazioni dei dirigenti.

Il prossimo contratto annullerà la legge Brunetta che escludeva da ogni salario accessorio il 25% dei dipendenti, tuttavia siamo certi che le nuove regole escluderanno in ogni caso una parte del personale e la riduzione a 4 contratti nazionali (tanti quanti sono i comparti ridotti da 11 a 4 con accordo sottoscritto anche dal sindacato di base Usb) sancirà per molti un’ulteriore perdita salariale.

Si parla nel frattempo di rafforzare la valutazione interna agli enti pubblici senza mai avere fatto un serio esame sui risultati della performance. Le valutazioni, spesso umorali e non oggettive dei dirigenti, determinano una differenziazione salariale non supportata da criteri oggettivi; gli obiettivi programmati potrebbero essere i programmi di mandato dei sindaci o gli indirizzi regionali alle aziende sanitarie per ridurre la spesa complessiva; non illudiamoci che siano costruiti parametri oggettivi sulla base dei quali valutare i singoli dipendenti.

Dietro alla cultura della performance si nasconde un concetto assai pericoloso, secondo cui gli aumenti dovranno essere variabili da dipendente a dipendente, in base a valutazioni discrezionali e senza parametri oggettivi (per esempio la presenza in servizio). Il risultato ottenuto dal governo è quello auspicato, ossia creare divisioni all’interno della forza lavoro, ridurre l’importo degli aumenti, creare una pubblica amministrazione dove avrà spazio solo chi si piega alla cultura privatizzatrice del governo.

Il contratto collettivo nazionale stabilirà la quota delle risorse destinate alla performance (organizzativa e individuale) e i criteri perchè alla differenziazione dei giudizi (di fatto imposta) corrispondano anche i salari. Nel pubblico impiego il contratto nazionale assegnerà al secondo livello di contrattazione il compito di costruire le basi materiali per la disparità di trattamento economico tra dipendente e dipendente. Il salario accessorio si configura sempre piu’ come strumento di disuguaglianza economica. Il contratto nazionale muta geneticamente la sua funzione, queste del resto erano le direttive di Cgil Cisl Uil con la firma dell’intesa del novembre 2016.

Ma dagli ultimi decreti Madia arrivano anche altri segnali preoccupanti. Desta perplessità la decisione di riservare il 20% del turn over alle promozioni interne senza concorso pubblico soprattutto dopo avere eliminato le progressioni verticali che avevano permesso a migliaia di lavoratori e lavoratrici progressioni di carriera, miglioramenti salariali e riconoscimento delle professionalità legate anche agli anni di servizio. Il loro ripristino sarebbe la soluzione migliore, ma ovviamente non sarà possibile, perchè le progressioni verticali determinano l’aumento della spesa per il personale che i decreti Madia vogliono ulteriormente ridurre. Ma attenzione: si intravede già una guerra tra poveri, perchè gli enti pubblici che vorranno riservare la quota del 20% alle progressioni di carriera interne potrebbero avere qualche vincolo in più in materia di assunzioni tramite concorsi.

E sbaglieremmo a pensare che la fine delle dotazioni organiche rappresenti un successo. Le assunzioni in ogni ente pubblico saranno determinate in base ai «fabbisogni» determinati dalla programmazione triennale, quindi non avremo più una dotazione di riferimento. Nel caso dei comuni ci saranno fabbisogni determinati per il raggiungimento dei programmi del Sindaco anche se la loro ricaduta effettiva sulla macchina gestionale dovesse rivelarsi catastrofica. Fate attenzione che le dotazioni organiche non sono rigide, come viene detto, ma rappresentano piuttosto una garanzia in più in assenza della quale un domani potranno stabilire assunzioni per rispondere alle reali necessità della macchina organizzativa ma solo in base ai piani inviati alla Funzione Pubblica.

Facciamo un esempio esplicativo: se un comune con la vecchia dotazione organica avrebbe dovuto assumere un certo numero di tecnici, di educatrici e di amministrativi (in base al turn over sancito per legge), un domani potrà aggirare queste necessità optando per concorsi destinati ad altre figure professionali, per esempio agenti di polizia municipale, da vendere come risposta alle richieste di sicurezza dei cittadini. In tal modo si aggirano i reali fabbisogni di personale favorendo continui processi di riorganizzazione e ristrutturazione, aumentando i carichi di lavoro e le mansioni esigibili senza alcun limite e allo stesso tempo rendendo più semplice esternalizzare intere direzioni e funzioni. Se qualcuno pensa ancora che la politica e la gestione amministrativa siano separate e ben distinte, sarà il caso che si ricreda da subito.

Anche i licenziamenti nel pubblico diventano piu’ semplici: le cause di licenziamento diventano 10 con particolare attenzione verso chi dovessere violare i codici di comportamento in maniera reiterata o per lo scarso rendimento che poi significa valutazioni negative del dirigente per 3 anni consecutivi.

Altro argomento su cui riflettere è quello relativo alle stabilizzazioni dei precari previste tra il 2018 e 2020 con la riserva di posti nei nuovi bandi concorsuali destinata ai precari in possesso di alcuni requisiti. Quali? I tre anni di anzianità negli ultimi otto ed entro la fine del 2017, un requisito che non vale per la sanità e gli enti di ricerca. Non basta vietare dal 2018 i co.co.co, sarebbe opportuno capire quanti lavoratori atipici sono alle dipendenze del pubblico, soprattutto negli enti di ricerca e nell’università, e sanare queste situazioni ricprdando che anni fa le stabilizzazioni dei precari non hanno eliminato il precariato ma sono servite alla sopravvivenza del governo allora in carica. Ma è cosa risaputa che non ci sarà una sanatoria per la stabilizzazione dei precari, visto che negli enti non se ne conosce il numero e i numeri forniti dal governo sono solo una minima parte dei precari che con molteplici contratti operano all’interno della pubblica amministrazione. Un’ulteriore sconfitta del sindacato incapace ormai di tutelare la forza lavoro, precaria o stabile che sia.

Federico Giusti

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