Esercito turco entra ad Afrin uccidendo e saccheggiando

Nella giornata di ieri, 18 marzo, milizie jihadiste sostenute dall’esercito turco hanno fatto ingresso in alcuni quartieri di Afrin, prendendoli sotto il loro controllo. Hanno umiliato e torturato civili, decapitato pubblicamente due combattenti, saccheggiato le abitazioni. Le forze confederali della Federazione del Nord o Rojava, per fortuna, avevano appena evacuato migliaia di civili, che si trovano adesso nella vicina regione di Sheeba, sempre nei pressi di Aleppo.

 

Afrin è sola?

Qual è la ragione della completa immobilità sociale di fronte alla tragedia di Afrin – che non è soltanto umanitaria, ma politica

 

Nella giornata di ieri, 18 marzo, milizie jihadiste sostenute dall’esercito turco hanno fatto ingresso in alcuni quartieri di Afrin, prendendoli sotto il loro controllo. Hanno umiliato e torturato civili, decapitato pubblicamente due combattenti, saccheggiato le abitazioni. Le forze confederali della Federazione del Nord o Rojava, per fortuna, avevano appena evacuato migliaia di civili, che si trovano adesso nella vicina regione di Sheeba, sempre nei pressi di Aleppo. Questi eventi sono arrivati dopo due mesi di strenua resistenza da parte delle unità popolari e femminili Ypg-Ypj, che hanno il compito di difendere la rivoluzione delle donne e delle comuni, nelle campagne attorno alla città, pur nella disparità di mezzi. Le forze rivoluzionarie hanno dichiarato che questi eventi segneranno il passaggio dalla guerra aperta alla continuazione della resistenza sotto forma di guerra di guerriglia.

Ciò che sconvolge, di tutta questa vicenda, è il silenzio internazionale. Da un lato quello degli stati, e non perché ci si debba aspettare che essi spontaneamente sostengano o difendano delle forze rivoluzionarie, ma perché la loro ipocrisia denuncia la debolezza politica di chi all’interno dei loro confini preme perché quella resistenza non sia lasciata sola, o almeno perché non si fornisca aiuto finanziario e militare a chi la aggredisce (la Turchia). L’aggressione ad Afrin batte bandiera turca, ma il vero responsabile è la Russia di Putin, ansiosa di avere Erdogan come alleato. Tuttavia, tanto gli Stati Uniti quanto gli stati europei si sono guardati bene dall’intervenire, ben consapevoli che l’indebolimento della rivoluzione del Rojava non va certo a detrimento di chiunque voglia un Medio oriente governato da forze compiacenti e conservatrici; ragione che ha anche sconsigliato il regime siriano dal difendere i suoi confini nazionali, pur di permettere che l’unica reale forma di opposizione nel paese venisse sottoposta a dure perdite militari.

Qual è la ragione, invece, della completa immobilità sociale di fronte a una simile tragedia – che non è soltanto umanitaria, ma politica? È vero che raramente popolazioni tra loro lontane hanno dato reciproca testimonianza di una solidarietà di massa. Coloro che guardano un po’ più in là del loro naso erano pronti a prendere posizione in altre occasioni come lo sono oggi, ma si tratta pur sempre di minoranze. Tuttavia, la questione di Afrin e della resistenza al jihadismo, in nome di una società egualitaria e non patriarcale, coinvolge direttamente il mondo arabo e quello europeo: non riguarda soltanto una città nel nord-ovest della Siria. Si tratta di una contrapposizione profonda, che cela questioni esiziali ed irrisolte per il mondo di oggi e per quello che si affaccia domani; ed è per questo che se non viene mostrata vicinanza ad Afrin nel mondo arabo e in Europa non è propriamente per la distanza – questo mondo è da tempo una metropoli globale – ma per ignoranza.

Ovunque la rivoluzione confederale della Siria del Nord sia conosciuta, essa ottiene le simpatie di almeno una parte delle persone (o l’odio sincero, se prevalgono vedute opposte sui temi che solleva), e la maggioranza delle persone (lo vedo durante i miei viaggi) mostra di considerare un dovere difendere i principi e gli obiettivi di un simile movimento. È un sentimento che va persino al di là delle diversità politiche che si esprimono alle elezioni, perché la rivoluzione reale è sempre più potente e unificante di quella libresca. Il problema è che la rivoluzione del Rojava non è conosciuta oggi, tendenzialmente, che da minuscoli circoli politici, isolati sul piano comunicativo. Le popolazioni europee e del resto del mondo sono del tutto ignare del fatto che stia accadendo e soprattutto di cosa sia. La censura operata in questi anni su questa rivoluzione non è stata casuale ma deliberata, sebbene secondo criteri del tutto moderni e dissimili da quelli che si sarebbero usati magari un tempo.

Anche là dove i combattimenti delle Ypg rivestivano un’importanza mediatica considerevole, come in occasione delle operazioni contro l’Isis, ci si è ben guardati dal chiarire l’identità politica e i caratteri del progetto sociale e istituzionale difeso dai combattenti curdi. Anche là dove la presenza di combattenti donne solleticava l’attenzione dei media europei, ci si è sempre ben guardati dallo spiegare i caratteri della concezione rivoluzionaria della donna e della sua liberazione propria di quel movimento (che ha delle cose da dire, e tiene a dirle, anche sulla condizione della donna in occidente, non soltanto nel mondo musulmano) e sulle sue realizzazioni pratiche in questo campo. Anche dove si è voluto insistere sul carattere “curdo” della lotta contro l’Isis (anche in ambiti solidali) non sempre si è fatto un favore alla verità: senz’altro le Ypg sono in maggioranza curde, ma da tempo esse fanno parte delle Forze siriane democratiche e combattono a fianco delle Forze di autodifesa, che sono in maggioranza arabe; e questo è un fatto di rilevanza estrema, perché dimostra che le idee confederali possono contagiare in prospettiva il Medio oriente.

L’informazione non ha quindi permesso agli europei di comprendere che si tratta di una rivoluzione sociale e che ci sono molti motivi anche “egoistici” per difenderla. Non a caso ha anche mentito sulla natura dei nemici di questa rivoluzione, in particolare ad Afrin, presentandoli come “ribelli siriani”, “free syrian army” o “opposizione siriana”. Questo è il modo in cui i media ci ingannano sulla Siria e sul mondo in cui viviamo ormai da troppi anni. Quei miliziani – lo si vede anche dai crimini commessi in queste ore – sono in realtà islamisti radicali, banditi, mercenari e predoni animati dall’ideologia jihadista: nulla a che fare con la ribellione, con la rivoluzione siriana o con l’opposizione ad Assad per una maggiore libertà in Siria. Perché non chiamarli per quello che sono, “jihadisti”? Forse perché l’Italia, assieme a vari altri paesi europei e agli Stati Uniti, ha supportato politicamente fin dal 2011 la Fratellanza musulmana in Siria, in funzione anti-Assad, e tutte le formazioni jihadiste sponsorizzate dall’alleato turco, pur di non inimicarsi Erdogan (così utile per tenere lontani dai nostri confini i profughi… che lui è stesso ha contribuito a creare) o, tra le altre cose, per la realizzazione del Turkish Stream che si connetterà al “nostro” Tap?

A poco serve prendersela con gli italiani, con gli abitanti dei paesi arabi o con gli europei se non scendono in piazza per Afrin. L’informazione che controlla il mondo sa come modificare il significato degli eventi storici con l’uso delle parole, e non è possibile valutare quale sarebbe la reazione popolare a una sfida come quella di Afrin se le informazioni fornite fossero approfondite e sufficienti. È troppo comodo, come fanno alcuni, sentenziare ogni volta sul fatto che le persone “sono delle capre” e degli “egoisti” se non viene mai data l’opportunità ad esse di mostrare se sono in grado di scegliere da che parte stare, non foss’altro per impedire il dilagare della violenza jihadista o che intere popolazioni debbano migrare non per scelta vera e propria, ma per la guerra e la pulizia etnica che vengono loro dispensate; o, ancora, per permettere alle persone di scegliere liberamente il proprio destino, anche al fine di poter fare, noi, eventualmente la stessa cosa. Nessuna amicizia internazionale sarà possibile senza l’informazione e la conoscenza di ciò che accade; né queste ultime saranno possibili senza che si creino strategie efficaci per divenire tecnicamente e politicamente egemoni sul piano dell’informazione.

Fonte:  Davide Grasso, Quinto tipo

19/3/2018 • Global Rights

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