“La violenza nella e della scuola”

Possiamo affrontare senza retorica e scorciatoie, senza assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni miopi, il tema della violenza nella scuola? Secondo Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca, le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se risultano spesso poco visibili: gli ambienti della scuola sono quasi sempre poco accoglienti ed estranei a bambini e ragazzi, i diversi tempi di apprendimento raramente vengono assecondati […]

 

 

La violenza nella e della scuola

Possiamo affrontare senza retorica e scorciatoie, senza assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni miopi, il tema della violenza nella scuola? Secondo Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca, le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se risultano spesso poco visibili: gli ambienti della scuola sono quasi sempre poco accoglienti ed estranei a bambini e ragazzi, i diversi tempi di apprendimento raramente vengono assecondati, per effettuare attività principalmente cognitive si fa ricorso a una disciplina esigente accompagnata da minacce di valutazioni e punizioni, a volte si aggiunge anche l’atteggiamento autoritario di alcuni adulti insegnanti. Nello stesso tempo gli insegnanti si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi. Intanto la società continua ad essere un luogo di conflitti e di guerra “sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro….” Per questo “non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione…. Questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione…”

Come è noto in questi tempi quasi ogni giorno si ha notizia di violenza nella scuola. La cronaca ne è piena, con una particolare sottolineatura per quanto riguarda la violenza di ragazzi nei confronti di altri ragazzi ma anche di ragazzi verso i professori e di genitori verso i professori. Meno si ha notizia di violenza da parte di professori nei confronti dei ragazzi e meno ancora di violenze di professori verso i genitori.

Cerchiamo, senza retorica, senza scorciatoie, senza l’enfasi che la voglia di schierarsi imprime al dibattito, dividendo tra assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni facili e talora miopi. La questione è molto complessa e richiede di tenere conto di un grande insieme di variabili, in assenza delle quali il giudizio è semplificatorio e inutile.

Anzitutto chiediamoci. A che tipo di violenze assistiamo nella scuola e, in secondo luogo, è la scuola un luogo violento? Io credo che le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se molte di esse risultano spesso poco visibili e ignorate, mentre di fatto vanno chiamate in causa per capirci qualcosa.

La scuola è un’istituzione normativa e, in parte, violenta. Lo è anzitutto in quanto “obbliga” bambini e ragazzi a trasferirsi massicciamente dai loro ambienti propri in ambienti fortemente regolati e estranei che non hanno scelto e all’interno dei quali sono tenuti a osservare moltissime norme che limitano pesantemente la loro libertà di muoversi, di essere soggetti a pieno titolo e di esprimersi spontaneamente.

Questo non dobbiamo mai dimenticarlo. La nostra società ha scelto, con piena corresponsabilità di tutti, genitori compresi, di rinchiudere bambini e ragazzi all’interno di una struttura che loro non hanno scelto e riguardo alla quale hanno una possibilità molto limitata di incidere e di far valere il proprio punto di vista. Questo vale anche per i genitori e per alcuni insegnanti più sensibili a questo ordine di obblighi non sempre sensati per quanto attiene i processi di apprendimento che dovrebbero verificarsi al suo interno.

Noi chiediamo ai nostri bambini e ragazzi (e mi scuso se ogni volta non aggiungo, come sarebbe giusto, bambine e ragazze ma è per semplicità) di alzarsi molto presto la mattina (cosa che in molti casi è una vera e propria violenza ai loro ritmi biologici) e di trasferirsi dai loro luoghi famigliari in luoghi non proprio esaltanti sotto il profilo estetico, del clima umano e dell’ospitalità, che noi chiamiamo scuole.

All’interno di questi luoghi poi vengono concentrati in gruppi che non scelgono, di fatto al comando di adulti, gli insegnanti,  che hanno il compito di far rispettare una disciplina piuttosto esigente (silenzio, ordine, riduzione radicale del libero movimento e della libera espressione ecc.) per effettuare attività principalmente cognitive non sempre gradite sotto la minaccia di valutazioni, sanzioni, procedure punitive ecc. I corpi e le menti dei bambini e dei ragazzi trattati in questo modo soffrono di una palese repressione e di una costante vigilanza che spesso travalica anche il buon senso, arrivando a censurare abbigliamenti, linguaggi, gesti che appartengono di fatto alla pienezza di espressione dei piccoli in crescita.

Ciò che si fa nella scuola è spesso fratturato in piccole unità difficili da ricomporre e delle quali comprendere il senso, è appesantito da compiti e prove continue o comunque molto frequenti non sempre rispettose delle esigenze individuali di tempi di apprendimento non standardizzabili specie su grandi numeri.

A tutto questo e altro che ora non posso, per esigenze di spazio, mettere in luce (organizzazione del tempo libero e delle uscite dalla classe, tempi fisiologici di riposo e “ricreazione”, tempo di libera espansione corporale ed espressiva ecc. ecc.), si aggiunge talora l’atteggiamento autoritario e minaccioso di alcuni adulti insegnanti, il che non fa che aumentare il carico di umiliazioni, soggiogamento e minaccia talora gratuita che i piccoli devono sopportare sempre in assenza di un loro spontaneo e attivo consenso.

Noi non possiamo mai dimenticare tutto questo, in special modo se teniamo conto, come dimostrano innumerevoli studi, del ruolo che la libertà relativa, il clima affettivo e supportivo e soprattutto il coinvolgimento appassionato ha sul processo di apprendimento, su qualsiasi processo di apprendimento.

Intendiamoci, non che queste norme non valgano in parte anche per gli insegnanti, che si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi per le loro risorse, a dover impartire insegnamenti che appunto impattano nel disinteresse dei soggetti in carico e di dover, sempre in ragione della strutturazione disciplinare e ricattatoria dell’insegnamento, trattare una popolazione sofferente e poco propensa a seguirli.

E tuttavia è chiaro che le punizioni, le sanzioni e la minaccia aumentano in proporzione diretta con il grado di sofferenze, di mancato coinvolgimento e di libertà che i soggetti in apprendimento sperimentano all’interno della struttura “concentrazionaria” nella quale sono obbligati a restare per una parte preponderante del loro tempo di vita.

In un contesto di tale genere io credo che si debba parlare di violenza diffusa, con gradazioni e sfumature anche molto diverse ma intrinseca al funzionamento dell’istituzione stessa.

I bambini e i ragazzi sono molto diversi gli uni dagli altri, come è normale che sia, e reagiscono a questo trattamento in maniera molto diversa. Ci sono alunni che, per ragioni anche di ordine psicologico, beneficiano di una strutturazione anche rigida, cioè trovano nella “funzione quadro” garantita dal contesto, come spiega René Kaes in un testo ormai vecchio ma sempre verde, L’istituzione le istituzioni, un ancoraggio rassicurante e funzionale. Per altri invece una tale strutturazione, spesso imbastardita dall’eccesso di controllo e di sanzioni, è insopportabile. In mezzo ci sono molte sfumature.

Fino a qualche decennio fa tutto questo sembrava pacifico. Secondo una visione piuttosto ottusa, mi si conceda, della psicologia dei bambini, si riteneva che l’obbligo, la frustrazione, il sacrificio, fossero in sé cosa buona e giusta per farli crescere. Un’idea antica e profondamente legata a una formazione adattiva per contesti di vita molto difficili e conflittuali che teneva in considerazione l’individualità e la soggettività dei bambini ben poco.

Nel giro di alcuni decenni, a partire dagli anni Sessanta ma anche molto prima in modo meno massiccio, si è allargata la nostra visione (anche grazie ai molti studi di pedagogia nuova e attiva che apparivano via via e alle sperimentazioni ad essi legate) a una comprensione più ampia del bambino e della necessità di tenere più conto di un processo che dobbiamo chiamare di soggettivazione individuale, di scoperta e coltivazione dei suoi talenti specifici e di autonomia. Pedagogisti, educatori e molti genitori si sono andati via via sensibilizzando intorno questa diversa comprensione e non hanno più colluso con un trattamento educativo fondato sulla sofferenza, sul rigore e sulla frustrazione.

Nel contempo tuttavia la società ha continuato ad essere un luogo di conflitti, di vera e propria guerra sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro. Teniamo conto anche di questo perché è questo che vedono, manifesto in ogni luogo, i nostri cuccioli intorno a loro, spesso nei loro genitori o nei ragazzi più grandi o, in mole davvero pervasiva, attraverso i media.

Tutto ciò non può che fare cortocircuito. Oggi molte famiglie sono sensibili alla salute psichica, fisica e affettiva dei propri figli (quello che viene chiamato il fenomeno della “famiglia affettiva” nei confronti della quale francamente non riesco a trovare nessun elemento di recriminazione perché finalmente è una famiglia che “vede” i propri bambini, o almeno ci prova e non è più disposta a delegarne completamente l’educazione a una struttura così poco comprensiva come quella scolastica). Gli insegnanti stessi, in una misura notevole, hanno cominciato a rendersi conto che occorre cambiare registro, anche se l’organizzazione scolastica ha fatto ben poco per venire loro incontro e, di fatto, il funzionamento dell’istituzione è cambiato, specie sotto il profilo disciplinare, ben poco. Come poco è cambiato sul piano dei saperi da apprendere, del modo di trattarli e delle prove di valutazione, che semmai sono diventate ancora più invasive e persecutorie.

Noi non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione. La scuola è un luogo violento, dove si consuma violenza quotidiana, dove le libertà essenziali dei bambini e dei ragazzi sono ridotte al minimo vitale.

È chiaro che oggi nel mondo c’è un clima che tende anche a incoraggiare questa ribellione, c’è più comprensione, c’è più contraddizione. Ma intendiamoci, e qui mi permetto di prendere posizione, questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione.

I bambini e i ragazzi sono soggetti a pieno titolo che hanno il diritto di essere accolti nel migliore dei modi possibile, di essere incoraggiati a trovare e intraprendere le “loro” strade, che devono essere valorizzati nelle loro differenze e ascoltati, che devono avere tempi di riposo, di libertà, di scatenamento come è consono con le esigenze dei loro corpi e della loro età.

Finiamola con il moralismo becero del tipo che occorre frustrarli perché altrimenti se ne occuperà la società. Un bambino frustrato non sarà per questo più capace di affrontare le frustrazioni della vita. Si abituerà solo a sopportarle e a non criticarle, a non cercare di cambiarle, avendo introiettato gli schemi della sottomissione e dell’accettazione.

Perché mettiamo i nostri figli al mondo se davvero crediamo che la realtà faccia schifo e che loro devono imparare da subito a essere sanzionati, normati, privati delle loro libertà? Stiamo scherzando? Con questo non voglio giustificare nessuno. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità ma non dobbiamo dimenticarci mai quale sia l’origine del problema, dove si annidi, chi siano i suoi attori primari. Il resto sono conseguenze, più o meno folli. Ma il punto di scaturigine sta in un meccanismo sbagliato ab initio.

Occorre cambiare, se vogliamo che domani cambi anche una società che non ha di meglio da dire ai suoi cuccioli se non imparate oggi a soffrire perché domani sarà peggio.

 

di Paolo Mottana Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. Tra i suoi ultimi libri La città educante (Asterios). Altri articoli di Mottana sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna di Comune Un mondo nuovo comincia da qui

 


 

STORIE DEL POSSIBILE
La redazione allargata di Comune promuove un incontro sulle esperienze diversamente connotate (solidali, sociali, trasformative…), nate “dal basso” e locali, promosse in Italia e in Europa. “Storie del possibile, pratiche e ricerche a confronto” si terrà a Roma il 21 e 22 aprile e accoglierà oltre centro persone provenienti da tutta Italia
PROGRAMMA E METODOLOGIA DI LAVORO

 

ECCO DOVE SONO I PACIFISTI
Che i “grandi” media se ne facciano una ragione: oggi il movimento pacifista non va in piazza ma promuove campagne, agisce dentro i conflitti, costruisce relazioni nella società civile, denuncia il business delle armi, si ribella facendo
APPELLO

LE ARMI CHE UCCIDONO IN SIRIA
Quando ci si domanda chi porta le armi in Siria, Arabia Saudita, Africa e Medio Oriente, non bisogna dimenticare che gli Stati Uniti sono il primo produttore di armi mondiale, seguito guarda un po’ dalla Russia. Il business delle armi della National rifle association – tra i principali sponsor dei parlamentari statunitensi – semina morte ogni giorno nelle scuole americane come in Siria e Medio oriente
DANIELE MOSCHETTI

VERGOGNARSI PRIMA DEGLI SMARTPHONE
La scrittrice israeliana che denuncia da decenni la violenza e le stragi dell’occupazione coloniale della Palestina ragiona sulla vergogna che finalmente sembra poter cominciare a scuotere parte della popolazione del suo paese. Ci sono israeliani, scrive, che credono che solo tre settimane fa i comandanti abbiano iniziato a ordinare ai soldati di uccidere anche in assenza di un pericolo mortale. L’inammissibile ritardo di questa consapevolezza ci ricorda peraltro anche l’assurdità della debolezza della parola scritta, quando non è basata sulle versioni dei fatti confezionate dai governi o dai vertici militari ma solo sulla testimonianza delle vittime e non sulle prove fotografiche imbarazzanti che oggi possono entrare in ogni casa
AMIRA HASS

GAZA RICORDA VITTORIO ARRIGONI
Come ogni anno i palestinesi commemorano l’attivista italiano, per anni voce della lotta per la libertà del popolo palestinese. Sette anni dopo nessuno lo ha dimenticato. Il racconto di un giorno molto speciale nei video di Michele Giorgio tratti da Nena News
MICHELE GIORGIO

QUARANTOTTO ORE PER CELESTINO CORDOVA
È un machi, cioè un’autorità religiosa del popolo mapuche. Sta mettendo a rischio la sua vita per salvarla e per affermare la dignità del suo popolo. Chiede di poter tornare per 48 ore nella propria comunità per compiere una cerimonia imprescindibile per la propria salute fisica e spirituale, ma le istituzioni cilene che lo hanno rinchiuso in carcere senza prove, dopo un processo condotto con strumenti giudiziari che le Nazioni Unite hanno più volte stigmatizzato, non ne vogliono sapere. Violano, in questo modo, il diritto internazionale (“Convenzione 169” della ILO, “Dichiarazione universale dei popoli indigeni”) e le norme del regime penitenziario cileno prevedono un’applicazione interculturale del diritto al culto e alla salute che permetterebbero la concessione di questo beneficio. Così Celestino si sta lasciando morire, non mangia da 96 giorni e ha smesso anche di bere, i medici che lo seguono hanno affermato che, nelle condizioni di quella protesta estrema, non può resistere più di 72 ore. Il racconto di Manuel Zani, dell’Associazione di solidarietà Il Cerchio che lo ha incontrato
MANUEL ZANI
 

LA DISOBBEDIENZA SCRITTA DALLA SABBIA
Da noi e nel nostro piccolo, nel Sahel, il rifiuto di obbedire lo mettiamo in pratica, scrive Mauro Armanino, missionario in Niger. Disobbediamo ai comandamenti rivelati dell’economia e crediamo invece nella polvere che, coltivata con perizia, prova a inceppare il meccanismo neocoloniale. La disobbedienza, qui da noi, è scritta dalla sabbia. Si declina col verbo ‘dignitare’, che balbettano solo i poveri espulsi dalla scuola di Stato. I primi a disobbedire sono i migranti. Come Tesfalidet, partito da un villaggio dell’Eritrea, dove sarebbe stato chiamato “codardo”, in quanto disobbediente al decreto di guerra permanente del dittatore Afewerki. Riuscito a sfuggire anche ai lager libici, “Segen” (soprannome che ne racconta la mag rezza) era stato recuperato in mare dalla nave della ONG spagnola Proactiva Open Arms, dissequestratta solo ieri dal gip di Ragusa, è morto il giorno dopo il suo sbarco a Pozzallo, il 12 marzo. Il primario del Pronto Soccorso dell’ospedale di Modica, dottor Roberto Ammatuna, ha raccontato che vederlo, gli ha ricordato le immagini delle persone liberate dai campi di concentramento tedeschi. Ci restano le sue poesie, scritte su biglietti intrisi di salsedine
MANUEL ARMANINO
 

CATTIVA EDUCAZIONE
Susanna Tamaro, a proposito degli ultimi eventi di aggressioni scolastiche e di prepotenza, lamenta il tramonto dell’educazione, invocando più autorevolezza e “un generoso, appassionato ripristino della cultura”. Secondo la scrittrice servirebbe un’autorevolezza che si ispirasse al kyosaku, il bastone usato dai maestri zen per risvegliare la coscienza degli allievi assopiti, insomma un po’ di autorevolezza manesca, non guasterebbe. “Quando Susanna Tamaro invoca un generoso e appassionato ripristino della cultura, dimostra di non aver compreso che non è di ritorni al passato che l’educazione d’oggi ha bisogno, ma di cultura nuova, che ancora non abbiamo – scrive Giovanni Fioravanti – E alla quale neppure i così detti intellettuali del no stro paese dimostrano di essere in grado di contribuire…”
GIOVANNI FIORAVANTI
 

L’INVENZIONE DELLA TRADIZIONE
Cosa ci fa la propaganda pan-germanista con tanto di costumi tra i banchi di una scuola elementare? Chi ha deciso che militarismo, esaltazione delle guerre, integralismo religioso, disprezzo della ricerca storica possono entrare in una scuola pubblica? Scrive il gruppo di inchiesta Nicoletta Bourbaki: “D’altronde da almeno un secolo in Trentino-Alto Adige Südtirol si affrontano e si affiancano due destre: quella «italianissima» e quella «pantirolese», che hanno una cosa in comune: il rifiuto della complessità, delle sfumature e delle commistioni tipiche delle terre di frontiera. Un rifiuto che li porta a quella che Eric J.Hobsbawm chiamava «l’invenzione della tradizione»…”
NICOLETTA BOURBAKI

LE MANI SULLE FOGLIE DEL TABACCO
Pochi sanno che lo Zimbabwe, nonostante sia uno dei paesi più piccoli dell’Africa, è il primo produttore africano di tabacco e il sesto al mondo. Per diverse multinazionali è un vero paradiso, poco importano gli avvelenamenti provocati dalla nicotina o dai pesticidi tossici. Naturalmente a lavorare nelle sterminate piantagioni ci sono anche tantissimi bambini e bambine
NIGRIZIA

L’AGROECOLOGIA ENTRA NELL’AGENDA DELL’ONU
Al secondo Simposio Internazionale di Agro-ecologia, tenuto alla Fao al cospetto di 350 organizzazioni della società civile, dei rappresentanti di 72 governi e di 6 organizzazioni delle Nazioni Unite, si prende finalmente atto dell’urgenza di un radicale cambiamento di rotta. Il direttore generale della Fao definisce “esaurito” il modello di agricoltura che imperversa da decenni, esaltando il mantra della produttività, e che non ha certo risolto il problema della fame del mondo. La via da percorrere è quella dell’agroecologia, capace di reintrodurre la diversità nelle fattorie, rafforzare i sistemi alimentari locali, rivalutare la conoscenza tradizionale, assicurare equità e accesso alla terra e alle risorse economich e e rispettare le molteplici culture alimentari nel mondo. Era ora, no?
MANLIO MASUCCI

IL PIANETA DELLE SCIMMIE DA AMMALARE
I nuovi casi di animali frutto di clonazioni, come le scimmiette cinesi Zhong Zhong e Hua Hua, dimostrano prima di tutto che abbiamo bisogno di imparare ad ascoltare ciò che l’immenso dolore animale, nascosto in molto modi, ha da dirci. Il fatto che gli animali vengono sempre di più “prodotti”, allevati, fatti ammalare, usati, uccisi in nome dell’assoluto interesse umano e del profitto è un problema che riguarda tutti, a cominciare da chi dice di voler creare un mondo nuovo
ANNMARIA MANZONI

UNA CASA IN CUI PRENDERSI CURA
“La casa sul mare” è un film sul prendersi cura, di se stessi e degli altri. Senza retorica. Senza banalità. Senza pietismi. Senza nemmeno soluzioni facili o proposte irenistiche e consolatorie che mettano tutti d’accordo…
CARLO RIDOLFI

PIÙ BICI VUOL DIRE MENO INCIDENTI
Fioccano campagne e spot sulla sicurezza stradale rivolti a pedoni e ciclisti – utenti deboli, non inquinanti, non ingombranti della strada – come se fossero loro i primi responsabili del caos stradale e degli incidenti. Non importa se i dati dimostrano il contrario: secondo Safety in numbers, raddoppiando il numero di ciclisti si riduce del 34% il rischio di incidenti per chilometro mentre se questi si dimezzano il rischio aumenta del 52%. Ma questo è il moralismo che piace alla polizia stradale, al ministero dei Trasporti, ai costruttori di strade e alle industrie automobilistiche perché non tocca il vero responsabile dell’incidentalità: il traffico delle auto
LINDA MAGGIORI

MANDIAMO IL CARBONE IN PENSIONE
Il carbone è responsabile di oltre 20mila morti premature solo in Europa e contribuisce a quasi la metà delle emissioni globali di C02. Ma l’industria carboniera sta lottando con ferocia contro il “pensionamento anticipato” dei suoi impianti e continua a progettarne nuovi. Senza alcuna copertura assicurativa, però, tali impianti non si potrebbero realizzare, così come quelli esistenti dovrebbero essere chiusi. Il settore assicurativo è dunque in una posizione unica per svolgere un ruolo chiave nell’evitare i catastrofici cambiamenti climatici già in atto. Per la cronaca Generali, una delle più grandi compagnie assicurative in Europa, è pesantemente coinvolta nel business del carbone in Est-Europa. È tempo di cambiare le nostre scelte?
LUCA MANES

FACCIAMO IL PANE INSIEME
“Cari Compagni, sì, Compagni, perché è un nome bello e antico – scrive Mario Rigoni Stern – che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino “cum panis” che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane… “. Sabato 21 aprile laboratorio di base di autoproduzione del pane – promosso dall’associazione La Strada – nello spazio sociale e culturale romano di Gordiani in comune (via Pisino 30, zona Villa Gordiani)
R.C.

 

AGENDA COMUNE:

ROMA, 21 E 22 APRILE STORIE DEL POSSIBILE

RIACE, 26 MAGGIO RETE DEI COMUNI SOLIDALI

LA CAMPAGNA PER SOSTENERE COMUNE:
UN MONDO NUOVO COMINCIA DA QUI

AGENDA:

SULMONA, 21 APRILE MANIFESTAZIONE NO SNAM

MONDEGGI-FIRENZE, 21 APRILE CORSO DI BIRRIFICAZIONE

NAPOLI, 22 APRILE FESTA DI PRIMAVERA CON IL GRIDAS

MILANO, 22 APRILE DIFENDIAMO RI-MAKE

MODENA, 27 APRILE MARATONA DI LETTURA CONTRO LA CENSURA

Sharing - Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *