La straordinaria storia di accoglienza di questo borgo, dice il successo del Riace in festival, non è stata definitivamente annientata. La sua lezione, siamo in grado di rafforzare ogni giorno relazioni di cura reciproca e dare significati nuovi alla parola accoglienza,
La comunità di Riace
Gianluca Carmosino
La straordinaria storia di accoglienza di questo borgo, dice il successo del Riace in festival, non è stata definitivamente annientata. La sua lezione, siamo in grado di rafforzare ogni giorno relazioni di cura reciproca e dare significati nuovi alla parola accoglienza, si ostina a germogliare perché centinaia di persone comuni si sono lasciate trasformare mentre cercavano a loro modo di trasformare la realtà. Persone che hanno smesso di essere spettatori. Non ci sono provvedimenti dall’alto che possono cancellare venti anni. Oggi c’è una piccola comunità globale che ha voglia di rinascere: ha bisogno di non sentirsi sola. Ha bisogno del vento. Reportage
Le case del borgo si abbracciano per sorreggersi l’una con l’altra. I vicoli si stringono per proteggere i viandanti dal sole e disegnano ogni tanto piccole piazze. Sotto i tetti, intanto, le rondini preparano i nidi che accoglieranno le uova: saranno anche una tappa dei loro lunghi viaggi migratori tra il Nord Europa e il Mediterraneo. Andate e ritorno: nessun “cielo chiuso” per loro. La lezione di Riace, siamo in grado di rafforzare ogni giorno relazioni di cura reciproca e dare significati nuovi alla parola accoglienza, germoglia anche per i modi con i quali nel tempo questa comunità arroccata su una collina affacciata sullo Jonio, amata dalle rondini e dagli aquiloni, ha costruito il suo borgo.
Secondo Silvia Federici l’unico modo per sopravvivere e “reincantare il mondo” oggi è “riconoscere la nostra essenziale interdipendenza e potenziare la nostra capacità di cooperazione”. A “reincantare Riace” nelle scorse settimane sono stati i Mondiali antirazzisti e soprattutto lo splendido Riace in festival.
Raccontare e valutare un festival attraverso i numeri della partecipazione (altissimi per l’edizione 2019 malgrado quanto accaduto negli ultimi mesi) o tramite la presenza di personaggi noti (tra gli altri, Ascanio Celestini che ha accettato la proposta, rivolta attraverso la redazione di Comune, di aprire il festival diretto da Chiara Sasso, Peppino Mazzotta e Vincenzo Caricari) è riduttivo almeno quanto leggere un territorio in base ai risultati elettorali. La straordinaria storia di accoglienza di questo comune, ha detto in diversi modi il festival, non è stata definitivamente annientata. Lo dimostrano almeno tre elementi. Il primo: diversi nuclei familiari, nonostante le fine del progetto Sprar imposta dai piani superiori, hanno scelto di continuare a vivere a Riace. Il secondo: l’idea di accoglienza solidale, in grado di coinvolgere molti cittadini in un’esperienza di turismo leggero e di recupero di case abbandonate, resta attiva per quanto fragile. Il terzo: il successo del festival ha mostrato come intorno a Riace esista un’ampia comunità senza frontiere, motivata, ostinata e molto creativa, di cui la giovanissima Fondazione È stato il vento (la cui raccolta donazioni ha permesso a tanti e tanti di resistere in queste ultime settimane a Riace), è il principale faro. “Il festival ha restituito a questo borgo la speranza che se è vero che tutto può cambiare e anche in fretta, con la stessa rapidità tutto può ricominciare con la forza e l’energia di tutti… – commenta Roberta Ferruti della Rete dei comuni solidali – A Riace tutto è veramente possibile. Oggi ci crediamo tutti un po’ di più”.
Il cuoco
Osman vive a Riace da otto anni con sua moglie e quattro figli (di diciotto, diciassette, quindici e quattro anni). È un rifugiato politico: è fuggito prima dalla guerra nella sua Somalia (dove ha perso un fratello) poi dalla Libia, dove ha vissuto e lavorato per molti anni prima di rischiare la vita con la sua famiglia attraversando il Mediterraneo e sbarcando nel 2011 a Lampedusa. Secondo l’ossessione occidentale di etichettare e di numerare Osman è un “analfabeta” e un “povero”. In realtà, pur non avendo mai frequentato una scuola, sa parlare cinque lingue, è stato un abile operaio (lo ha fatto in Libia per piccole ditte legate a multinazionali del petrolio), un ottimo cuoco (lo ha fatto a Tripoli ma anche a Riace, grazie ai progetti della giunta Lucano), un affidabile portiere di albergo. Ogni tanto è riuscito perfino a inviare qualche soldo ai familiari della moglie che vivono in Somalia. “Voglio vivere qui, voglio continuare a crescere qui i miei figli – dice Osman – Ho conosciuto due guerre, cerco solo un luogo tranquillo, come Riace, dove le persone non guardano il colore della pelle”. L’anno scorso il sindaco Mimmo Lucano, quando si è concluso il progetto Sprar, gli ha detto “Se vuoi restare, ti aiutiamo, troviamo insieme un casa e un lavoro”. Aggiunge Osman: “Con Lucano ho capito il significato della parola speranza. Non merita quanto sta accadendo in questi mesi…”.
Certo, Riace è ben lontana da quella che molti hanno conosciuta: meno colorata, meno allegra, meno unica. I nomi delle case recuperate e gestite per il turismo solidale hanno ancora i nomi dei paesi e delle città di origine dei migranti che hanno attraversato questo paesino della Calabria, ma le botteghe di artigianato (dove si recuperavano antichi mestieri e dove lavoravano almeno un migrante e un riacese) e la fattoria didattica sono chiuse, non ha più riaperto neanche l’asilo ricco di una breve quanto intensa storia interculturale, i murales e l’anfiteatro dimostrano un certo abbandono, il sentiero dell’acqua delle donne non esiste più, le piazzette del paese, ricostruite durante l’amministrazione precedente e riempite di vita dai migranti, sono spesso vuote.
La maestra
Per individuare la ragione principale delle attuali difficoltà di Riace basta leggere la lettera lasciata agli ospiti delle case recuperate: “Siamo in difficoltà non solo per le inchieste della magistratura ma soprattutto per i mancati contributi delle Prefettura e dello Sprar”. L’accanimento contro questa comunità, secondo Alex Zanotelli, nasce perché la politica istituzionale non credeva e non crede nell’accoglienza diffusa. E non prevedeva l’emergere di un enorme sostegno dal basso. La piccola storia, ad esempio, della maestra di Milano arrivata a Riace soltanto per cercare qualche notizia in più su Ahmed o l’apertura del poliambulatorio dimostrano quanto la costruzione di relazioni sociali diverse sia in grado di provocare scelte sorprendenti.
Ahmed ha vissuto per alcuni anni insieme ai genitori a Riace, dove aveva trovato dei nonni riacesi “adottivi”: quei nonni, senza figli, erano i vicini di casa di Ahmed, persone comuni che si sono lasciate trasformare mentre cercavano a loro modo di trasformare la realtà. Persone che hanno smesso di essere spettatori. La lontananza da quei nonni e il difficile passato dei genitori hanno provocato un disagio profondo in Ahmed: il viaggio a Riace ha consentito alla maestra di capire molte cose.
L’ambulatorio, invece, è stato aperto alcuni fa nel centro di paese grazie a una convenzione con la Asl di Reggio Calabria e alla collaborazione con uno studio radiologico di Siderno (che ha finanziato l’avvio) e con il Comune che all’epoca ha concesso gratuitamente i locali: un servizio completamente gratuito per tutti, italiani e non, promosso da un medico di base, un pediatra e una ginecologa.
Mettiamo in comune
Nonostante molte ferite profonde, Riace oggi resta un luogo nel quale nessuno è estraneo e nel quale la cooperazione, tra inevitabili limiti e contraddizioni, tende ad avere la meglio su individualismo, razzismo competizione. Una piccola comunità globale, dove le porte delle case non si chiudono a chiave. “L’idea di comunità – ha detto Lucano durante l’incontro del festival intitolato L’importanza di fare comunità coordinato dalla redazione di Comune (ospitato a Caulonia per l’odioso esilio a cui è costretto da otto mesi l’ex sindaco) – a Riace ha preso forma nel momento in cui è diventato un luogo di contaminazioni con gli incontri e gli scambi avviati con il movimento No Tav, con realtà collettive come Ics, Longo Mai, Magistratura democratica ma anche con persone come l’allora vescovo locale Giancarlo Bregantini…“. Del resto, comunità e municipio hanno in parte la stessa origine latina, munus, che significa dono: la libertà di donare e di condividere resta quindi una direzione importante quanto mai verso cui camminare insieme a mille altre esperienze.
Riace si ostina a far parte di quell’universo ampio che in basso grida, attraverso le sue azioni, questo mondo non ci piace, vogliamo fare le cose in modo diverso e nel modo che decidiamo noi. “Un flusso di mille ruscelli mormoranti e di torrenti silenziosi – per dirla con John Holloway -, che vanno insieme a poi si separano ancora, scorrendo insieme verso un oceano potenziale…, una molteplicità di mettere in comune, qui e ora”.