Bosnia, il fronte diviso dei partiti civici

Bosnia, il fronte diviso dei partiti civici

Ma esiste un’alternativa?”. Chi si imbatte per la prima volta nella politica della Bosnia Erzegovina rivolge facilmente questa domanda. È dalle prime elezioni post-comuniste del 1990 che i partiti su base etnica dominano la scena, e si apprestano a farlo anche nel voto del prossimo 7 ottobre.

 

Bosnia, il fronte diviso dei partiti civici

Bosnia, il fronte diviso dei partiti civici
Željko Komšić

“Ma esiste un’alternativa?”. Chi si imbatte per la prima volta nella politica della Bosnia Erzegovina rivolge facilmente questa domanda. È dalle prime elezioni post-comuniste del 1990 che i partiti su base etnica dominano la scena, e si apprestano a farlo anche nel voto del prossimo 7 ottobre. Le forze cosiddette “civiche”, ovvero quelle si proclamano rappresentanti di tutti i cittadini indipendentemente dall’appartenenza etnica, sono quasi sempre rimaste ai margini. Solo in due mandati, nel 2000-2002 e 2012-14, un partito civico ha partecipato al governo statale in misura rilevante: il Partito Socialdemocratico (SDP), che però in entrambi i casi dovette comunque allearsi con partiti etno-nazionali, frustrando le aspettative di cambio della base. Inoltre l’SDP conobbe vari problemi interni – clientelismo, corruzione, mancato ricambio dei vertici – che ne determinarono il fallimento.

Da lì è iniziata la frammentazione della sinistra bosniaca, oggi scissa in tre: quello che resta dell’SDP, ormai depurato della vecchia leadership; il Fronte Democratico (DF), che si scisse dai socialdemocratici nel 2012 in protesta contro la deriva autocratica del partito; e l’Alleanza Civica (GS), che si separò dal DF nel 2016 per dissidi di leadership. E c’è un quarto partito civico, che in parte fa storia a sé: Naša Stranka (“Il Nostro Partito”, NS), creato nel 2008 da esponenti di società civile e classe media urbana, con una natura più centrista liberale che socialista.

Guardando i programmi elettorali, le differenze ideologiche tra i primi tre partiti sono minime, anche se c’è qualche differenza di priorità. L’SDP, in linea con il recupero della tradizione, dà più enfasi a temi sociali: aumento del salario minimo, sanità per tutti, tassa sul lusso, più investimenti pubblici per lavoro e servizi. DF e GS pongono il focus sulla questione istituzionale, sullo “stato civico” da contrapporre ad “apartheid” e “discriminazione” dei popoli costitutivi, e sulla lotta contro le ingerenze dei partiti nell’amministrazione. Naša Stranka si distingue mettendo come primo punto l’integrazione euroatlantica e proponendo la liberalizzazione dei servizi sociali nonché, unica a farlo, l’equiparazione delle prestazioni tra disabili ex-combattenti e disabili civili, un tema controverso nella società.

Naša Stranka si conferma il tipico partito liberale urbano, con quadri ben istruiti e formati di norma all’estero, e scarso radicamento popolare. Una volta dal DF commentarono sprezzanti a questo proposito che “la Bosnia non va da Marijin Dvor al Ponte delle Capre”, ossia i confini del centro di Sarajevo. Anche SDP, GS e DF mostrano un’importante limitazione territoriale, giacché si presentano in modo consistente solo nelle zone più urbanizzate della Federazione, ma restano residuali nelle zone rurali e quasi assenti nella Republika Srpska e nell’Erzegovina sud-occidentale.

Prove di riunificazione

A partire dalle elezioni amministrative del 2016 si sono succeduti molti appelli, provenienti in particolare dal mondo intellettuale, che chiedevano una riunificazione delle forze civiche o quantomeno un accordo di minima. Quest’ultimo si sarebbe dovuto centrare sulla riforma del sistema elettorale, dunque sulla piena applicazione della sentenza Sejdić-Finci – che condanna la discriminazione dei non appartenenti alle tre comunità etno-nazionali dominanti. D’altronde si tratta non solo di una questione di principio, ma di vera e propria sopravvivenza politica: il mantenimento dello status quo o addirittura il rafforzamento del criterio etnico-territoriale che richiede l’HDZ (nazionalisti croati) e che potrebbe essere approvato nella prossima legislatura, renderebbe sempre più difficile l’elezione di rappresentanti civici.

Le pressioni di intellettuali e delle basi dei partiti per una riunificazione si sono manifestate con maggior vigore nei primi mesi del 2018, di fronte a quello che molti chiamano un rischio storico in vista delle elezioni di ottobre: la possibilità che Milorad Dodik e Dragan Čović, i leader del nazionalismo serbo e croato, possano occupare due dei tre posti della presidenza statale e portare la loro sinergia autonomista – o secessionista – fino a esiti imprevedibili. Tutto questo in un momento internazionale delicato, vista l’intersezione tra la crisi della legittimità UE, lo slittamento continuo del processo di adesione e la crescita di tensioni nell’area post-jugoslava.

A marzo un accordo pan-civico sembrava molto vicino ma saltò, più per questioni di struttura che di sostanza politica. L’SDP, erede della Lega dei Comunisti dell’era jugoslava, temeva di perdere la propria storia ultracentenaria e un’infrastruttura ancora discretamente radicata. Il Fronte Democratico non era disposto ad accettare altro candidato alla presidenza collettiva che non fosse il proprio leader, Željko Komšić. Un po’ a sorpresa l’Alleanza Civica appoggiava in pieno l’opzione Komšić, ma lanciava bordate avvelenate contro l’SDP che contribuivano a minare il riavvicinamento, mentre Naša Stranka se ne chiamava fuori.

Il fattore Komšić

Questo istinto di autoconservazione spiega dunque perché il 7 ottobre sulle schede elettorali ci saranno tre candidati civici alla presidenza statale collettiva, che implicheranno una dispersione del voto non-nazionalista: Željko Komšić (DF-GS) e Boriša Falatar (Naša Stranka) per il rappresentante croato e Denis Bečirović (SDP) per quello musulmano. Komšić è molto probabilmente l’unico dei tre ad avere qualche chance di vittoria. Un recente sondaggio pubblicato dal giornale online Klix – numeri però da prendere con le pinze, per la sopravvalutazione dell’elemento urbano e l’assenza di monitoraggio sul voto per posta, lo mostra in parità con il favorito Dragan Čović.

Come si è visto più volte Komšić, che già vinse le elezioni del 2006 e del 2010 grazie soprattutto al sostegno dei bosgnacchi e dei “non dichiarati”, è accusato dall’HDZ di non essere un rappresentante autentico della popolazione croata, in particolare di quella erzegovese. La candidatura di Komšić mette a nudo le contraddizioni del sistema post-Dayton e il suo risultato avrà in ogni caso ripercussioni. Difficile fare previsioni: da una parte Komšić gode ancora di grande credibilità tra gli elettori non-nazionalisti e, anche per il suo passato di combattente dell’esercito bosniaco, tra i bosgnacchi disillusi dai “propri” nazionalisti. Dall’altra parte, il fatto che si presenti per la terza volta crea una certa stanchezza nel pubblico. Inoltre, anche tra i civici c’è chi ha visto la candidatura come una provocazione che potrebbe portare nuove tensioni.

È per questo che Naša Stranka ha opposto un proprio candidato per il posto croato della presidenza, Boris Falatar, un quarantenne economista ex-ONU che il suddetto sondaggio dà appena al 2%. Questi, in alcune interviste, ha accusato Komšić di essere troppo aggressivo, un “freno al cambio” che in otto anni non ha ottenuto risultati e che ha “perso l’equilibrio tra civico e nazionale”. Falatar ha rincarato la dose contro i due leader dell’Alleanza Civica, Emir Suljagić (l’autore di Cartolina dalla fossa sopravvissuto al genocidio di Srebrenica) e Reuf Bajrović, chiamati “piccoloborghesi con retorica d’odio” verso i croati. Da giorni volano stracci tra questi partiti, che arrivano persino a Bruxelles poiché nel frattempo Naša Stranka si è lamentata con l’ALDE (il Partito dei Liberali Europei a cui appartiene) per avere mostrato sostegno al candidato del DF anziché al proprio.

Così facendo, i partiti civici danno segni di nervosismo e debolezza: rafforzano l’attenzione sull’identità etnica invece di smorzarla, appaiono rassegnati a strappare le briciole al vicino (e dunque, probabilmente, un elettorato già orientato in senso civico) invece di cercare consensi in altri settori.

Poche speranze, infine, dovrebbe avere anche Denis Bečirović dell’SDP, che nella lista bosgnacca sembra staccato dai favoriti Džaferović (SDA) e Radončić (SBB). Bečirović, 43 anni, è un instancabile attivista parlamentare: alcuni dicono sia stato il recordman di disegni di legge e interrogazioni presentate in aula. Ma il carisma necessario per conquistare i voti appare un po’ freddo. Bečirović bene rappresenta lo stato dell’SDP nel quale, dopo la batosta del 2014 e il massiccio turnover al vertice, la maturazione della nuova leadership avanza un po’ lenta. Là fuori, invece, i protagonisti dell’etno-crazia continuano a correre a tutta birra.

26.09.2018 East Journal

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da OBC Transeuropa

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