Molto spesso ci si dimentica dell’etimologia del termine privatizzazioni e privato, e non si ragiona a sufficienza sul fatto che il concetto abbia a che fare con il privare, con il togliere, con l’escludere una parte consistente della società da qualcosa che precedentemente le apparteneva o alla quale poteva accedere.
Repertorio bibliografico ragionato sul tema delle privatizzazioni su «Proteo» dal 1998 ad oggi
Premessa
Molto spesso ci si dimentica dell’etimologia del termine privatizzazioni e privato, e non si ragiona a sufficienza sul fatto che il concetto abbia a che fare con il privare, con il togliere, con l’escludere una parte consistente della società da qualcosa che precedentemente le apparteneva o alla quale poteva accedere. Il modo in cui questo processo epocale sia avvenuto e stia avvenendo, richiede un passo indietro di circa un trentennio. Ci sembra dunque opportuno precedere questa rassegna con un minimo di contestualizzazione storica. È proprio a partire dagli anni della caduta del muro di Berlino nell’89 che si assiste ad un processo di ripensamento e messa in discussione delle proprie posizioni da parte di quasi tutte le dirigenze delle forze politiche e sociali che nella storia recente si erano adoperate per un cambiamento “progressista” della società nel nostro Paese, ampliando in questo modo il disorientamento che questa nuova narrazione generava anche in quelle persone che non l’accettavano tout court. La nostra rivista e la nostra area politica in questo contesto si sono sempre distinte invece per mantenere una voce critica all’interno di un discorso quasi totalizzante, che assumeva molte delle posizioni di origine neoliberale, e di portare avanti analisi basate sui dati fattuali ricollegati al contesto generale che mutava. È stata una scelta di metodo e di merito della quale andiamo orgogliosi, perchè è attraverso essa che oggi possiamo coerentemente riprendere il filo del ragionamento, e stabilire un collegamento teorico e politico con la nostra attività passata. Quello che emerge da questa breve rassegna di articoli, che consigliamo comunque di leggere per intero sul sito per una più approfondita formazione, è quindi una posizione che fin dal primo numero della rivista ci pone radicalmente critici nei confronti delle privatizzazioni. Non critici per pura presa di posizione, ma impiegati in una operazione di smascheramento, attraverso uno studio dei dati, della retorica che occupava tanta parte dell’opinione pubblica. In un discorso pubblico che cercava di concentrarsi sulle necessità tecniche, quindi percepite come neutre, di operare certe scelte, Proteo ha sempre evidenziato il nodo centrale di quanto stava avvenendo: una radicale ristrutturazione del ruolo che il nostro Stato assumeva all’interno della società, ponendo fine alla sua azione interventista che tentava, almeno nei principi e pur con i suoi limiti, la ricerca di uno sviluppo equilibrato nel Paese, la lotta alla disoccupazione, l’erogazione di servizi volti al miglioramento del benessere collettivo, ovvero il perseguimento, in breve, di obiettivi sociali e non solo di pura efficienza economica. Una trasformazione che non è avvenuta per sola scelta della nostra classe dirigente ma in relazione alla firma del trattato di Maastricht e la conseguente necessità, per restare nel processo di formazione europea, del rispetto dei principi e vincoli neoliberali che il trattato fondativo dell’Unione Europea impone. La necessità derivante da quei vincoli di ridurre in misura drastica il debito pubblico, giudicato insostenibile, ha portato i nostri governi dal ’92 in poi a (s)vendere e quotare sui mercati azionari aziende pubbliche statali, anche se efficienti e in attivo, il settore bancario pubblico e permettere l’entrata dei privati all’interno delle aziende municipalizzate e nell’erogazione di servizi essenziali. Che questa necessità fosse una scusa venduta all’opinione pubblica lo dimostrano i dati a oltre venticinque anni di distanza: se infatti il debito nominale del 1992 era di 849 miliardi di euro, con un rapporto deficit/pil del 105%, il debito nominale nel 2012 (venti anni dopo) era arrivato a 1988 miliardi di euro con un rapporto deficit/pil del 127% che nel 2015 è arrivato a 2.194 miliardi con un rapporto deficit/pil salito al 134,7%. Mentre gli obiettivi dichiarati sono stati tutti mancati, si è invece raggiunta la finanziarizzazione di una grossa fetta della nostra economia, volta quindi a finalità speculative e non investimenti produttivi o volti alla crescita. Insieme a questo abbiamo assistito ad un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro e un aumento vertiginoso della disoccupazione nel nostro paese.
Per comodità del lettore manteniamo un ordine cronologico che gli permetta di reperire facilmente il testo di riferimento, ricordando che tutti i numeri di Proteo dal 1998 al 2010 sono disponibili sul sito www.proteo.usb.it
Anno 1998, 1
Luciano Vasapollo e Rita Martufi
I diversi modelli del capitalismo internazionale si confrontano sulle strategie di privatizzazione
Fin dall’inizio il tema ha assoluta centralità nell’elaborazione della rivista. Il quadro di riferimento è immediatamente individuato nel contesto di competizione internazionale tra diversi modelli capitalistici, quadro che solo permette di capire la ferocia e la ostinazione con la quale i processi descritti siano stati portati avanti in questi anni. Nell’articolo gli autori si sforzano di dare degli strumenti di lettura dei fenomeni di privatizzazione, in questo caso attraverso una classificazione delle imprese che possono essere definite “pubbliche” differenziandole in aziende di Stato, sottoposte al controllo diretto statale e il cui bilancio rientra in quello dello Stato; le aziende di proprietà dello Stato, in tutto simili a quelle private ma con l’operatore pubblico che partecipa in modo da garantirsene il controllo; le aziende finanziate dallo Stato che pur essendo pubbliche agiscono con un alto grado di autonomia di gestione. Ciò che bisogna tenere a mente quando si parla di queste imprese è che il loro obiettivo non è la massimizzazione del profitto ma raggiungere traguardi che riguardino l’interesse della collettività. Pur rimanendo fondamentali infatti i risultati di gestione positivi, la loro amministrazione deve guardare anche ai fattori collegati all’economia nazionale con l’obiettivo di raggiungere efficienza allocativa, redistributiva e sociale andando a correggere in alcuni casi i fallimenti del mercato. Nel corso del secolo scorso lo Stato aveva progressivamente ampliato il proprio intervento nell’economia andando a formare quelle che vengono definite economie miste, caratterizzate cioè sia da una presenza dell’imprenditoria privata sia da un intervento diretto come produttore, regolatore e distributore da parte dello Stato. Il grande compromesso sociale che aveva caratterizzato il trentennio postbellico era stato proprio questo: al suo interno si inseriva perfino il quadro politico Costituzionale scelto dal Paese ed il nuovo assetto repubblicano. La dinamica di cui parliamo non a caso prova a mettere in discussione ed a fare retrocedere rispetto a quel quadro, come l’inserimento del Pareggio di bilancio all’art. 81 della Costituzione, o il tentativo di controriforma sconfitto fortunatamente il 4 dicembre 2016 stanno lì a dimostrare chiaramente.
Ogni processo di privatizzazione ha realizzato senza dubbio effetti negativi quantitativi e qualitativi sull’occupazione. Le nazionalizzazioni sono avvenute spesso proprio per consentire di mantenere il posto di lavoro in imprese che attraversavano momenti anche di seria crisi e che rischiavano di fallire. A seguito delle privatizzazioni nel migliore dei casi è fortemente aumentata la mobilità, la flessibilità del lavoro e del salario, incidendo negativamente sui ritmi, sulla condensazione e sui turni di lavoro. Quasi sempre esse hanno inoltre provocato la diminuzione di garanzie e la compressione dei diritti sindacali. Inoltre l’opinione molto diffusa che le privatizzazioni avrebbero consentito una riduzione del debito pubblico si è rivelata fortemente illusoria: in caso di privatizzazione, infatti, la posizione patrimoniale netta del settore pubblico non cambia nel presente (alla diminuzione dello stock di debito si associa una diminuzione dell’attivo) e il beneficio economico è limitato all’esercizio in cui si realizzano le eventuali entrate connesse all’alienazione delle attività. Vendere le migliori aziende pubbliche, i gioielli di famiglia, provoca l’effetto di ridurre il patrimonio statale senza avere effettivi benefici a lungo termine.
In conclusione anche attraverso le modalità attuative dei processi di privatizzazione, l’articolo dimostra come il neoliberismo internazionale si sia rimodellato, in termini soprattutto finanziari, per comprimere le scelte e le impostazioni di tipo pubblico-collettivo che avevano caratterizzato le cosiddette economie miste. Le privatizzazioni sono state fondamentali per esaltare l’economia finanziaria speculatrice a scapito del fattore produttivo lavoro, attraverso di esse infatti sono emerse forze tese al guadagno più immediato possibile e basato principalmente su atti di speculazione, non generando mai processi redistributivi ma anzi di destabilizzazione negli equilibri politico sociali.
Anno 1998, 1
Rita Martufi
Privatizzazioni e mercati finanziari
Nello stesso numero compare un altro pezzo a cura di Rita Martufi. È un articolo che ha caratteristiche tecniche che qui riduciamo agli aspetti essenziali ai fini dell’obiettivo che ci diamo, ovvero ricostruire un quadro storico e teorico adeguato per leggere il nostro presente. Vi si affrontano le diverse tipologie di privatizzazione, sia di welfare sia d’imprese, che vengono messe in atto dagli inizi degli anni ’80 con tempi e forme differenti. Esistono principalmente due modi diversi di intendere la privatizzazione:
Da un lato vi è la privatizzazione sostanziale nel caso in cui la gestione dell’impresa venga assunta totalmente dai privati, ossia si effettua un vero e proprio trasferimento della proprietà dall’azienda pubblica al settore privato; in questo caso il privato diviene a tutti gli effetti titolare della proprietà.
Vi è poi la privatizzazione indiretta, che comprende tutte quelle forme “deboli” di privatizzazione. Queste sono chiamate così poichè l’attività dell’impresa viene solo modificata per consentire una gestione più vicina alle compatibilità del mercato (rispettando cioè criteri di economicità, efficienza, profitto, competitività). Queste categorie riguardano tutte le forme di privatizzazione che mirano alla trasformazione delle formule di gestione delle imprese pubbliche lasciando però inalterato, almeno per quanto riguarda i pacchetti di controllo, la proprietà.
Anno 1998,1
Emidia Papi
L’opposizione del sindacalismo di base ai progetti di privatizzazione
Ancora nello stesso numero, Emidia Papi declina l’argomento centrale dal punto di vista del sindacalismo conflittuale e della sua azione di contrasto alle privatizzazioni. È questo un tema costante della rivista in corrispondenza ad una attività sindacale che sulla difesa del welfare ha creato un elemento di identità organizzativa importante. L’articolo evidenzia come le privatizzazioni siano state una costante nei governi che si sono susseguiti dall’inizio degli anni ‘90, dal governo Amato, Ciampi, Dini fino ad arrivare a quello Prodi che addirittura, nella campagna elettorale, si vanta del suo ruolo attivo nella svendita dell’IRI. Oltre alle dismissioni dello Stato, anche gli enti locali iniziarono a privatizzare le aziende municipalizzate. Con questi atti non si è solo svolto lo smantellamento dello Stato sociale, ma una totale ridefinizione dei rapporti economici e sociali interni al nostro paese. Il trasferimento di ricchezze e poteri dai redditi dei lavoratori verso il capitale finanziario, che è accelerato duranti gli anni della corsa alle privatizzazioni, è stato portato avanti da esecutivi autoritari (ad esempio la Thatcher o governi Sud Americani) o da esecutivi che potevano contare su una tregua sociale e la collaborazione dei sindacati più forti, come nel caso italiano. Queste privatizzazioni non sono però avvenute senza che sorgessero opposizioni, come quelle rappresentate dalle campagne per i referendum, sostenute dai sindacati di base, a Milano e Roma, quest’ultimo perso per pochi punti, in cui si evince che a votare contro queste scelte fossero principalmente i quartieri popolari, nonostante gran parte dei partiti rappresentanti la “sinistra” si ponessero a favore e spesso fautori delle politiche di privatizzazione. La vicenda della storia sindacale da fine degli anni Novanta ad oggi, non può farci dimenticare il passaggio avvenuto all’interno del sindacalismo di base, ed in particolare al passaggio da Rdb ad USB, risalente certo qualche anno dopo questo articolo. La trasformazione di cui questa rassegna vuole in qualche modo rendere conto, il cambiamento del ruolo dello Stato, la definitiva abdicazione delle organizzazioni che avevano incarnato, sia pure in maniera inadeguata un orizzonte di miglioramento delle condizioni complessive, costringe parte del sindacalismo di base a prendersi il compito di darsi una funzione generale, di classe e di massa, che è quella incarnata oggi da USB.
Anno 1998,1
Luciano Vasapollo
La via alle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano.Un’indagine statistico-aziendale
Gli articoli di Luciano Vasapollo su Proteo vanno intesi come parte integrante di una produzione teorica che negli stessi anni trovava spazio in libri, iniziative, dibattito internazionale, attività formativa dentro e fuori dall’ambito sindacale.
Quali sono i punti centrali della trasformazione che stiamo descrivendo: dagli inizi degli anni ’80 si assiste, in tutti i paesi a capitalismo maturo, ad un processo di assestamento della presenza pubblica in economia. Lo Stato ricorre al privato anche per la soddisfazione dei bisogni collettivi prioritari. Non si ha solo una riduzione del potere dello “Stato-imprenditore” ma anche una velocizzazione della privatizzazione dello stesso Welfare State, imponendo un restringimento delle sue caratteristiche di universalismo delle prestazioni pubbliche fondamentali (incentivando, così, un sempre maggior ricorso alla sanità privata, all’istruzione e formazione a connotati aziendali, al ricorso a forme pensionistiche integrative private, ecc.).
La prima inversione di tendenza in Italia avviene con la dismissione di un numero ridotto di imprese che però sembrava seguire più gli interessi di una parte delle grandi famiglie del padronato italiano, come dimostrano alcune vicende giudiziarie, piuttosto che dei fini di utilità pubblica. Proprio in quegli anni l’autore è impegnato a scrivere un volume sulla storia del capitalismo italiano dal titolo molto significativo sulla natura e le caratteristiche strutturali dello sviluppo economico del nostro paese, Storia di un capitalismo piccolo piccolo. Dal governo Amato del ’92 in poi si ha una massiccia dose di dismissioni che, seguendo le pressioni derivanti dal processo di unificazione europea (la firma del trattato di Maastricht è dello stesso anno), vanno a perseguire il risanamento delle finanze pubbliche e nello specifico la riduzione del debito pubblico. Questa però risulta essere una narrazione più ideologica che fattuale, giacchè l’ammontare delle grosse privatizzazioni tra il 1993-95 andrà a ridurre il debito pubblico solo del 1,5%, vendendo però apparati produttivi in attivo. Nello stesso periodo si assiste anche all’avvio della privatizzazione del welfare che presenta bene l’abbandono da parte dell’Italia dell’economia mista e la tutela di diritti universalistici ed il perseguimento invece di un modello neoliberale a capitalismo selvaggio posto come modello per la nascente Europa di Maastricht, espressione dei grandi capitali finanziari (tutto questo mentre la “sinistra” osannava il processo di unificazione europea). Lo Stato sociale infatti smette di perseguire l’universalismo dei diritti ma si riconfigura sempre più come parziale e inadeguato sostegno agli strati più poveri della popolazione. I parametri di efficienza, logica del profitto e competitività sul mercato, caratteristici della gestione d’impresa, diventano i principi sui quali si evolve lo Stato sociale. In questo modo si genera un sistema economico nel quale la spesa pubblica non è indirizzata ad un reale rafforzamento infrastrutturale del Paese e ad una efficiente produzione di servizi pubblici, anzi si realizza una società con maggiori differenziazioni sociali, in cui è sempre più ridotto il sistema di protezione sociale a favore delle fasce di cittadini più deboli.
Anno 1998, 2
Luciano Vasapollo, Rita Martufi
Indagine statistico-aziendale sulle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. La via al Profit State europeo
Un aspetto metodologico va sottolineato, ovvero il fatto che l’analisi del Cestes si basi sul metodo dell’inchiesta. Si tratta di una pratica che ha sempre caratterizzato e continua a caratterizzare il centro studi, secondo l’aureo principio che “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”. Si tratta dello stesso metodo e della stessa indagine che in quegli anni indagava anche il versante soggettivo della condizione di classe, giunto poi alla pubblicazione de La coscienza di Cipputi.
Per affrontare il dibattito sulle privatizzazioni è utile ricordare anche una dichiarazione pubblica dell’allora Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, nella quale vengono ben espressi i veri obiettivi delle privatizzazioni italiane: abbattere definitivamente la cosiddetta “terza via” incentrata su un’economia mista; distruggere anche culturalmente la concezione di uno Stato interventista e occupatore per restituirgli un ruolo di regolatore, cioè di chi impone alla società le regole dell’impresa e del Profit State; riaffermare la centralità del mercato, unica divinità capace di regolare l’intera attività economica intorno alle regole di efficienza di un’imprenditorialità aggressiva e selvaggia. Il fatto che queste trasformazioni abbiano trovato una così debole reazione nell’opinione pubblica è dovuto anche ai trascorsi dei due decenni precedenti, caratterizzati da cronache di dissesti annunciati, a falsi bilanci societari costruiti in funzione di nascondere forme illegali di finanziamento al sistema dei partiti. Questi malfunzionamenti venivano presentati come superabili attraverso un capitalismo finanziario “selvaggio”, incentrato sulla pura ricerca del profitto e giustificato dalle capacità di autoregolamentazione del mercato, cercando quindi di cancellare la cultura di un modello di sviluppo basato sull’investimento produttivo che crea occupazione.
La forte critica alle trasformazioni verso il Profit State non può però approdare alla logica del “si stava meglio quando si stava peggio”, con finti mercati concorrenziali, guidati da un indissolubile intreccio tra sistema politico, mondo degli affari e della finanza con protezioni e favori reciproci. Bisogna però ristabilire il ruolo di mediazione della politica con un sistema di mercato sottoposto al controllo dell’autorità pubblica, ma indipendente dalle logiche partitiche e del potere economico; con un potere politico separato dal potere economico ed uno Stato garante delle esigenze collettive e degli equilibri sociali, con controlli reali e trasparenza.
È chiaro che oggi, con l’avanzamento del processo di centralizzazione europea, la prospettiva di un recupero della funzione dello Stato è direttamente proporzionale alla capacità conflittuale che una soggettività politica sarà in grado di mettere in campo rispetto ai vincoli internazionali che, con una regolarità ferrea, hanno scandito in questi anni la costruzione di un apparato sovrastatale totalizzante all’interno del quale non vi è alcuno spazio di recupero di pezzi di stato sociale, diritti e servizi pubblici.
Anno 1998, 3
Luciano Vasapollo
Didendiamo il servizio elettrico nazionale contro la distruzione dell’ENEL
Alcuni esempi pratici rendono molto bene la misura dei problemi. Si parla in questo caso dell’ENEL, ma tanti altri esempi di dismissioni e privatizzazioni potrebbero essere citati nello stesso periodo. L’ENEL in qualità di ente pubblico nasce nel 1962 attraverso la nazionalizzazione di quasi 1.300 aziende elettriche di natura privata. Il fine era quello di possedere una disponibilità energetica adeguata per quantità e prezzo alle modalità di uno sviluppo economico equilibrato dell’Italia, mantenendo nel contempo minimi costi di gestione, elettrificando la totalità del Paese e assicurando un servizio pubblico. Durante i decenni ha rappresentato un punto di riferimento per l’intero sviluppo economico e sociale italiano, favorendo, attraverso un servizio elettrico tra i migliori nel mondo, la crescita dell’intero sistema economico e un significativo miglioramento delle condizioni di vita dell’intera popolazione. Impossibile quindi sostenere che l’Enel fosse uno dei famosi “carrozzoni pubblici” che dissipavano denaro pubblico. Nonostante questi risultati, anche in termini di efficienza e di efficacia gestionale, nel 1992 il governo ha disposto la trasformazione dell’ENEL in società per azioni suggerendo per la collocazione sul mercato. Sembra quindi che con privatizzazione dell’ENEL si sia voluto perseguire un disegno tutto politico incentrato su un ruolo dello Stato come portatore degli interessi dell’impresa privata e non per favorire i cittadini e l’interesse pubblico inteso nella sua forte accezione politico-sociale redistributiva.
Anno 2000, 1
Antonio Di Stasi
Federalismo, sistema elettorale e privatizzazione del pubblico impiego
Nell’articolo si evidenzia come con le vicende di Tangentopoli (da noi lette fin da subito come operazione politica dall’alto, attraverso l’uso della Magistratura, del passaggio dalla cosiddetta Prima alla Seconda Repubblica), grossa parte del ceto politico, anche dei partiti di sinistra, abbia visto la causa della corruzione sistemica come insita al sistema proporzionale e alla forma dello Stato. Si è dato così avvio ad una riforma del rapporto con lo Stato centrale con spinte federalistiche. Le riforme sul decentramento dei poteri in senso partecipativo e regionalista, previste anche costituzionalmente, hanno però assunto le forme del federalismo incentrato sulla concentrazione dei poteri, come nel caso del nuovo ruolo assunto dai Sindaci e Presidenti e in generale dei più ampi poteri dati alla maggioranza che vince la contesa elettorale. In questo contesto mutato si avvia anche una forma di privatizzazione dell’amministrazione pubblica che sempre meno può essere gestita con forme burocratiche complesse, ma deve rapportarsi al “nuovo” modo di gestire l’ente pubblico. Il rapporto di lavoro deve essere gestito in termini manageriali e così sfuggire ai meccanismi conciliativi tra ceto impiegatizio e apparato politico che storicamente era dato notare nel pubblico impiego. L’efficienza della pubblica amministrazione deve passare attraverso una gestione del rapporto di lavoro secondo canoni di gerarchia e di responsabilità. Sembra di assistere ad una transizione da un modello di stato sociale ad una radicale diversa concezione della funzione pubblica, verso cioè un nuovo sistema che si esprime non soltanto attraverso il federalismo, l’introduzione di regole privatistiche all’interno della pubblica amministrazione, ma anche attraverso la diminuzione di compiti e funzioni pubbliche in un’ottica di privatizzazione anche dei servizi pubblici con una ridiscussione dei compiti e delle finalità dell’amministrazione pubblica. Gli esiti di questo processo sono oggi sotto gli occhi di tutti e costringono a ripensare anche la attività sindacale all’interno dei settori di pubblico impiego coinvolti, perchè su istruzione, salute, casa, trasporti, servizi bisogna oggi immaginare delle forme di coinvolgimento allargato che pongano fortemente il tema della ripubblicizzazione del lavoro e dei servizi, all’interno di una campagna generale che vede protagonista tutta la Federazione Sindacale Mondiale.
Anno 2000, 3
Sergio Cararo
Il federalismo dei nuovi boiardi
Anche questo articolo di Sergio Cararo si confronta con una questione al tempo all’ordine del giorno, quella della riforma in senso federalista dello Stato. A cavallo del nuovo millennio si ha l’introduzione del principio di sussidiarietà nell’ordinamento italiano (legge Bassanini 1997 e riforma Titolo V Costituzione 2001) che prevede la limitazione dell’azione dell’organizzazione statale superiore (es. Stato centrale o regione) nei confronti dell’organizzazione statale inferiore (es. provincia, comuni) nel fornire un servizio che si reputa sia meglio gestito a livello locale. Questa riforma è avvenuta parallelamente alla spinta verso la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali e locali, consegnandoli sia ad aziende private sia al campo del “no profit” con una ristrutturazione dei servizi in questione in senso aziendalistico. Si assiste così ad una sorta di assalto alle risorse pubbliche da parte degli interessi del capitale finanziario permesso da un nuovo ceto dirigente in ascesa che lega il proprio potere al territorio. Si ha quindi la definizione di due linee di interessi: una europeista, legata ai processi di internazionalizzazione, e una legata ai poteri locali, andando in questo modo a escludere la vecchia classe dirigente ristretta su una sola area nazionale. Da questa riorganizzazione federalista e di privatizzazione della ricchezza pubblica beneficiano una serie di figure sociali che reggono nelle proprie mani quote crescenti di ricchezza e poteri; infatti l’aziendalizzazione selvaggia dei Comuni e degli enti locali, ha offerto ad esse uno spazio di manovra illimitato costruendo nuove lobby politico/finanziarie. Si sono venuti a creare un gran numero di consulenti, dirigenti degli enti locali, dirigenti delle ASL, di managers del no profit, di amministratori locali e amministratori delle aziende locali privatizzate, che costituiscono un blocco sociale che dispone di redditi elevatissimi, di pacchetti azionari e di complicità strettissime permettendo loro di “governare” i poteri locali disponendo di una spesa pubblica crescente e con un sistema di potere blindato grazie al sistema elettorale maggioritario.
La creazione dei nuovi poteri federali ha coinvolto anche gli alti funzionari e dirigenti degli enti locali che ottengono copiosi bonus economici nel caso di alti risparmi di gestione dell’ente. Questo ha causata una diminuzione del numero di lavoratori con parallelo aumento del salario dei dirigenti. Nascono così quei surplus di reddito che viene investito in azioni, in titoli di stato o in fondi di investimento che i commentatori chiamano “risparmio gestito delle famiglie” e che noi definiamo ricchezza sociale rubata ai lavoratori e agli utenti dei servizi. Un processo che continua senza ritegno anche oggi, pur nel contesto della conclamata crisi, che evidentemente è crisi soprattutto per le classi subalterne, per i lavoratori, per i precari, per i disoccupati, per tutte quelle parti di società che vengono private, come dicevamo nel cappello introduttivo, di una quota sempre maggiore di ricchezza sociale.
Anno 2001, 2
Maria Rosaria Del Ciello
Le privatizzazioni dei servizi nella Pubblica Amministrazione e negli enti locali
La privatizzazione dei servizi e di organizzazioni del settore pubblico – ci dice Maria Rosaria Del Ciello – è divenuta via via una caratteristica distintiva della politica dell’Unione Europea durante tutti gli anni Novanta. Bisogna ricordare che quando si parla di settore pubblico ci si riferisce alle Amministrazioni pubbliche ossia al complesso delle Amministrazioni Centrali, degli enti previdenziali e delle amministrazioni locali: in sostanza si tratta di amministrazioni che producono beni e servizi non destinati alla vendita. Più precisamente con il termine Pubblica Amministrazione si intende l’operatore che produce servizi collettivi i quali, non formando oggetto di compravendita, non hanno un prezzo di mercato, attuando inoltre la redistribuzione del reddito e della ricchezza.
L’inversione di rotta nella gestione economica con la riduzione degli interventi statali nell’economia può essere ricondotta sia alle direttive di “liberalizzazione selvaggia” adottate dall’Unione Europea in materia di telecomunicazioni, ferrovie, trasporto aereo, servizi postali, energia, tutte misure volte all’apertura dei mercati nazionali alla concorrenza; sia alla realizzazione dell’Unione economica e monetaria dell’Europa che in virtù del principio di convergenza dettato dal trattato di Maastricht ha spinto i governi a vendere beni statali e interessi nelle compagnie industriali. I processi di trasformazione avvenuti sono quindi ampiamente determinati dall’affermazione dell’ordinamento comunitario e del suo principio fondante della concorrenza come elemento costitutivo del mercato unico europeo. La stessa centralità acquisita dal mercato dà forza a un’impostazione che vede nella privatizzazione e nella scelta del sistema concorrenziale l’unica soluzione ai problemi di servizi pubblici a volte inefficienti, senza tenere in conto però i possibili fallimenti di mercato nella gestione di beni o servizi pubblici. Nella gestione dei servizi pubblici l’equilibrio tra i costi sostenuti e i prezzi attribuiti è difficilmente riconducibile alle logiche di mercato, poiché vi sono diversi obbiettivi che questi servizi intendono realizzare.
Anno 2002, 1
Joseph Halevi
La privatizzazione finanziaria
Con la crisi di accumulazione capitalista iniziata negli anni ’70, determinata da una difficoltà maggiore che investimenti reali producessero alti profitti, si è avuta nei paesi occidentali la tendenza verso la finanziarizzazione dell’economia per ricercare nuovamente alti profitti. La finanziarizzazione però è ormai sostenuta attivamente dagli Stati e ciò contribuisce a modificare la definizione stessa del settore pubblico e di ciò che conviene che sia pubblico o privato. In sostanza lo Stato assume non solo la funzione di assecondare l’espansione finanziaria ma di diventare a sua volta una fonte di surplus finanziari appunto. La crisi dell’accumulazione comporta che le imprese si adoperino quindi per aumentare la pressione per una flessibilità verso il basso dei salari rispetto alla produttività, mentre il settore bancario cercherà rendite sui prestiti. Questi due elementi vengono coordinati dalla finanza pubblica che asseconda le attese di austerità sia da parte dei mercati finanziari che da parte delle imprese nei confronti dei salari. Sulla finanza pubblica ricade quindi il compito di introiettare l’austerità nella gestione del rapporto tra massa salariale e spesa sociale. La privatizzazione viene fatta quindi in funzione di aspettative speculative sul piano azionario ed in funzione dell’austerità salariale. Raramente tale ricetta produce la sbandierata quadratura dei conti. La riduzione della spesa pubblica, l’aumento della disoccupazione permanente, la necessità di correre in salvataggio di istituti finanziari in eventuale difficoltà impone allo Stato di predisporre gli strumenti volti ad evitare il riemergere dei deficit pubblici. Le privatizzazioni entrano in questa logica che si sposa pienamente con l’obiettivo di classe di arricchire il capitale privato trasferendo nelle sue mani ampie fette di ricchezza pubblica. Nel mondo economicamente avanzato le privatizzazioni si effettuano nei settori strategici, con l’obbiettivo della formazione di oligopoli dominanti in settori a rendite assicurate, oppure nei settori dei servizi terziari cambiando le condizioni contrattuali e normative, introducendo precarizzazione e diversificazione nelle funzioni sociali. Considerando che nei paesi avanzati la crescita occupazionale tra anni ’70 e ‘90 è stata più forte nei settori aventi un ruolo di servizio pubblico, i processi in atto precarizzano la gran massa delle persone che vi sono impiegate.
Anno 2002, 2
Arturo Salerni
Legge finanziaria e privatizzazione dei servizi pubblici locali
Arturo Salerni fornisce delle importanti indicazioni sulla questione degli appalti dei servizi pubblici locali. Con la legge finanziaria del 2001 si dà nuovo impulso alla privatizzazione, si prevede infatti per i servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale l’affidamento diretto a società di capitali costituite o partecipate dagli enti locali, con l’importante specificazione che la gestione diretta da parte dell’ente locale debba avvenire solo quando non sia opportuno un suo affidamento ai soggetti terzi. Quindi la forma della gestione diretta da parte dell’ente locale viene prevista come eccezionale o residuale, addirittura da motivare. Quel che emerge chiaramente dal testo è che l’ente locale resta solo il proprietario degli impianti, può accederne alla gestione tramite società partecipata in competizione con imprese ma è escluso dall’erogazione del servizio che avviene solo tramite imprese che vincono gare d’appalto. In questo modo i servizi pubblici locali vengono allontanati sempre di più dal controllo democratico che potevano esercitarvi i cittadini tramite i consigli comunali e si assiste all’ingresso di soggetti privati che perseguono invece interessi discordanti rispetto quelli della popolazione.
Linee di lettura della attuale fase di privatizzazioni – Luca Bardino
Quanto detto finora, quanto citato, non esaurisce certo l’intervento di Proteo sul tema. Intendiamo dire che anche laddove non si affronta direttamente la questione, la lettura che la determina è un sottotraccia che attraversa anche la produzione della rivista nel passaggio da quadrimestrale a numero annuale, avvenuto dopo il 2010. I numeri monografici sull’Unione Europea, sulla storia sindacale, sulla nuova catena del valore, tanto per indicare tre numeri particolarmente significativi e discussi all’interno della organizzazione, sviluppano spesso temi che il lavoro di inchiesta dei primi anni della rivista aveva già chiaramente individuato. L’intero processo delle privatizzazioni in Italia, per quanto non ancora terminato nelle sue potenzialità, rappresenta nella storia del nostro Paese un momento di radicale trasformazione. Il ruolo dello Stato infatti cambia rispetto a quello che esso aveva ricoperto in grossa parte del ‘900, in quella che viene definita la “via italiana al capitalismo” caratterizzata da un’economia mista con la costituzione, a seguito delle grandi lotte operaie del ventennio ’60-’70, di uno Stato sociale con pretese universalistiche e la costituzione di tutta una serie di servizi pubblici e garanzie nel rispetto dei diritti fondamentali costituzionali. Si assiste invece ad un ritiro dello Stato dall’intervento diretto nell’economia, abbandonando quindi la produzione e la distribuzione di beni ed il perseguimento di obbiettivi sociali dell’economia come la piena occupazione o lo sviluppo dei territori più svantaggiati, e il suo riposizionamento in un ruolo di regolatore dei processi economici lasciando quindi al mercato ampia libertà d’azione, nella dichiarata idea che esso possa perseguire determinati obbiettivi di efficienza e sviluppo meglio dello Stato stesso. Se quindi i primi tentativi di privatizzazioni di fine anni ’80 sembrano essere stati più segnati dagli interessi di alcuni comparti industriali privati di acquisire a prezzi convenienti aziende pubbliche, con l’inizio degli anni ’90 e soprattutto a seguito della firma del trattato di Maastricht si avvia un processo di profonda ristrutturazione. Le motivazioni addotte all’epoca erano sia di natura ideologica sia legate a problematiche strutturali dell’economia italiana.
Nel primo caso la matrice ideologica neoliberale presupponeva una migliore efficienza delle aziende e poi dei servizi se gestite da privati o comunque sulla base aziendalistica di ricerca del profitto, una minore corruttibilità, la superiorità della competizione e della concorrenza nel migliorare i prodotti e i servizi. In questo modo si sarebbero evitati gli sprechi o le male gestioni che nel caso italiano erano sorti in alcune gestioni di imprese pubbliche e sistema di potere dei partiti. In secondo luogo la grossa crescita che il debito pubblico aveva conosciuto nel decennio precedente e la necessità, legata ai vincoli imposti dal trattato di Maastricht, di ridurlo dava un importante pretesto per vendere beni pubblici con l’intenzione risanarne una parte. Inutile dire, a un quarto di secolo di distanza, che ciò non abbia raggiunto gli obbiettivi dichiarati ma sia servito invece a dare un ruolo preminente al mercato, alla crescita del peso della finanza nell’economia e al critico peggioramento dei diritti del lavoro, nonché riduzione del numero di posti di lavoro.
Le privatizzazioni hanno permesso ad una grossa massa di ricchezza di spostarsi all’interno dei settori finanziari e, grazie alla più facile mobilità acquisita, agganciarsi a parte del processo di integrazione dei capitali europei. Ciò è avvenuto in linea con quella che viene definita finanziarizzazione dell’economia, avvenuta grosso modo nello stesso decennio nei paesi occidentali, e derivante dalla difficoltà che il processo di accumulazione capitalista riscontra nell’economia reale, trovando nella finanza e nella speculazione profitti più alti.
Nel caso italiano le privatizzazioni hanno prima riguardato la dismissione di aziende e banche pubbliche, successivamente si sono concentrate sui servizi pubblici locali. Quest’ultima azione è stata poi supportata da una riforma del quadro istituzionale, la riforma federalista, inserendo il principio di sussidiarietà in Costituzione e delegando agli enti locali gran parte della spesa pubblica ma impedendo loro di gestire direttamente i servizi a causa delle liberalizzazioni. Il processo si è avviato attraverso privatizzazioni indirette a tutti i settori dei servizi pubblici come la sanità, la previdenza sociale e l’istruzione. Si assiste quindi alla presenza del privato e a rapporti di mercato basati su logiche aziendalistiche crescenti all’interno della nostra società che, oltre ad un cambiamento dei rapporti sociali, va in realtà a erodere gran parte dei diritti acquisiti durante le lotte del secolo scorso. Risulta quindi necessario approfondire e aver chiara l’implicazione che questa radicale trasformazione ha causato nel nostro Paese ed avviare, oltre ad una critica radicale, anche esperienze che possano rimettere in discussione lo stato di cose presente.