«Il senso dello Stato che contraddistingue il liberalismo troverebbe proprio nel servizio civile una sua riproposizione in questa nostra epoca postmoderna… Non si dà alcun obbligo o forzatura all’altruismo, bensì un mix di erogazione di prestazioni sociali tramite l’attivazione della società civile e di formazione ed educazione alla cittadinanza e alla convivenza in una comunità plurale»
L’AVVENIRE DEI LAVORATORI La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu Organo della F.S.I.S., centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 Sede: Società Cooperativa Italiana – Casella 8965 – CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano
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Civilian Service – «Il senso dello Stato che contraddistingue il liberalismo troverebbe proprio nel servizio civile una sua riproposizione in questa nostra epoca postmoderna… Non si dà alcun obbligo o forzatura all’altruismo, bensì un mix di erogazione di prestazioni sociali tramite l’attivazione della società civile e di formazione ed educazione alla cittadinanza e alla convivenza in una comunità plurale (di identità, gruppi sociali e anagrafico generazionali)». – Massimiliano Panarari
Il terrore e il furore – «Il terrore e il furore con cui l’Unione Europea e il governo italiano affrontano l’arrivo dei profughi nascono dall’oblio del passato e dall’incapacità di guardare al futuro. I profughi che hanno raggiunto l’Europa nel 2015 (l’anno di maggior afflusso) sono meno dei “migranti economici” arrivati o “legalizzati” ogni anno prima del 2008… Ma quel milione e mezzo è solo la metà degli abitanti che un’Europa sempre più vecchia perde ogni anno. Così tra non molto i governi europei dovranno richiamare nei loro paesi i fratelli e i figli di quegli esseri umani che oggi cercano di far annegare nel Mediterraneo, far morire di sete nel Sahara, far schiavizzare dalle bande che controllano la Libia, far azzannare dai cani e bastonare dalle guardie alle barriere di filo spinato dei Balcani». – Guido Viale
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EDITORIALE
A casa nostra e a casa loro
di Andrea Ermano
Si avventurano fino ai nostri bagnasciuga, disturbando le vacanze. Non provengono da zone in guerra o ufficialmente sottoposte a dittatura. Diffondono ogni genere di malattie costringendoci a reintrodurre i vaccini che eravamo riusciti a evitare in odio alle industrie farmaceutiche. Fanno figli. Figli che pretenderanno lo ius soli e poi chissà cosa. Vengono a rapinarci nelle nostre stesse case. Stuprano rumorosamente e sciattamente (non sistematicamente, silenziosamente, come si usa in certe brave cerchie familiari). Ammazzano passanti in atti terroristici sempre più sgangherati (non in nome dell’ordine e della disciplina come facevano i nostri vecchi servizi segreti deviati ai tempi delle stragi sui treni, nelle piazze e nelle banche). Ecco riassunta la “narrazione” sui migranti che si trae da giornali e telegiornali. E allora sorge la domanda: se così fosse (ma non è così!), che cosa dovremmo fare? “Aiutiamoli a casa loro”. Questa la risposta che tutti ti danno. Vabbè, siamo in campagna elettorale. Lo sapevamo. Ma lo xenofobo, cioè colui che rintraccia nello straniero una nicchia per la propria paura, userà la formula “aiutiamoli a casa loro” come tattica verbale. Dice “aiutiamoli”, ma intende “buttiamoli a mare”, come proclamava la Lega di dieci anni fa. Oggi non si dice più. Oggi non vale la pena spacciare la xenofobia per coraggio nazional-padano. Meglio lasciare che tutto, financo la sicurezza nella quale pure viviamo, si traduca in un’insicurezza diffusa. Perché nella storia umana mai c’è stato un tempo più sicuro del presente. Ma proprio perciò l’istinto profondo della paura si scopre disoccupato e teme d’implodere. Quindi, sì, aiutiamoli a casa loro. Uno straniero al giorno scaccia di torno la malinconia. Tanto poi mica nessuno va a verificare che tipo o quantità o qualità di aiuto gli si presta, a casa loro. Il governo italiano «cerca di spostare i confini dell’Europa al di sotto della Libia, per non farvi entrare chi scappa da dittature, guerre o disastri ambientali, gli altri governi dell’Unione europea hanno invece spostato da tempo quei confini alle Alpi», osservava il sociologo Guido Viale sul quotidiano “il manifesto” del 26 luglio scorso (vai al blog di Guido Viale). Gli altri stati europei stanno, insomma, facendo dell’Italia quello che il nostro Governo vorrebbe fare della Libia: «un deposito di esseri umani “a perdere”». Siamo retrocessi ancora una volta alla casella dei “centri di trattenimento libici”, dove massicciamente regnano condizioni subumane, oltre che la rapina, lo stupro e l’omicidio. A futuro monito delle masse sub-sahariane, a che mai più venga in mente a qualcuno l’insana fantasia di trasferirsi dall’Africa in Europa, il continente più ricco del mondo… Ma perché facciamo tutto ciò? L’Italia, e l’Europa, avrebbero bisogno di quei migranti, ma per accoglierli bisognerebbe spezzare prima il bando sovrano liberista che vieta le politiche di piena occupazione. Ché già solo a pronunciare questa formula si rischia il ridicolo. Perché, si obietterà, i robot, i computer, i software ecc. si stanno sostituendo ai contadini, agli operai, ai soldati, ai medici, agli avvocati e persino agli ingegneri. Quindi, che senso ha parlare di piena occupazione? La risposta qui per un verso investe il domani, per l’altro interpella però già il nostro oggi. Domani, la fuoriuscita dell’umanità dalla produzione esigerà di essere governata. Pena il disastro. Ma – pensateci – nessuno può governare una transizione che investe l’intera umanità, se non forse l’umanità stessa. E, infatti, una governabilità globale, ormai sempre più indispensabile, nessuno l’ha ancora vista. La fuoriuscita dell’umanità dalla produzione sarà ingovernabile senza che ciascuna e ciascuno di noi, mentre vede ridursi la propria attività strettamente economica, aumenti gradualmente il proprio impegno civile. La futura governabilità, dunque, appare possibile solo in un progressivo transito delle energie umane dalla dimensione strettamente economica a quella della cittadinanza. Un altro lavoro è possibile. Già oggi, però, è evidente che un sistema di allocazione delle energie e delle risorse produttive fondato sulla massimizzazione del profitto, pur dimostrandosi molto efficiente in certi campi, appare completamente cieco, invece, rispetto a una lunga serie di bisogni e interessi vitali. Per esempio, il capitale non “vede” come problemi “suoi”, da risolvere, le grandi masse di giovani disoccupati che affollano le coste mediterranee, o le grandi masse di persone che aspirano a trasferirsi dall’Africa in Europa, o le macerie dei territori colpiti da disgrazie naturali o belliche, o il compito di una riconversione eco-compatibile (e anti-sismica!) dell’intero parco immobiliare europeo. Tutte questioni che ufficialmente “non esistono” perché non ne consegue alcuna massimizzazione del profitto. Vale la pena qui avvertire che le due prospettive, quella del domani e quella dell’oggi, sono strettamente intrecciate, ma non identiche. L’una, quella del domani, s’innerva nella “destinazione” tecnico-scientifica della nostra intera civiltà e apre a scenari inediti, inauditi. L’altra, quella dell’oggi, riguarda “solo” il destino del capitalismo che è una forma storica di mercato giunta palesemente ai propri limiti di senso. Un altro mercato è possibile. Ciò detto per non rimanere prigionieri del pensiero unico, torniamo ai migranti, di cui gli stati europei, le società europee, avrebbero molto bisogno. Quindi, occorrerebbe, si diceva, una strategia generale d’integrazione in Europa. E d’altronde, non ha torto Guido Viale quando scrive che «è inutile vaneggiare di piani Marshall per l’Africa senza dire a chi sono diretti». Perché quei paesi non potranno certo rinascere per opera delle multinazionali che li stanno devastando, o di governi corrotti e sanguinari «che costringono a fuggire la parte migliore dei loro concittadini». Per Viale ci vorrà «una nuova grande leva di migranti e di cooperanti europei impegnati a costruire insieme non solo una nuova Europa qui, ma anche una grande comunità euro-afro-mediterranea là; aperta alla libera circolazione, non dei capitali, ma delle persone e delle loro aspirazioni». Per Viale, una grande strategia di “integrazione” dei migranti deve anzitutto «offrire a loro e, insieme, ai 25 milioni di disoccupati creati con la crisi, un lavoro». E anche qui, si obietterà che già appare del tutto irrealistico favoleggiare di “piena occupazione” per i nostri milioni di disoccupati…Figuriamoci, dunque, come sarebbe possibile assorbire anche milioni di migranti. «Per mettere tutte quelle persone al lavoro», argomenta Viale «ci vuole un grande piano di investimenti diffusi. Quel piano è la conversione ecologica, come prescritto dagli impegni presi al vertice di Parigi. Ma è un piano che non può riguardare solo l’Europa: deve coinvolgere anche i paesi di origine dei nuovi arrivati». Quindi non si tratta di “aiutarli a casa loro”, conclude Viale, bensì di aiutarli qui in Europa «ad aver voce e a rendersi parte attiva della pacificazione dei loro paesi in guerra; e, quando potranno tornarvi (e molti non aspettano altro), della loro ricostruzione, del loro risanamento ambientale e sociale, della loro conversione ecologica, con progetti e interventi analoghi a quelli da sviluppare qui».
Il sociologo e saggista Guido Viale
Per fare tutto questo, però, non basta semplicemente “un grande piano di investimenti diffusi”. Occorre, aggiungiamo noi, immaginare una rete non meno diffusa di istituzioni in grado di organizzare il grande progetto. Questa rete di organizzazioni è stata prefigurata da Ernesto Rossi nelle sue celebri considerazioni dedicate all'”esercito del lavoro”, tra cui quelle apparse su “Il Mondo” del 27 maggio 1950. Di lì bisogna attingere, per realizzare un grande Servizio civile nazionale ed europeo, aperto ai migranti, che affianchi e sorregga l’intero processo. Utopie? Lo vedremo. Per intanto, è bello constatare che queste “utopie” ricominciano a prendere piede nella società civile, come testimonia l’interessante saggio breve di Massimiliano Panarari – “Qui ci vorrebbe un servizio civile” – apparso sull’Espresso del 30 luglio scorso. «La società atomizzata ha un antidoto», sostiene Panarari, «un periodo in cui i ragazzi si conoscono, si mescolano, imparano l’empatia sociale». (Leggi il saggio breve di Panarari sul sito de L’espresso)
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Freschi di stampa, 1917-2017 (15)
Dalla terra redenta
Finalmente, giunge dalla Russia “con grande ritardo” la lettera della Dottoressa Angelica…
La Lettera di Angelica Balabanoff sull’ADL del 30 giugno del 1917
Due “fenomeni” dominano per Angelica Balabanoff la vita pubblica nella nuova Russia: 1) “Il grande disastro finanziario” e 2) “Il tradimento della borghesia”. La lettera della Balabanoff appare sull’ADL il 30 giugno del 1917, ma è stata scritta in maggio, cioè prima degli “ultimi incidenti”, c’informa la redazione con (pudico) riferimento al grande scandalo diplomatico che ha investito il ministro degli esteri svizzero Arthur Hoffmann, frattanto costretto a dimettersi. Hoffmann aveva segretamente tentato di mediare una “pace separata” tra Russia e Germania, e della mediazione egli aveva incaricato il parlamentare socialista, Robert Grimm, in viaggio sullo stesso treno della Balabanoff, ufficialmente per dare sostegno agli emigrati nel loro rientro in Russia. Angelica stessa, le cui antenne parlano di un’instabilità ben lungi dall’essere superata, non ha peli sulla lingua nell’allineare gli indizi che da San Pietroburgo preludono alla grande crisi incombente. Il 4 luglio 1917, fallisce una sollevazione popolare dell’ultrasinistra. I bolscevichi, che pure avevano tentato di “controllarla” giudicando del tutto “prematura” ogni forma di rivolta contro il “governo borghese”, ne escono con le ossa rotte. Ottocento di loro, tra cui Trockij, sono imprigionati; Lenin fugge in Finlandia; Stalin si dà alla macchia. La guida del governo provvisorio passa, a metà luglio, nelle mani del social-rivoluzionario Kerenskij. Di lì a poco, di conserva con il nuovo premier, il capo di stato maggiore, generale Kornilov, metterà in atto un tentativo di “normalizzazione” neo-conservatrice, un mezzo golpe. È il 2 settembre del 1917. Kerenskij lascia fare Kornilov per un paio di giorni. Poi, il 9 settembre, ne ordina improvvisamente l’arresto. E libera i bolscevichi, quelli stessi che lui medesimo aveva fatto imprigionare due mesi prima.
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