Mauro Rostagno è stato barbaramente ucciso dalla mafia trent’anni or sono, mentre tornava nella sede della comunità terapeutica che aveva contribuito a fondare a Lenzi, nella provincia di Trapani. In quella esperienza riversava il suo impegno, le sue convinzioni, la sua passione civile.
L’AVVENIRE DEI LAVORATORI 4 ottobre 2018 – e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana / Direttore: Andrea Ermano www.avvenirelavoratori.eu / Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 Redazione e amministrazione presso la Società Cooperativa Italiana, Casella 8965, CH 8036 Zurigo
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IPSE DIXIT
Stiano tranquilli – «Lo ripeto al presidente Mattarella, agli analisti finanziari e ai burocrati di Bruxelles: stiano tranquilli, io voglio lasciare ai miei figli un’Italia migliore, non un’Italia indebitata». – Matteo Salvini
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Nel trentesimo dall’uccisione per mano mafiosa del giornalista e sociologo co-fondatore di Lotta continua
RICORDANDO Mauro Rostagno
di Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica
Mauro Rostagno è stato barbaramente ucciso dalla mafia trent’anni or sono, mentre tornava nella sede della comunità terapeutica che aveva contribuito a fondare a Lenzi, nella provincia di Trapani. In quella esperienza riversava il suo impegno, le sue convinzioni, la sua passione civile. In questo giorno di ricordo, desidero anzitutto partecipare al dolore dei suoi familiari, degli amici e di quanti hanno condiviso con lui un tratto della vita. È stato un tempo spesso difficile, in cui la strada verso la verità giudiziaria ha anche subito gravi deviazioni. La memoria di una vittima di mafia oltrepassa lo strazio per la vita umana vigliaccamente spezzata. Essa costituisce un monito per la società e per le stesse istituzioni della Repubblica. L’agguato criminale contro Mauro Rostagno venne concepito per far zittire la sua voce libera nel denunciare le trame mafiose e i loschi affari. Il suo assassinio avvenne pochi giorni dopo quello del magistrato in pensione Alberto Giacomelli e addirittura poche ore dopo l’uccisione del giudice Antonino Saetta, nel pieno di una strategia terroristica decisa e attuata dai vertici dell’organizzazione criminale. Rostagno, in quella stagione, svolgeva con riconosciute qualità anche il lavoro di giornalista, suscitando apprezzamento e attenzione nei lettori. Il suo impegno giornalistico non fu estraneo all’origine della spietata reazione mafiosa, e oggi resta a noi come testimonianza e come esempio.
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Su Radio Radicale
Mauro Rostagno.
Da Trento a Trapani. Dall’antiautoritarismo alla lotta alle mafie
Vai all’audiovideo registrato a Trento sabato 29 settembre 2018.
Sono intervenuti: Alessandro Andreatta (sindaco del Comune di Trento), Marco Boato (sociologo, ex parlamentare, ex docente), Mario Diani (professore), Riccardo Scartezzini (professore), Chicca Roveri (compagna di Rostagno), Maddalena Rostagno (figlia di Rostagno), Roberto De Bernardis (segretario dell’Associazione Museo Storico in Trento), Ettore Camuffo (sociologo), Gianni Palma (sociologo), Silvano Custoza (amico di Enzo Rutigliano), Paolo Sorbi (sociologo), Massimo Fotino (sociologo), Adriano Sofri (giornalista e scrittore, ex leader di Lotta Continua), Peter Schneider (scrittore e sociologo), Enrico Deaglio (giornalista e scrittore, ex direttore di Lotta Continua), Claudio Fava (deputato ARS di “Cento Passi per la Sicilia”, ex deputato ed europarlamentare). Convegno promosso in collaborazione con l’Associazione Sociologia Trento 1962 Ut Vivat, dall’Associazione Museo Storico in Trento e dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università degli Studi di Trento, con il patrocinio del Comune di Trento in occasione del 30º anniversario dell’omicidio di Mauro Rostagno.
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EDITORIALE
Dov’è finito il Piano B?
Ciò che sta accadendo in questi giorni e mesi presenta notevoli elementi di compatibilità con lo scenario della fuoriuscita dall’Euro per “fatto compiuto”.
di Andrea Ermano
Le due vecchie super-potenze, già protagoniste della Guerra fredda e ora convergenti su posizioni di stampo neo-nazionalista, non gradiscono il protagonismo economico della Cina e dell’UE in quanto queste vanno profilandosi come realtà determinanti in vista di un riassetto multilaterale della globalizzazione. Per quanto concerne l’Europa, è evidente che un euro «rinforzato dai necessari miglioramenti di sistema e sostenuto da una più forte e più integrata economia», osservano Lettieri e Raimondi nel commento che riportiamo più sotto, «potrebbe diventare la “leva” per una riforma multipolare del sistema monetario internazionale. In questo modo affiancherebbe con più efficacia le politiche del gruppo dei paesi BRICS per cambiare nel profondo la governance economica e monetaria del mondo, ancora troppo dominata dal dollaro». Se questo è un aspetto fondamentale della partita in corso oggi, ognuno capisce che in tutti i modi i sovranisti cerchino di dare manforte ai loro due leader globali, Trump e Putin. Con il programma di “cacciare i socialisti all’opposizione” a partire dal prossimo rinnovo dell’Emiciclo di Strasburgo, i neo-nazionalisti d’Europa si ripromettono grandiose ricadute di potere all’interno dei loro paesi. Costoro, ovviamente, non si curano d’informare i popoli sui costi geopolitici del neo-nazionalismo, ma è chiaro che, se prevalessero, ne risulterebbe compromessa la costruzione europea, unica nostra opzione reale di sovranità democratica in un mondo irreversibilmente globalizzato dal surriscaldamento climatico e dal rischio nucleare. Destabilizzare l’UE e la sua moneta allo scopo di conquistare un ampio margine di potere sovranista, sembra – al di là dei camuffamenti – la finalità ultima delle strategie delle destre. In Francia Marine Le Pen punta esplicitamente all’uscita dall’Euro e anche nel nostro paese i neo-nazionalisti intendono abbandonare la moneta unica. Lo ha dichiarato expressis verbis, neanche molto tempo fa, lo stesso Salvini: «O stai dentro o stai fuori. Quello che posso dire è che, se la Lega andrà al governo, noi usciamo». Come uscire? Potrebbe servire alla bisogna un referendum che abrogasse non già gli accordi “esterni” con i Paesi dell’eurosistema (via impraticabile perché la Costituzione vieta il referendum sui trattati internazionali), quanto piuttosto i dispositivi di legge “interni”, senza cui l’appartenenza all’Euro s’incepperebbe per inapplicabilità. Questa ipotesi si è rivelata impraticabile a causa del Presidente Mattarella che, nel maggio scorso, ha posto un veto alla nomina del professor Savona in quanto autore dell’ormai famoso “piano B” (fuoriuscita dell’Italia dall’Euro in un fine-settimana). Fu allora, si ricorderà, che il premier incaricato, Conte, rimise il mandato. Fu allora che Mattarella conferì l’incarico a Cottarelli. E fu allora che Di Maio chiese al Parlamento che si procedesse alla messa in stato d’accusa del Capo dello Stato. Le fole durarono un paio di giorni, poi le acque si chetarono e alla fine tornò Conte, che alle finanze nominò il professor Tria, “uomo del Colle” e “garante dell’Euro”, mentre Savona veniva dirottato sul ministero per le politiche comunitarie. Tutto a posto, dunque? Non propriamente. Perché per aggirare l’interdetto quirinalizio resta pur sempre in campo una possibilità tattica alquanto insidiosa: quella del “fatto compiuto”. In crescente contrapposizione del nuovo potere romano verso la Commissione di Bruxelles e i fondi d’investimento internazionali – contrapposizione alimentata lungo una serie di dichiarazioni demagogiche e di atti irresponsabili – il Paese può essere spinto verso una crisi finanziaria analoga a quella in cui naufragò Berlusconi nel 2011. Con la differenza che stavolta l’esecutivo Salvini-Di Maio potrebbe permettersi di perseverare sulla rotta di collisione con Bruxelles fino alle più estreme conseguenze, e ciò in forza del grande consenso popolare di cui dispone. In questo quadro si può ben intuire per quale scopo il vice-premier Di Maio butti la croce addosso a Bruxelles sollevando grevi sospetti di “boicottaggio”. E ciò mentre il suo collega Salvini accusa Jean-Claude Juncker di non essere… “sobrio”. Né bisogna stupirsi se – proprio nelle stesse ore di sobria polemica istituzionale – il Presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi, fa impennare lo spread dichiarando che «l’Italia con una sua moneta risolverebbe gran parte dei suoi problemi».
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SPIGOLATURE
Le cosmicomiche dei due Stranamore
di Renzo Balmelli
TORTORELLE. Chissà che valore potranno mai avere agli occhi di chi lotta tutti i giorni per sopravvivere, le cosmiche scempiaggini di Trump e del nord creano Kim che sui social si scambiano amorosi sensi come fossero tortorelle trepidanti. Va bene che l’arte del buon governo è ormai in molti casi uno slogan per riempirsi la bocca. Ma qui la si degrada al livello di una colossale presa per i fondelli. Di norma si dovrebbe considerare la politica come un gesto di dedizione ideale e volontaria verso il prossimo, allo scopo di migliorare la società. Venuta da due personaggi come questi, due dottor Stranamore che siedono su un arsenale nucleare di tutto rispetto e quasi impossibile da controllare, ha però in più il sapore di una beffa nella beffa. Guardandosi intorno e misurando l’ampiezza della deriva morale nella quale la società rischia di precipitare, si resta esterrefatti di fronte alla mancanza di etica e dignità che colpisce come un pugno allo stomaco.
VENTI. Quando è posto al servizio del bene comune, il buon governo si estrinseca in svariati modi, non ultimo nel diritto alla corretta informazione. L’avvento e lo sviluppo di nuovi strumenti della comunicazione, porta a credere che questo diritto sia ormai acquisito e consolidato. Sovente invece, senza nulla togliere alla libertà di espressione, le dotte enunciazioni di principio fanno a pugni con i fatti. Dirottati in un certo modo dai poteri che ne ricavano odiosi vantaggi elettorali, determinati modi di informare giuocano scopertamente con la paura delle invasioni barbariche. Nei confronti dei migranti si è innescato un meccanismo perverso che al posto di porre al centro il rispetto della dignità umana sfocia non di rado in reazioni di pancia sempre più veementi. I forti venti che riprendono a spirare in vari paesi d’Europa non permettono invece tentennamenti nel rivendicare il diritto alla corretta informazione.
SPRECO. Nel turpe commercio delle armi, nessuna Nazione del mondo cosiddetto civilizzato può proclamarsi innocente. Nemmeno la Confederazione elvetica. Anche l’algida e neutralissima terra di Tell, con procedure che fanno discutere, chiude un occhio come il celebre arciere quando mirava alla mela, ogni qualvolta si tratta di sostenere l’industria bellica nazionale. Il fenomeno tuttavia è generale e tocca da vicino anche l’Italia. Nel corso dell’ultimo anno la corsa agli armamenti ai quattro angoli del pianeta è ripresa in grande stile con un giro d’affari di quasi 2mila miliardi di dollari. Un nuovo primato. In un mondo ipnotizzato dalla grande crisi, il mercato delle armi aggiunge un nuovo, inquietante tassello agli interrogativi che accompagnano il cammino dell’umanità verso un futuro carico di incertezze. Uno spreco enorme di energie e di risorse in nome del “ si vis pacem para bellum”, un vizio antichissimo che ancora non è stato estirpato dal vocabolario.Con una mano si aiuta lo sviluppo, con l’altra lo si vanifica nel silenzio generale dei mercanti di morte.
SFIDA. Eppur si muove! La celebre frase della lingua italiana da taluni attribuita a Galileo Galilei serve ancora oggi quando si tratta di dimostrare la correttezza di una tesi a dispetto delle circostanze avverse. “Eppur si muove” ben si adatta quindi al Partito democratico che la storia scritta con troppa precipitazione dai suoi avversari dava ormai in agonia e che invece ha dimostrato non soltanto di esistere, ma di essere, mettendocela tutta, una forza di opposizione capace di contenere la deriva giallo-verde. Il segnale del risveglio è ancora timido, ma promettente, a condizione però di rispondere in modo adeguato all’esigenza di novità nel Pd e soprattutto di raccogliere subito la richiesta di unità che la piazza romana del Popolo ha rivolto in modo perentorio al gruppo dirigente. Finora l’attuale maggioranza ha campato alla grande sui litigi e le divisioni della sinistra senza offrire nulla di concreto in cambio. Occorre dunque un deciso cambio di passo per evitare strappi dolorosi e caotici come la Brexit e per fare in modo che non vadano in porto norme pericolose come quella sulla difesa personale. La sfida è lanciata, peccato tornare sull’Aventino!
ARMENO. La sua ultima esibizione in Italia, paese che amava e in cui tornava sempre volentieri circondato com’era dall’affetto dei fan, risale all’anno scorso. In quell’occasione disse che smettere di cantare sarebbe stato come morire. Charles Aznavour, uno dei più grandi e amati chansonnier francesi, se n’è andato a 94 anni e con lui si può dire che esce di scena l’interprete che con quella sua voce roca dal timbro caratteristico, ha incarnato la canzone popolare d’Oltralpe come forse nessun altro prima di lui. Ma oltre alla fama, a dare grande rilievo alla personalità di questo straordinario artista è stato il profondo attaccamento alle sue origini armene, per le quali si è sempre battuto affinché il dramma del suo popolo non venisse relegato nella soffitta della storia. La sua famiglia si era trasferita in Francia per sfuggire ai massacri del genocidio armeno durante l’impero ottomano e di quel passato Aznavour si è fatto instancabile ambasciatore. Ora Venezia è un pochino più triste come il titolo di uno dei suoi più grandi successi.
SIMBOLO. Senti da che pulpito. Senza entrare nel merito del lavoro affidato alla magistratura, bisogna essere accecati dall’astio per approvare l’impianto accusatorio del governo contro Mimmo Lucano, il primo cittadino che a Riace ha lottato contro le leggi balorde e disumane imposte ai migranti. Magari il suo modus operandi un po’ disordinato disturbava gli arcigni burocrati inviati dalla scuola di Visegrad. Ma la persona è spontanea, guidata dal cuore, dal buonsenso e dal desiderio di rendere meno gramo il calvario di chi fugge dal terrore e tenta di rifarsi una vita. Sentimenti che la maggioranza sembra aver cancellato dal proprio verbo per sostituirli con la paura e il livore. Vista la località ci vuole quindi una grande faccia di bronzo per demonizzare e criminalizzare il modello umanitario che Mimmo Lucano è riuscito a realizzare e che ha trasformato la cittadina calabrese in un esempio di integrazione famoso in tutto il mondo. Alla base dell’intervento sembra dunque ci sia l’idea di colpire un simbolo: il simbolo dell’altra Italia, quella dei “buonisti” come li definisce con disprezzo Matteo Salvini, e che si trova a disagio per l’’accanimento contro Lucano sulla base di accertamenti che già hanno evidenziato errori grossolani e inesattezze nell’indagine. A Riace, nella Calabria atavica, vince il Paese che resiste ai soprusi di una politica dissennata. L’ondata di solidarietà attorno al sindaco ora agli arresti domiciliari non potrà essere liquidata con battute beffarde e presuntuose.
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LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it
Marcia Perugia-Assisi, un altro modo per stare insieme
Sgalla (Cgil Umbria) a RadioArticolo1: è la prima occasione per dimostrare a Salvini che esiste un modello di società basato sulla convivenza civile e inclusiva. Il fascismo è una ferita sempre aperta, bisogna combatterlo ancora.
Cinquant’anni fa moriva Aldo Capitini, colui che, nel 1961, inventò la marcia della Pace Perugia-Assisi. Un appuntamento di grande importanza, quello di domenica 7 ottobre, ancor più in un periodo, come questo, che vede crescere continuamente intolleranza, razzismo, ostilità verso il diverso. “È proprio così, Capitini pensava che la marcia potesse rappresentare un modo per unire le persone, per riscoprire un’idea complessiva e umana del convivere civile e lo faceva in tempi non sospetti”. Così Vincenzo Sgalla segretario generale della Cgil Umbria intervistato da RadioArticolo1 alla vigilia di un appuntamento ormai storico e che vedrà la partecipazione massiccia della Cgil. “Sarà la prima occasione dopo l’avvento del governo giallo-verde e del ministro Salvini – ha aggiunto il sindacalista – per dimostrare che c’è un altro modo per stare insieme. Da questo punto di vista, l’arresto del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, è emblematico dei tempi di chiusura che oggi stiamo vivendo”. Uno dei temi al centro della Perugia-Assisi è quello della povertà e della riduzione delle diseguaglianze. “Negli ultimi 10 anni – ha argomentato Sgalla – abbiamo vissuto un periodo lunghissimo di crisi che ha amplificato le diseguaglianze tra le persone. Per questo nel documento congressuale della Cgil abbiamo messo al centro il lavoro che per noi è il vero strumento di riequilibrio all’interno della società. E su questo, nelle discussioni congressuali, troviamo un grande consenso tra le lavoratrici e i lavoratori che apprezzano anche le nostre proposte contenute nella Carta universale dei diritti del lavoro”. Sono tanti gli anniversari che cadono nel 2018. Oltre alla morte di Capitini, siamo a 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale, a 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali e sono anche i 70 anni della nostra Costituzione: anniversari importanti che in qualche modo sono collegati l’uno all’altro e, insieme, ai valori che da sempre ispirano la marcia per la pace. “È vero, e vorrei anche ricordare come Capitini abbia subìto personalmente gli effetti della dittatura fascista – ha ricordato il segretario della Cgil umbra –. Come fiero oppositore al regime fu emarginato durante il periodo del ventennio fascista. Ecco, queste ferite sono ancora aperte e non del tutto rimarginate. Quella filosofia fascista è ancora purtroppo presente in parte della società e va contrastata senza infingimenti, senza mascherarla. Combattere il fascismo inteso come prevaricazione credo che sia uno degli obiettivi fondamentali anche di domenica prossima”.
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L’AVVENIRE DEI LAVORATORI – Voci su Wikipedia : (ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori (ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori (ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori (Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo (Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo (Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana
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ECONOMIA
L’euro in un mondo multipolare
Il recente discorso sullo stato dell’Unione europea tenuto dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, di fronte al Parlamento di Strasburgo contiene un messaggio di grande importanza geopolitica. Non lo si può ignorare.
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista
“L’euro, ha detto Junker nel suo discorso all’Europarlamento, deve avere un ruolo internazionale. È già usato in vario modo da più di 60 paesi. È tempo che diventi lo strumento monetario di una nuova e più sovrana Europa.” Correttamente ha aggiunto: “È assurdo che l’Europa paghi in dollari l’80% della sua bolletta energetica, cioè circa 300 miliardi di dollari l’anno, quando le nostre importazioni di energia dagli Usa sono pari soltanto al 2% del totale. È altrettanto assurdo che le imprese europee comprino aeroplani europei pagando in dollari invece che in euro”. È una forte sottolineatura. Certamente si può dire che, durante il suo mandato, Juncker non è stato il miglior pilota dell’Ue, né il più audace e coerente. Possono, quindi, esserci critiche legittime e giustificate. Tuttavia, con le sue recenti parole lascia un’eredità pesante che il prossimo presidente del governo europeo non può né deve ignorare. Lo stesso dicasi per il futuro Parlamento europeo. L’euro, rinforzato dai necessari miglioramenti di sistema e sostenuto da una più forte e più integrata economia europea, potrebbe diventare la “leva” per una riforma multipolare del sistema monetario internazionale. In questo modo affiancherebbe con più efficacia le politiche del gruppo dei paesi BRICS per cambiare nel profondo la governance economica e monetaria del mondo, ancora troppo dominata dal dollaro. I BRICS, infatti, tra loro già operano con le rispettive monete nazionali. Sanno, però, che, senza una fattiva alleanza con l’Europa e senza l’euro, vi sono scarse possibilità di modificare il sistema. Intanto, è da rilevare che i continui conflitti commerciali, combinati con l’unilateralismo monetario della Federal Reserve, rischiano di mettere in ginocchio molte economie emergenti. Stanno già provocando legittime importanti reazioni in tutti i continenti, accelerando la “dedollarizzazione” dell’economia mondiale. La Cina, per esempio, oltre al progressivo uso dello yuan in molti accordi commerciali internazionali, opera per bypassare sempre più il dollaro nel settore dell’energia. La Borsa internazionale di Shanghai ha lanciato future sul greggio denominati in yuan. In solo 6 mesi la quota di affari conclusi in yuan ha raggiunto il 10% del totale. Persino la più importante banca d’affari americana, la Goldman Sachs, ritiene che si sta verificando un brusco passaggio degli investimenti stranieri dai titoli di stato americani ai titoli cinesi denominati in yuan. Si calcola che nei prossimi 5 anni saranno collocati titoli cinesi per un valore superiore al trilione di dollari, a discapito ovviamente dei titoli di stato USA. Di fatto tutti i paesi, che sono stati colpiti dalle sanzioni di Washington, stanno cercando un’alternativa alla moneta americana. L’Iran e l’Iraq hanno eliminato il dollaro come valuta principale nel loro commercio bilaterale. Bagdad afferma che intende operare con il rial iraniano, il dinaro iracheno e l’euro. Nel commercio petrolifero, Teheran sta abbandonando la valuta statunitense per fare i pagamenti internazionali in euro. Anche l’India paga il petrolio iraniano in euro. All’Iran, suo terzo fornitore di petrolio, New Delhi ha anche proposto di pagare in rupie. Anche il presidente turco Erdogan ha invitato a rifiutare la valuta americana nelle transazioni commerciali. La Turchia si appresta a passare ai pagamenti in valuta nazionale con i suoi principali partner commerciali come la Cina, la Russia, l’Iran e l’Ucraina. È un processo oggettivo che prescinde da chi oggi è al governo di questi paesi. Da parte sua, la Russia nota che il dollaro sta diventando uno strumento di pressione non solo sugli avversari geopolitici, ma anche sui suoi alleati. Mosca fa sapere che le sue imprese industriali utilizzeranno le valute nazionali per i pagamenti delle forniture alla Turchia. Nel frattempo, i paesi petroliferi del Golfo stanno discutendo di nuovo l’idea di introdurre una moneta unica. Indubbiamente è per loro difficile allontanarsi dal dollaro da soli. Ma se decidessero di farlo insieme, l’intera regione potrebbe giocare un ruolo prominente nell’economica mondiale. Oggi, il maggiore ostacolo alla “dedollarizzazione” è l’instabilità dei cambi valutari. La forte svalutazione delle valute di molti paesi in via di sviluppo rispetto al dollaro e all’euro opera ancora come un potente freno. Contemporaneamente, però, i comportamenti protezionistici di Washington spingono inevitabilmente il resto del mondo alla ricerca di vie alternative al dollaro. Recentemente lo ha evidenziato anche il più importante giornale economico della Svizzera, la Neue Zuercher Zeitung. Di conseguenza, persino gli economisti della Banca Mondiale dichiarano che ormai il processo di “dedollarizzazione” nel mondo è stato avviato e non può essere fermato. Affermano che ancora oggi il 70% di tutte le transazioni nel commercio mondiale è fatto in dollari, il 20% in euro e il resto è diviso tra le valute asiatiche, in particolare lo yuan cinese. Finora il commercio di petrolio e di altre materie prime è fatto quasi solo in valuta americana Ma non sarà così a lungo. L’Europa non può stare alla finestra a guardare. Oggettivamente pensiamo che per l’Europa possa aprirsi “un’autostrada” se c’è adeguata volontà politica.
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Da Avanti! online
Spezzeremo le reni a Juncker
Salvini, quello del “me ne frego”, se n’é uscito ieri dando dell’ubriacone a Juncker, presidente della Commissione europea, mentre Di Maio ha minacciato (non si capisce chi, forse “i signori dello spread”) di chiedere i danni per l’aumento dello stesso spread a oltre 300…
di Mauro Del Bue, Direttore dell’Avanti!
Salvini, quello del “me ne frego”, se n’é uscito ieri dando dell’ubriacone a Juncker, presidente della Commissione europea, mentre Di Maio ha minacciato (non si capisce chi, forse “i signori dello spread”) di chiedere i danni per l’aumento dello stesso spread a oltre 300. Si rivolga innanzitutto a quel Borghi, leghista e presidente della Commissione bilancio del Senato, strano soggetto, che ogni volta che parla costa all’Italia centinaia di milioni di euro. Zittirlo sarebbe la più produttiva opera di spending review. Siamo ormai entrati in una fase decisiva. Alla fine del pericoloso percorso si intravvedono solo due uscite: o la revisione dell’annunciata manovra o il distacco dell’Italia dall’eurozona. Inutile girarci intorno. Con queste premesse, con questi rapporti, con queste follie, altro non c’è. Inutile rimarcare il disastro che provocherebbe il ritorno alla lira tanto che il meno europeista di tutti, il ministro Savona, ha dovuto dichiarare, su imput di qualcuno, assieme al presidente del Consiglio, che l’Italia rimarrà nell’euro. Escusatio non petita… L’idea che il governo italiano corregga la manovra può anche essere nell’ordine delle cose, ma pensare che possa essere ammainata la bandiera del 2,4 a me pare pura utopia. Si dovrebbe rinunciare a quel reddito di cittadinanza, che é obiettivo strategico dei Cinque stelle, anche se non condiviso dalla maggioranza degli italiani. D’altronde gli italiani sono diventati strani soggetti. Approvano tutto ciò che ritengono utile per loro: meno immigrati, meno tasse, pensioni anticipate, molto meno quel che ritengono utile per una minoranza, il reddito di cittadinanza appunto. Ma qui siamo al ridicolo. Il governo Gentiloni aveva introdotto il reddito di inclusione (4miliardi circa in due anni, circa 500 euro a famiglia con priorità per quelle con minori, ma legato a una formazione al lavoro). Si poteva aumentarlo. Si è scelta una strada opposta. Ancora non esiste, secondo il teorico della flat tax, il leghista ed ex socialista Siri, un provvedimento preciso sull’argomento. Resta il fatto che secondo la scaletta illustrata a Porta a Porta, e condivisa da Di Maio, i 780 euro sono la quota base del reddito di cittadinanza che viene aumentata se il singolo é sposato e se ha figli, tanto da sfiorare i duemila euro nel caso di marito, moglie e tre figli a carico, se il loro reddito annuo non supera i 9mila euro. Dunque con 8mila euro di reddito familiare si potranno raggiungere in questo caso circa 30mila euro annui. Niente male, senza far quasi nulla. E poiché il soggetto in questione può rifiutare fino a tre proposte di lavoro, ma solo nell’arco di 51 chilometri, é evidente che questa sorta di famiglia Addams vivrà per molto (per sempre?) a carico dello stato, magari aumentando ancora il reddito con attività di lavoro in nero. Io penso che si stia scherzando. Non può essere vero. Ma questo è un chiaro incentivo a non lavorare se non in modo illegale. Con due gravi danni per lo stato. Il primo è il mantenimento a sue spese di chi non lavora, il secondo é l’incentivo a lavorare senza pagare le tasse. Ecco il bengodi, che diventa inferno per i più. Per coloro che lavorano onestamente pagando fino all’ultimo euro, per coloro che hanno pagato i contributi e si trovano oggi con una pensione uguale o inferiore a chi non ha mai pagato nulla. Si introdurranno gravissime discriminazioni tra gli italiani. E i giovani saranno tentati alla passività, non alla ricerca di un’attività con la creatività e la dedizione della quale sono dotati. I centri per l’impiego diverranno sedi di ricorsi senza fine, per coloro che saranno esclusi da questa manna, e le controversie saranno ingenti e costose per lo Stato. Di tutto questo non si curano lorsignori, solo interessati a brindare sul balcone a una vittoria di Pirro per l’Italia. In tutta Europa ci guardano come a un raro esemplare. A un nuovo archetipo di chi vuole fare anzitutto il suo male.
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Da MondOperaio
Proudhon
“Se non altro per onor di testata, l’Espresso ha ricordato che quarant’anni fa proprio sulle sue colonne Craxi pubblicò Il Vangelo socialista. Prima lo aveva fatto solo Fabio Martini sulla Stampa, e dopo sul Corriere Sergio Romano nel recensire un libro di Giovanni Scirocco: ed ovviamente ne parliamo anche noi con l’articolo di Nunziante Mastrolia…” – Di seguito pubblichiamo l’editoriale del Direttore per il quaderno 9/2018 di MondOperaio.
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di Luigi Covatta, Direttore di mondoperaio
Eppure la ricorrenza avrebbe meritato qualche spazio in più, in una fase in cui i giornali sono pieni delle discettazioni di intellettuali di ogni genere e specie che si affollano attorno al capezzale di una sinistra in sala di rianimazione (e che deplorano la desuetudine di quella che una volta si chiamava “la battaglia delle idee”). Intendiamoci: lo scritto di Craxi è inevitabilmente datato, e già allora poteva sembrare un anacronismo, dal momento che le dure repliche della storia erano sotto gli occhi di tutti almeno a partire dal 1956. Ma Craxi replicava ad Enrico Berlinguer, che tre mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro, in un’intervista alla Repubblica, perorava ancora “la permanente validità della lezione leninista” ed irrideva all’eclettismo ed alla “debolezza culturale” del nuovo corso socialista. Il leader del Pci, del resto, era in buona compagnia. Dopo il successo elettorale del 1976 sulla Repubblica Alberto Asor Rosa aveva celebrato nel Pci l’erede legittimo di tutta la tradizione culturale del movimento operaio italiano, “da Turati a Lenin”, e sul Corriere Umberto Eco aveva rilevato come ormai in Italia il marxismo fosse diventato senso comune: mentre nello statuto del Pci lo stesso marxismo continuava ad essere collegato al leninismo da un trattino. Allora non fu difficile ai comunisti eludere il confronto: bastò che qualche erudito di servizio estraesse il nome di Proudhon dal gran numero di citazioni di critici del leninismo richiamati nell’articolo (da Rosa Luxemburg a Kautsky, da Trotzky a Bernstein, da Bertrand Russell a Carlo Rosselli, a Norberto Bobbio ed a tanti altri) per intestare l’articolo al controverso utopista francese e costringere il giornalista collettivo ad un rapido ripasso delle sue tesi, talora effettivamente strampalate. E fu così che anche quella sfida non venne raccolta, ma semplicemente elusa. Non si trattò di una sfida velleitaria, anche se la forza dei numeri stava indubbiamente dalla parte del Pci. Non a caso veniva portata verso la fine di un anno, il 1978, che a buona ragione può essere considerato fra le date periodizzanti della storia della Repubblica: l’anno in cui Aldo Moro avverte il declino del potere di coalizione della Dc, ed in cui il Psi, al congresso di Torino, approda a quella che l’intelligenza ironica di Walter Tobagi definì la “socialdemocraxia”, e che segna, col “Progetto socialista”, la valorizzazione in sede politica di quanto scrivevano su questa rivista intellettuali fino ad allora ai margini della vita di partito: da Amato a Ruffolo, da Giugni a Forte e a tanti altri. Ma soprattutto l’anno in cui lo stesso Moro viene sequestrato ed assassinato, e papa Paolo VI ne deve celebrare le esequie cadavere absente davanti a tutti i maggiorenti della vita repubblicana. Ed è forse proprio nei cinquantacinque giorni che passano dal 16 marzo al 9 maggio che la sfida di Craxi, benché perdente, si rivela più pericolosa di un articolo di giornale per l’egemonia del Pci su vasti strati dell’opinione pubblica. Fu allora, infatti, che Craxi riuscì a fare breccia in significativi segmenti del mondo cattolico, in quella porzione della sinistra extraparlamentare che aveva rifiutato la lotta armata, e perfino presso personalità non secondarie del mondo comunista, da Lucio Lombardo Radice ad Antonello Trombadori. E fu soprattutto allora che gli italiani ebbero modo di valutare la sterilità di un partito che si voleva fare Stato e di un altro che forse preterintenzionalmente davvero si era fatto Stato. Tanto che non è azzardato sostenere che cinque anni dopo Craxi sarebbe approdato a palazzo Chigi non per il solito “stato di necessità”, ma per una conquistata “centralità socialista” testimoniata anche dall’elezione nell’Assemblea nazionale del Psi di personalità che non erano certo “nani e ballerine”: da Francesco Alberoni a Valerio Castronovo, da Massimo Severo Giannini a Gianni Brera, da Mario Soldati a Giorgio Strehler, da Umberto Veronesi a Marisa Bellisario, a Nicola Trussardi e a tanti altri. Anche allora, peraltro, per Berlinguer Craxi restò “un pericolo per la democrazia”: questa volta in ragione della forza dei numeri, evocata allora con la stessa determinazione con cui per legittimare la loro alleanza ora la evocano Di Maio e Salvini. E comunque, quando Craxi – dopo alcune migliaia di ore di trattative con Cgil, Cisl e Uil – firmò il decreto sulla scala mobile, non mancò l’erudito di turno che riesumò uno studioso allora poco frequentato come Carl Schmitt per imputargli il reato di “decisionismo”: anche se in quel caso il giornalista collettivo non venne disturbato nella sua pigrizia, surrogato come fu dal giornalismo pop di Giorgio Forattini, completo di stivaloni e di camicia nera. La storia controfattuale è prerogativa degli sconfitti, fra i quali indubbiamente dobbiamo annoverarci. Ciò non toglie che c’è da chiedersi che cosa sarebbe stato del nostro sistema politico se allora la Dc avesse preso atto del declino del proprio potere di coalizione ed il Pci avesse rinunciato a coltivare il proprio “consenso crescente”, e non avesse continuato a seguire quella “strategia dell’obesità” che ad esso venne contestata da Luciano Cafagna all’atto del suo scioglimento: obesità che in genere non aiuta l’efficacia dell’azione politica, ma garantisce soltanto un più lungo processo di decomposizione. Quel processo ora è giunto al termine, così come si è esaurita la “spinta propulsiva” di un astuto tycoon che un quarto di secolo fa seppe mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, la Lega ed i reduci del Msi. Niente di strano, quindi, se il sistema politico della seconda Repubblica è venuto giù come un castello di sabbia, ed i suoi due pilastri di sostegno sono crollati su se stessi. Strana sarebbe (e purtroppo è) la pretesa di costruire un altro castello con gli stessi materiali di quello che è crollato: e strana è la tendenza in atto nel Pd a ridurre a questione interna la rigenerazione di un’area di sinistra riformista nel nostro paese. È vero: la crisi del Pd coincide con quella che attraversa tutta la socialdemocrazia europea. Ma c’è da augurarsi che almeno questa volta il fatto non funzioni da alibi per non fare i conti con le conseguenze di una quarantennale peculiarità italiana: e pazienza se l’urgenza di questa riflessione contraddice il “presentismo” che ormai inquina la nostra vita politica. Del resto non è necessario essere nostalgici del passato per prendere atto di quanti mondi vitali in questi venticinque anni sono rimasti esclusi dal circuito politico, e di quanto sia necessario riferirsi innanzitutto ad essi per ricostruire qualcosa che prescinda dai nipotini di Berlinguer che non sono mai stati comunisti e dagli eredi immaginari di quel Moro che quarant’anni fa non si volle (o non si seppe) salvare dai suoi carnefici. Questa rivista, per quello che può contare, è al servizio dei mondi vitali finora negletti (o al massimo catalogati come l’Intendence napoleonica) in quella che avrebbe dovuto essere la casa comune di tutti i riformisti. Forse è un impegno impari rispetto alle sue modeste forze. Ma in fondo è stata fondata da quel Pietro Nenni che aveva fatto proprio il motto kantiano: “Fai quel che devi, accada quel che può”.
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riceviamo e volentieri pubblichiamo
ESTETISMO POLITICO
“Una generazione non può scegliere la forma di governo che più le piace; deve accettare quella che i tempi le hanno riserbata. Uno scrittore può sognare quello che vuole, anche di ristabilire la teocrazia medioevale, o di ricostituire il sistema dinastico; ma il mondo va per le sue vie.” Così scriveva Guglielmo Ferrero nel lontano 1925 a fronte della crisi della democrazia italiana e al progressivo farsi regime del fascismo.
di Paolo Bagnoli, Direttore de La Rivoluzione Democratica
Ferrero vedeva la crisi del primo dopoguerra conseguenza di una situazione che nessuno aveva saputo governare; il vecchio sistema liberale travolto dalla propria incapacità di vincere il dopoguerra, dopo aver vinto la guerra, non aveva capito che occorreva uno Stato nuovo e che il potere rimasto in piedi aveva perso oramai ogni legittimità e, quindi, essendo venuta meno ogni legalità aveva aperto le porte al fascismo: alla perdita della democrazia proprio perché essa non era stata in grado di sapersi governare secondo i fondamenti dello “stato di diritto”. Quanto scritto da Ferrero ci è tornato in mente in quanto è vero che la storia talora si ripete, ma mai nella stessa maniera. Guardando all’Italia di oggi assistiamo a un progressivo erodersi dello “stato di diritto”, che è quell’ordine – come ricordava Norberto Bobbio – governato dalle leggi e non dagli uomini. Il procedere della vita politica attuale consiste esclusivamente nella quotidiana, nevrotica, corrosiva esigenza di crearsi un pubblico; il resto non conta. E se per crearsi un pubblico – problema che nella storia d’Italia si pose per primo Gabriele D’Annunzio e, sulla sua scia, con ben altro successo, Benito Mussolini; sappiamo come andò a finire – occorre calpestare, irridere, minacciare di epurazione chi non si piega, esercitare una reale violenza verso altri coi propri comportamenti, ebbene sia così. Ma così essendo viene meno il dettato costituzionale e la stessa funzione della legge. La sovranità popolare conferisce legittimità al potere che ne deriva, ma tale legittimità viene meno quando la legalità viene infranta. Infatti, si crea un corto circuito che istituzionalizza la crisi dell’ordine democratico; nel caso del nostro Paese, tra l’altro, la crisi della democrazia è una patologia che dura da un buon quarto di secolo. La ricerca del consenso fine a se stessa erode tutti i margini di una politica democratica poiché ciò che conta è il gesto; oggi questa è una pratica scientificamente adottata e promossa dall’uso scriteriato, ma non per questo non sofisticato, dei social media; un qualcosa che, al contrario, richiede forte senso della responsabilità proprio per la facilità incontrollata con cui incide nel tessuto sociale. La politica del gesto riduce e immiserisce tutto in un continuo teatro nel quale si recita, secondo la scuola classica dell’estetismo politico, un modo di essere della politica che, alla lunga, travolge tutto quanto riguarda l’ordine politico, asciugando nella giustificazione demagogica ogni legittimità e ogni legalità. Sembra che queste siano le vie cui oggi va il mondo – per riallacciarsi alle ammonizioni di Guglielmo Ferrero – ma l’entrare in tale logica significa divenirne corresponsabili. Ecco perché la salvaguardia dello “Stato di diritto” diventa prioritaria per tutti coloro che credono nella democrazia repubblicana fondata sui principi e su lo spirito della Costituzione.
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FONDAZIONE NENNI http://fondazionenenni.wordpress.com/
Un dizionario sulla UIL
Myriam Bergamaschi, I sindacati della UIL 1950 – 1968. Un dizionario, Bibliotheca Edizioni, Roma, 2018, 548 pp.
di Andrea Panaccione
Questo dedicato alla UIL è il terzo volume di una serie di dizionari curati, e in grandissima parte scritti, dalla stessa autrice: il primo è stato I sindacati della CGIL 1944 – 1968. Un dizionario, Fondazione ISEC – Guerini e Associati, Sesto San Giovanni – Milano, 2007; il secondo I sindacati autonomi in Italia 1944 – 1968. Un dizionario, BFS Edizioni, Pisa, 2017. Tre importanti strumenti di studio per la storia del movimento dei lavoratori in Italia dalla fine della seconda guerra mondiale a quella degli anni ‘60, costruiti con una forte unità metodologica malgrado lo scarto temporale della pubblicazione del primo volume dagli altri due, e strutturati, come indicato nei titoli, come dizionari di organizzazioni. Il numero rilevante delle organizzazioni censite nei tre dizionari (277 nel primo, 167 nel secondo, 86 nel terzo), per ciascuna delle quali le rispettive voci ricostruiscono la storia e forniscono informazioni sui gruppi dirigenti, le linee contrattuali ecc. e indicazioni bibliografiche di approfondimento, è di per sé un’indicazione dell’utilità di questi lavori come strumenti di consultazione. Come sappiamo esiste una tradizione più che secolare di strumenti diversi (dizionari, enciclopedie, annuari, manuali, lessici biografici e bibliografici, ecc.) che hanno accompagnato la storia dei movimenti dei lavoratori nei vari paesi e che spesso, oltre che strumenti di consultazione e di informazione, sono stati un’occasione importante per fare il punto sullo stato degli studi e per stimolare nuovi approcci di ricerca. Negli ultimi decenni del secolo scorso questo è stato particolarmente vero per il genere dei dizionari biografici del movimento operaio, che sono stati realizzati in molti paesi seguendo l’esempio, rimasto per la verità insuperato, del Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier français, avviato da Jean Maitron con la pubblicazione del primo volume nel 1964 e poi sviluppato in un’opera monumentale con diverse serie temporali per la Francia e con alcuni importanti volumi dedicati agli altri paesi. Non mi soffermo sulle realizzazioni analoghe in Inghilterra (sotto la direzione di Joyce M. Bellamy e di John Saville), in Italia (sotto la direzione di Franco Andreucci e di Tommaso Detti) e in altri paesi; vorrei solo indicare come un fattore essenziale dell’interesse e della fortuna di queste opere fosse l’esigenza di superare una storia solo istituzionale (la storia dei congressi) e la rivalutazione della dimensione della pluralità, della varietà delle figure e delle esperienze che potevano essere comprese in una espressione canonica come quella di movimento operaio e che, nella ricostruzione di tanti percorsi individuali, ponevano agli studiosi le questioni del rapporto tra storia sociale, storia dei milieux di vita, delle culture, delle mentalità, e la storia politica o delle organizzazioni. Contrariamente a certi atteggiamenti di sufficienza verso la storia delle organizzazioni, mi sembra che questi lavori di Myriam Bergamaschi presentino dal versante opposto, cioè partendo appunto dalle strutture organizzative, e quindi naturalmente anche dagli uomini che ci lavorano ma colti in un impegno e una dimensione specifici della loro vita, le stesse sollecitazioni e stimoli; mi sembra particolarmente felice, da questo punto di vista, l’osservazione di Carmelo Barbagallo, nella Prefazione a questo volume sulla UIL, sulle organizzazioni che riflettono, subiscono, si adattano e cercano di dominare “un mondo del lavoro che continuamente cambia”, un elemento sviluppato da Giorgio Benvenuto nella sua Introduzione a proposito di una struttura organizzativa che continuamente si evolve. Ritengo anche che questo permetta di comprendere alcuni caratteri essenziali della storia del movimento sindacale italiano. In primo luogo il suo carattere politico, molte volte sottolineato ma che rimane un concetto complesso e che per il periodo considerato da Myriam Bergamaschi allude all’impronta di figure fondanti come Buozzi e Di Vittorio, all’importanza che ha avuto per entrambi l’esperienza dell’esilio, al ruolo di una nuova generazione di dirigenti sindacali passati attraverso la Resistenza, al peso della guerra fredda come confronto sociale e insieme politico-ideologico a livello nazionale e internazionale nella fase ricostitutiva o costitutiva delle grandi confederazioni, all’importanza delle strutture orizzontali o territoriali e alla fatica fino agli anni ’60 dell’affermarsi di un sindacalismo delle categorie che si realizzerà pienamente solo con lo sviluppo industriale del Paese e dopo il “miracolo economico”, al rapporto con i partiti, allo stesso obiettivo della fine degli anni ‘60 di riformare la società a partire dalla fabbrica. Questo carattere politico, che comunque rimarrà una costante dalla “CGIL di Di Vittorio” al sindacato dei consigli al sindacato dei cittadini, dovrà però fare i conti con una realtà del mondo del lavoro sempre molto diversificata (che si tratti di dizionari del lavoro frammentato era già una giusta osservazione di Stefano Musso nell’introduzione al volume sulla Cgil), che rifletteva gli scarti e le disuguaglianze dello sviluppo economico italiano, anche in quella che è stata definita la “breve stagione matura dell’industrialismo” (Giuseppe Berta) e insieme la struttura dello Stato italiano e le continuità con il fascismo, su cui esiste una importante storiografia (è significativa da questo punto di vista, ma è anche il riconoscimento di una risposta reale a diffusi bisogni associativi, la presenza di un volume dedicato ai sindacati autonomi, così come la voce nel dizionario sulla UIL dedicata a “I sindacati autonomi confluiti nella Uil”), e che faranno del pubblico impiego e dell’amministrazione pubblica il versante più debole dell’azione riformatrice dei sindacati e il terreno privilegiato dell’intreccio tra azione corporativa e “mediazione politica” nel senso più deteriore dell’espressione. Un confronto fra i tre volumi permette di evidenziare, insieme al carattere unitario che ho già indicato, il vero arricchimento rappresentato dal volume sulla UIL: in particolare, insieme al corredo iconografico, per l’appendice documentaria, in gran parte ricavata dai fondi della Fondazione Bruno Buozzi, dedicata alla ricostruzione del clima che ha visto nascere la confederazione, su cui si sofferma l’Introduzione di Benvenuto, indicando nell’impegno a farsi riconoscere autonomamente sul piano internazionale rispetto al privilegiamento della CISL nel sindacalismo americano una vera lotta per la sopravvivenza e un capitolo non secondario dello scontro internazionale per il controllo delle organizzazioni dei lavoratori nella prima fase della guerra fredda. Nel N. 3, 2007, di “economia & lavoro”, Piero Boni, con la sua passione non solo di protagonista ma anche di storico del sindacato, aveva recensito il primo dei lavori della Bergamaschi, indicandone i pregi di “una visione complessiva sostenuta da un unico, costante e concreto indirizzo” e sollecitandone lo sviluppo sia per il periodo dagli anni ’70 che per le altre grandi organizzazioni dei lavoratori in Italia. Se la prima sollecitazione rimane ancora qualcosa di difficile da progettare, soprattutto ad opera di un/a singolo/a studioso/a, Myriam Bergamaschi è andata molto avanti nel rispondere alla seconda, che è stata comunque unanimemente ripresentata, per quanto riguarda la CISL, in occasione di una presentazione/discussione dei tre dizionari svoltasi a Milano il 13 giugno 2018. Vorrei concludere su un concetto che a mio parere è molto indicato a definire la natura dei lavori di Myriam Bergamaschi e che è quello di “guida” e non di semplice repertorio, anche senza avere prioritariamente “obiettivi interpretativi”, come scrive l’autrice nel volume sulla Uil. Guida significa stimolare una visione che, per un determinato periodo, stabilisca delle connessioni e indichi un percorso, un possibile confronto con altri periodi, sia precedenti che successivi, e permetta quindi di situare la storia dei movimenti sindacali dentro quella della società italiana e, a chi utilizza questi strumenti, di confrontarsi con una lettura d’insieme.
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LETTERA
Perché richiamarsi a Proudhon se Filippo Turati basta e avanza?
A margine della riedizione curata da Giovanni Scirocco del “Vangelo del Socialismo”, di Craxi e Pellicani (vedi Presentazione di Luciano Belli Paci sull’ADL del 27 settembre 2018).
Nel 1978 Craxi e Pellicani, ripescarono Proudhon. Ok per il distacco dal PCI, che era sempre stato auspicabile, anche e soprattutto nel 1946-’48… Ma per ottenere questo effetto politico, bastava avere letto Turati (e Matteotti e Giuseppe Emanuele Modigliani), nei suoi scritti, nei suoi discorsi alla Camera, nei suoi articoli sulla Critica Sociale. Lì c’è tutto il vero socialismo italiano, quello che avrebbe potuto governare il Paese sin dal 1919-’22, quando era forza giustamente (e culturalmente) egemone. Lì c’è la scelta di Turati per il Marx del dopo la Comune di Parigi, piuttosto che per il Marx del Manifesto. Lo scientifico Turati è in maniera siderale più avanti di chiunque (anche rispetto al “volontarista” francese), forse solo i fratelli Rosselli possono essergli paragonati. Craxi poteva scegliere Turati per ritrovare il socialismo dei socialisti, ma non lo fece.
Domenico Argondizzo, Milano
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L’AVVENIRE DEI LAVORATORI EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897
L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mondiale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti.
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