“Loreto 2.0? Noi siamo assolutamente contrari”

A Trieste, nel pavimento di Piazza dell’Unità d’Italia, è incastonata una targa con le seguenti parole: «il 18 settembre 1938 Mussolini scelse questa piazza per annunciare l’emanazione delle leggi razziali antiebraiche macchia incancellabile del regime fascista e della monarchia italiana».

 

 

L’AVVENIRE DEI LAVORATORI

21 giugno 2018 – e-Settimanale della più antica testa della sinistra italiana / Direttore: Andrea Ermano

www.avvenirelavoratori.eu / Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894

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IPSE DIXIT

 

Trumpino contro la scorta a Roberto Saviano – «Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero». – Matteo Salvini

 

 

              

EDITORIALE

 

Loreto 2.0? Noi siamo

assolutamente contrari.

 

di Andrea Ermano

 

A Trieste, nel pavimento di Piazza dell’Unità d’Italia, è incastonata una targa con le seguenti parole: «il 18 settembre 1938 Mussolini scelse questa piazza per annunciare l’emanazione delle leggi razziali antiebraiche macchia incancellabile del regime fascista e della monarchia italiana».

    Escludendo gli Ebrei italiani dal novero della cittadinanza, il capo del fascismo ottant’anni fa si accodò alla follia hitleriana e si predispose a seguirla lungo il terrificante precipizio della Seconda guerra mondiale. La difesa della razza fu un atto esecrabile non meno dell’entrata in guerra. E la guerra portò in dote a Trieste la Risiera di San Sabba: un forno crematorio appositamente realizzato in luogo dell’essiccatoio del riso per bruciare i cadaveri dei prigionieri ebrei, partigiani e antifascisti. Erano tempi quelli in cui migliaia di morti passavano per un camino. Ma molti altri corpi venivano esposti sulla pubblica piazza e lasciati in pasto agli animali e alle mosche.

 

 

Aligi Sassu, Martiri di Piazzale Loreto (1944, part.). “La pubblica

esibizione dei corpi degli impiccati e fucilati era stata praticata

dalla Rsi come forma estrema di controllo della piazza italiana,

la forma più muta eppure la più parlante possibile” (Luzzatto, 58).

 

Sette anni, sette mesi e tredici giorni dopo il discorso di Trieste il corpo del duce penzola dalla pensilina di un distributore milanese. È domenica 29 aprile 1945.

    Mussolini, arrestato mentre tentava di fuggire in Svizzera travestito da soldato tedesco, è stato giustiziato il giorno prima in un paese sulla riva occidentale del Lago di Como per ordine del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). Verso le tre del mattino un camion entra a Milano e va a scaricare il corpo del duce con altri tre cadaveri sul luogo esatto in cui, nell’agosto precedente, erano stati fucilati quindici giovani dissidenti.

    La notizia del capo del fascismo esposto a Piazzale Loreto si diffonde immediatamente in tutta la città. Mussolini aveva dovuto abbandonare Milano quattro giorni prima. Una foto lo ritrae il 25 aprile 1945 all’uscita dalla Prefettura. È l’ultima immagine del tiranno da vivo.

    Adesso la gente accorre a insultare quel corpo morto, infierendo su di esso con sputi, calci, spari e altri orribili oltraggi. Il servizio d’ordine decide di appendere le salme a testa in giù. Ai cadaveri del duce, della Petacci, di Bombacci e di Pavolini si aggiunge poco dopo quello di Starace, ex segretario del Partito nazional-fascista. Caduto in disgrazia e privo di cariche pubbliche, il privato cittadino Starace era stato fermato per strada e fucilato alla schiena. Ora è appeso anche lui a testa in giù.

    I migliori fotoreporter accorrono sul luogo della macabra esposizione. I loro scatti iniziano a fare il giro del mondo. Immagini orrorifiche tratte da una “scena carnevalesca con il cadavere del duce cui i partigiani avevano fatto impugnare un troncone di gagliardetto fascista, scettro burlesco da monarca dei Pulcinelli” (Sergio Luzzatto, Il corpo del duce, Torino, 1998, p. 71). L’orrore, da anni spettacolo nazionale, ricade ora addosso a quel che resta del suo principale responsabile, con greve leggerezza: “Due serie di fotografie” – annota Luzzatto – “sono state riprodotte addirittura come cartoline”.

    Dal rifugio in un convento svizzero Edda, figlia maggiore del duce e vedova di Ciano, segue la scena sintonizzandosi su Radio Milano Libera che manda l’evento in diretta: “Sembrava che trasmettessero un resoconto sportivo di Nicolò Carosio”, ricorderà in seguito con comprensibile amarezza.

    Il leader socialista Pietro Nenni quel mattino si trova a Roma e sta ascoltando Radio Monteceneri nella speranza che giunga un indizio sulla sorte della figlia Vittoria, della quale egli ancora non sa che è morta ad Auschwitz. Gli arriva, invece, l’annuncio dei corpi appesi a Milano come quarti di carne da macello mentre la fiumana di folla urla e maledice. Va in macchina un’edizione straordinaria dell’Avanti! recante il titolo Giustizia è fatta. Ma in redazione, con i suoi, «Nenni parla di Mussolini come di uomo non cattivo e contiene a stento il proprio fastidio quando il redattore capo – un ex fascista – propone: “Andiamo tutti a brindare. Offro io.”» (Luzzatto, p. 73).

    Non pochi testimoni dell’epoca condividono il giudizio nenniano secondo cui l’uomo Mussolini non era intrinsecamente malvagio, a differenza di Hitler, fatto di ben altra pasta. Ora per entrambi lo spettacolo è giunto all’epilogo. L’uno pende cadavere, l’altro si aggira come un ratto in trappola nel suo bunker, prima del suicidio che verrà consumato di lì a pochi giorni.

    Ma tre anni prima d quel lugubre tumulto a Piazzale Loreto e di quella fosca caduta nibelungica di Berlino, i due tiranni, l’italiano e il tedesco, si incontrano a Salisburgo. Il 29 aprile 1942 decidono di scatenare una grande offensiva in Africa settentrionale. Loro sono fatti così, s’incontrano, concordano leggi razziali, persecuzioni di massa, deportazioni continentali, macelli mondiali. Dopodiché l’uno sarà stato anche “buono” intrinsecamente e l’altro intrinsecamente “cattivo”. Ma il male che insieme hanno scatenato non trova paragoni a memoria d’uomo.