“Come lo chiamereste voi Gulbudin?”

“C’avrà 28-30 anni al massimo, manco lui sa dirtelo se glielo chiedi, credo lavori qui da sempre, la sua ID card reca il numero “137” se non sbaglio, praticamente il 137esimo assunto da Emergency a Lashkar-gah. Uno di quelli che vorresti sempre in turno, uno di quelli che quando ti chiedono le ferie ti viene male, che vorresti dirgli “ma ce devi proprio andà in ferie?”. 

 

COME LO CHIAMERESTE VOI GULBUDIN?
“C’avrà 28-30 anni al massimo, manco lui sa dirtelo se glielo chiedi, credo lavori qui da sempre, la sua ID card reca il numero “137” se non sbaglio, praticamente il 137esimo assunto da Emergency a Lashkar-gah. Uno di quelli che vorresti sempre in turno, uno di quelli che quando ti chiedono le ferie ti viene male, che vorresti dirgli “ma ce devi proprio andà in ferie?”.
Sa tutto dell’ospedale, pure la fornace che ha fatto i mattoni per costruirlo; sicuro, posato, non una parola in più del necessario, mai una di meno. La giusta ironia sulle cose, il giusto distacco dalle situazioni d’emergenza per poter essere sempre lucido, capace di una presa sui colleghi del suo reparto senza flessioni, disposto al cazzeggio con loro nei momenti in cui le cose lo consentono.

C’ha visto crescere, Gulbudin, e noi abbiamo visto crescere lui. Noi (cioè io) insicuri alla prima missione, impauriti da quel posto e da quel nome della città che faceva un po’ paura, a girovagare per l’ospedale ancora poco conosciuto cercando di studiarne le dinamiche, il funzionamento, adesso, svariati anni e missioni dopo, ci aggiriamo ciabattando senza indugio per i corridoi, che intanto l’ospedale ci è diventato familiare, e la barba si è ingrigita.
Anche lui giovanissimo infermiere, all’inizio un po’ insicuro, impaurito da quel compito forse all’epoca più grande di lui, intimorito da quel personale internazionale che gli girava intorno e che prometteva di trasmettergli la scienza infusa.
Adesso è il team leader del pronto soccorso, e nel frattempo non gli si è imbiancato manco un pelo, maledetto lui.

Quando è tranquillo come oggi ci parlo un po’, sempre con molta prudenza e con un po’ di malcelata timidezza (non è facile parlare di questioni personali qua, chiedere della guerra, di come va fuori dell’ospedale, di come si vivono le giornate, si ha sempre paura di sembrare morbosi, di violentare la loro difficile vita privata, di voler sfruculiare nel torbido per portarsi a casa una storia…insomma si ha sempre il timore di non risultare sinceri nel nostro interesse alla sfera privata) ma lui è sempre disponibile alla chiacchierata, non sembra mai turbato.

“Come va, Gulba?”
“Mah… al solito, come sempre da queste parti”
“La famiglia, i figli – ne hai sempre tre vero? – tutto a posto?”
“Si, si. Il piccolo è diventato anche lui da poco un paziente di Emergency, è caduto da un muretto e s’è rotto un gomito. Glielo ha sistemato il dr. Khushal”
“Ah. Beh, se torna per un controllo dimmelo, mi piacerebbe conoscerlo. Abiti sempre poco fuori dal centro?”
“In teoria si”
“Ah. In teoria. E in pratica scusa?”
Sorride e fa un sospiro. ‘Sti internazionali che vogliono sempre sapere tutto.
“Beh, la situazione è cambiata a Lashkar-gah, e qua quando le cose cambiano spesso lo fanno in peggio. Te ne sarai accorto dai pazienti che arrivano”
“L’ho pensato, si. Sembra che arrivino da più vicino, e che si sia alzato il numero di quelli messi molto male”
“Infatti. Il centro dove siamo noi è un po’ più tranquillo, ma intorno c’è una specie di anello che la circonda, con un raggio di 3 o 4 km. Quell’anello è il fronte degli scontri e casa mia è esattamente in un punto di quell’anello. Hai presente i due bambini che sono arrivati ieri sera?”

Si, me li ricordo bene. Stamattina erano tutti e due in ICU. Il maschietto ha sei anni, Ahmadullah se non ricordo male. Schegge in pancia e nel torace, gli hanno bucato un polmone diversi visceri e lo stomaco, Anton il chirurgo dice che era messo male quando è arrivato, c’ha passato diverse ore stanotte in sala operatoria a riparare il tutto.
La femmina di anni ne ha quattro, proiettile al collo. Dalle lastre la frattura alle vertebre non si vede ma le esce liquido spinale dal buco della pallottola.
Me li ricordo bene perché le speranze non erano molte, invece si stanno riprendendo molto meglio del previsto.

“Si, Gulbudin. Sono nel mio reparto, ce li ho presenti”
“Sono i figli dei miei vicini di casa, mi abitano di fianco. I genitori stamattina m’han detto che erano in giardino a giocare. Solo che gli scontri sono a pochi metri, sparano di notte generalmente, di giorno solitamente è più tranquillo. Si son fidati della situazione e l’han fatti uscire davanti all’uscio”
“Cazzo. Eri in casa tu? Li hai visti feriti”
“Ahah, ma no… io non ci sto più li. Da quattro mesi ho affittato una casa qui in centro, non è il massimo e costa un po’, ma lì è diventato troppo rischioso. Nel frattempo mi sto pagando un po’ per volta un bunker, me lo stanno costruendo sotto il terreno, quando sarà pronto torno a casa”
Che dico? Pensa Roberto, pensa… non puoi cavartela con una pacca sulla spalla, non ti puoi commuovere perché saresti patetico. Pensa… una roba da dire, alla svelta.
Niente.

“Posso farti ancora una domanda? Giura che se è troppo personale non rispondi?”
“Vai”
“Se arrivasse qualcuno, oggi, e ti desse un passaporto con un biglietto per l’Italia dicendo che puoi partire quando vuoi, andresti?”
Pausa.
“A patto che possa portare la mia famiglia?”
“Beh, si”
“Ahahahahah, ma che scherzi? Ma certo che partirei! Chiunque a queste condizioni se ne andrebbe da qua! C’è gente che paga anche per fare dei viaggi interminabili, paga un sacco di soldi e non è neanche sicura di arrivare… figurati se non me ne andrei!”
Ecco.
E Gulbudin arriverebbe, con la moglie e i suoi tre figli. Uno ingessato.

Come lo chiamereste voi Gulbudin?
Rifugiato?
Migrante?
Economico?
Clandestino?
Poveraccio?
Gulbudin, si chiama.
Gulbudin”.

— Roberto, infermiere di Emergency in Afghanistan

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