Messico: cinema in stile zapatista

Messico: cinema in stile zapatista

Una maratona con ottanta film tra cortometraggi, lungometraggi, fiction, documentari, cinema sperimentale, chiacchierate e una grande festa finale: quattromila tra donne, uomini e bambini hanno partecipato a modo loro per una settimana al primo festival promosso dalle comunità indigene zapatiste in Messico.

 

Messico: cinema in stile zapatista

Messico: cinema in stile zapatista

Una maratona con ottanta film tra cortometraggi, lungometraggi, fiction, documentari, cinema sperimentale ma anche tante chiacchierate e una grande festa finale: quattromila tra donne, uomini e bambini hanno partecipato a modo loro per una settimana al primo festival promosso dalle comunità indigene zapatiste in Messico. La loro straordinaria lotta senza prendere il potere e la loro ostinata voglia di costruire ogni giorno un mondo che contenga tanti mondi hanno messo sottosopra l’idea tradizionale di cinema e quella di festival: l’arte, come dimostrano gli zapatisti, può essere un’alternativa al tempo di morte che viviamo, occasione per ripensare il mondo con uno sguardo e un pensiero critico, spazio per immaginare e creare altri mondi possibili. Cronaca di un festival necessario e impossibile.

 

Sono passati più di trentacinque anni da quando, come si racconta, un gruppetto di sei persone fece un viaggio verso il sud est del Messico ed arrivò in Chiapas. Erano partiti con una idea, comune a tanti in quegli anni, di fare una rivoluzione. Avevano vicino ma non solo geograficamente, la Cuba di Fidel e il Nicaragua Sandinista, il Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Marti di El Salvador e la storica guerriglia guatemalteca, avevano la prospettiva immaginata dai cento fuochi di guerriglia, sparsi per l’America Latina, di Ernesto Che Guevara. Nella Selva Lacandona entrarono in contatto con le comunità indigene, con le loro pratiche e la loro cultura: gli ci vollero dieci anni per cambiare la loro idea di rivoluzione ed arrivare a lottare per non prendere il potere, pensare di costruire un mondo che contenga altri mondi, e adesso dopo quasi venticinque anni dal levantamiento del primo gennaio del 1994 per la prima volta nei Caracol è stato organizzato un festival del cinema; la cosa non era per niente scontata né tanto meno usuale e rimanda alla modernità di un pensiero che ha le sue radici profonde nell’incontro con gli indigeni di tantissimi anni fa:

“Abbiamo realmente subito un processo di rieducazione, o di rinnovamento. Come se ci avessero disarmato. Come se avessero smantellato tutto ciò di cui noi eravamo fatti – marxismo, leninismo, socialismo, cultura urbana, poesia, letteratura – tutto ciò che era parte di noi e cose che non sapevamo neppure di avere. Ci hanno disarmato e riarmato, ma in modo diverso”.

 
La cronaca di questi otto giorni ci racconta di un festival del cinema senza red carpet, né party esclusivi e “paparazzi” a caccia di star e divi; più che glamour ci sono state emozioni che si sono concentrate davanti agli schermi all’interno del grande auditorio con il tetto di lamiera, dedicato alla Comandanta Ramona, e costruito apposta per questo festival chiamato Puy Ta Cuxlejaltic (Caracol della nostra vita, tradotto dallo tzotzil).

Fin dal giorno dell’inaugurazione più che un festival questo evento culturale nel Caracol di Oventic – Zona Altos de Chiapas – è parso una maratona con i film e i documentari proposti senza soluzione di continuità, alternati a presentazioni, chiacchierate o ringraziamenti ai registi.

Il noto, anche qui in Italia, regista Alfonso Cuarón, fresco vincitore del Leone di Venezia con il film Roma e sicuro aspirante agli Oscar, insieme alla sua equipe ha messo a disposizione, per una prima assoluta nazionale (il film non è ancora nelle sale messicane) del suo lavoro, parte delle attrezzature super professionali necessarie alle proiezioni, mentre le “poltrone”, dove si sono accomodati in questi giorni oltre quattromila zapatisti di tutte le età, erano di duro legno – anche abbastanza scomode – ma che non hanno impedito momenti di commozione, di sonore risate davanti a qualche scena divertente e lacrime senza finzione durante i passaggi più tristi delle proiezioni, come successo per due ragazze prese da un pianto ininterrotto durante una scena di “Roma”.

Ma gli uomini, donne e bambini con passamontagna e paliacates rossi riempiono anche la Multisala Emiliano Zapata – pavimento di terra battuta, capace di accogliere altre due mila persone – e chiamato anche, solennemente, Cine 3D per il fatto che dentro ci sono tre schermi.

Ma non solo sale al chiuso, nel Caracol di Oventic dove le giornate di sole cocente si alternano a giorni di fitta nebbia, non poteva mancare un cinema all’aperto, un drive-in senza auto, il Pie-Cinema Maya, accanto al campo di basket.

Gli ospiti, per la maggior parte persone del mondo del cinema, con alcune eccezioni come lo scrittore Juan Villoro, sono arrivati da soli e a loro spese e nonostante ognuno di loro venga accolto da una delegazioni di cinque bambine che li accompagna negli alloggi a loro riservati girano un po’ spaesati e alla cieca.

L’attenzione e la cura che gli/le zapatiste hanno nei confronti di coloro che fanno loro visita è proverbiale e ci viene confermata, ormai da anni, ogni volta che, con le nostre delegazioni, siamo loro ospiti per sostenere il Sistema di Salute Autonomo o per qualche incontro.
Ma questi sono ospiti “speciali”, per molti o forse tutti è la prima volta che entrano in un Caracol così come è la prima volta che ricevono premi così particolari.

Come in ogni festival che si rispetti ci sono anche ricchi e significativi premi.

Gli zapatisti offrono il loro omaggio agli ospiti consegnando lavagnette – i ciack del cinema dove vengono segnati i dati delle scene – e mele di plastica ma c’è anche un premio speciale, uno diverso, una scultura realizzata dagli zapatisti. Quello, è il più importante, viene assegnato a qualcuno che non è presente: Libo, la domestica che ha cresciuto Alfonso Cuarón e ha ispirato il suo nuovo film. Lo consegna Erika, ufficiale di fanteria dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, una donna che prima di ribellarsi in armi è stata lavoratrice domestica.

Nel programma che andava inizialmente dal 1° al 7 novembre – anche se poi si è concluso il 9, sono stati proiettati ottanta film tra cortometraggi, lungometraggi, fiction, documentari e cinema sperimentale.

Ci sono state produzioni di cinema commerciale e militante, senza alcuna distinzione.

Proiezioni di nuove e vecchie pellicole da Roma fino a Reed, Mexico rebelde, una pellicola del 1970 di Paul Leduc restaurata per questa occasione dalla UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico) passando dai Diari della motocicletta fino al documentario Petits historias das crianças (Piccole storie di bambini), di Gabriele Salvadores, Guido Lazzarini e Fabio Scamoni, che racconta la storia dei bambini che partecipano ogni anno al progetto di Inter Campus, un progetto sociale fondato dall’Inter, che lavora con bambini provenienti dalle periferie di ventinove paesi in tutto il mondo.

 

In questo programma così fitto non sono mancate le prime autoproduzioni zapatiste. Quattro documentari prodotti dalle stesse comunità zapatiste, frutto del lavoro dei Los tercios compas, gruppi di ragazzi e ragazze che registrano con foto, video e audio ogni evento che si svolge nei territori autonomi.

Ma non di solo cinema si è trattato, al volgere della prima giornata, il Subcomandante Galeano ha invitato tutti i presenti a non spaventarsi per lo spegnimento delle luci che ci sarebbe stato da lì a qualche momento. Subito dopo il buio più completo ha avvolto l’auditorio, pieno come un uovo, e mentre gli ospiti avevano difficoltà a muoversi ed orientarsi, gli zapatisti sono usciti ordinatamente formando un lungo fiume di luce sulla ripida strada che attraversa il Caracol. Circa quattromila uomini e donne con il viso coperto e una candela tra le mani sono avanzati silenziosi e ordinati fino al campo di basket. Uno ad uno, con cura, illuminano un grande altare dedicato agli zapatisti “Caduti in combattimento all’alba del 1994”, perché l’inizio del festival coincide con il giorno dei morti.

Il Festival del Cinema “Puy ta Cuxlejaltic” si è chiuso il 9 novembre con la cerimonia di chiusura e, come di solito avviene in territorio zapatista, con una festa popolare e la gioia di ballare, nonostante il freddo dell’autunno.

 
Si è concluso un evento senza precedenti nelle montagne del sud-est del Messico, il festival è stato un ulteriore passo nel percorso che lo zapatismo si è prefissato e che propone a tutti noi: le arti (e le scienze) come alternativa di fronte al tempo di morte che viviamo, l’occasione che ci offre l’arte di ripensare il nostro mondo con uno sguardo e un pensiero critico e di immaginare altri mondi possibili.

Come al solito, le migliaia di zapatisti presenti all’incontro avranno il compito di riportare alle comunità di appartenenza ciò che hanno imparato, pensato e immaginato in questi giorni.
A noi ancora una volta il compito di non lasciare soli gli zapatisti in questa loro “mission impossible” di costruzione dell’autonomia, di rafforzamento del sistema di autogoverno e indipendenza che da venticinque anni si sono dati e che ci continua a far gridare “Viva l’EZLN!!”

[Per vedere le foto e leggere il racconto delle giornate del festival:  Festival del Cinema “Puy Ta Cuxlejaltic”]

16.11.2018 Cooperazione Rebelde Napoli

Qui l’articolo originale sul sito del nostro partner

 


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