Carceri e Covid-19: intervista all’avvocato Caterina Calia del Foro di Roma

Cateria Calia è un avvocato del foro di Roma, che si occupa da vicino delle condizioni di vita della popolazione carceraria. In questa intervista andrà a fondo su alcune questioni legate non solo all’emergenza Coronavirus, ma anche ad alcuni aspetti del funzionamento del sistema detentivo in questa società.

Caterina, la causa scatenante delle rivolte nelle carceri è stata la decisione del ministero della giustizia di sospendere sia i colloqui che la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà, ma queste misure “emergenziali” non sono altro che la “goccia che ha fatto traboccare il vaso” della situazione in cui versa il sistema carcerario. A fronte delle condizioni in cui versano attualmente le carceri italiane ritieni sia giustificato il timore dei detenuti di poter contrarre il coronavirus? In carcere sono adottate misure di prevenzione per contrastare efficacemente il rischio di diffusione del contagio tra i detenuti ma anche tra i secondini? Cosa pensi delle ulteriori privazioni imposte?

Sono decenni che le forze politiche succedutesi al governo hanno messo al primo posto il profitto e le politiche securitarie, e questo ha fatto sì che, tra tante altre nefandezze, si sia enormemente indebolita la salvaguardia della salute per tutti e si siano riempite a dismisura le carceri. A fronte di una reale emergenza, che ha assunto le caratteristiche di una pandemia, il governo e le forze politiche tutte non riescono, non vogliono, non sanno operare una rottura col codice del profitto capitalista e neoliberista. La sospensione dei colloqui, dei permessi premio e del regime della semilibertà da un lato, la mancata previsione di qualsiasi misura deflattiva per alleggerire il sovraffollamento e l’assenza di qualsiasi forma di interlocuzione dall’altro sono stati percepiti dalla popolazione detenuta come una decisione definitiva e tombale, in continuità con i numerosi provvedimenti assunti negli ultimi anni e emblematicamente espressi attraverso gli slogan più beceri e forcaioli del “buttare via le chiavi” e del “marcire in galera”. Tutto ciò ha determinato una situazione non più di persone ristrette in condizioni invivibili, ma di veri e propri “topi in gabbia”.

La disperazione per le notizie sempre più allarmanti sul rischio contagio e l’assenza di ogni canale di comunicazione con le direzioni ed il DAP ha portato alle rivolte spontanee in tantissimi istituti con i tragici esiti che conosciamo. La maggior parte dei detenuti che hanno partecipato alle proteste e anche molti di coloro che hanno perso la vita in circostanze ancora tutte da chiarire dovevano scontare pene brevissime, uno dei deceduti sarebbe uscito tra due settimane; questo ci dà il polso dell’impatto che ha avuto dentro le carceri la notizia del diffondersi del coronavirus e delle misure eccezionali adottate per la salvaguardia della salute di tutta la popolazione, eccezion fatta per i carcerati, considerati soggetti privi di qualsiasi diritto, addirittura del diritto primario alla salute e alla vita.

I detenuti conoscono sulla propria pelle la ferocia delle politiche carcerarie: gli anziani o i malati con patologie gravissime sono tantissimi e molti di essi non vengono scarcerati nemmeno in punto di morte, ma nessuno di loro si aspettava che di fronte ad una emergenza come questa non solo non venissero prese misure adeguate, ma non venissero nemmeno preannunciate misure allo studio del ministero della giustizia o pronunciata nei loro confronti una sola parola di speranza.

Il carcere per il ministro Bonafede e per il DAP deve continuare a veicolare in maniera sempre più pervasiva il messaggio del monopolio della forza che lo Stato esercita sulla società e la sua funzione come apparato differenziato di controllo sociale, ancora di più oggi a fronte di contraddizioni sempre più esplosive.

Per mantenere la funzione storica del carcere i provvedimenti che si sono susseguiti in questi ultimi anni hanno perseguito come obiettivo il controllo totale sui corpi e la vita dei detenuti e trasformato il carcere in un buco nero separato dalla società.Possiamo quindi dire che è vero che i provvedimenti restrittivi adottati dal governo sono stati solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo.

Le misure di prevenzione per contrastare la diffusione del contagio tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria non possono che produrre l’effetto contrario se non si svuotano urgentemente le carceri, in primo luogo attraverso i classici strumenti deflattivi di amnistia e indulto, riducendo consistentemente il numero dei detenuti.

Nessuno può negare che il sovraffollamento nel carcere ha superato ogni limite e che la sanità è quasi inesistente quindi i timori dei reclusi di un espandersi del contagio sono più che fondati.

Ci sono stati già casi di contagio in carcere che tu sappia? Se un detenuto dovesse contrarre il coronavirus quale sono le misure sanitarie che scattano e i tempi perché egli riceva tutte le cure di cui necessita?

Ci sono già dei contagi tra i detenuti (anche se non è facile in questi giorni acquisire notizie certe) e parecchi casi tra gli agenti di polizia penitenziaria, ma quello che va detto è che in carcere è impossibile fermare l’avanzata del virus.

Abbiamo visto che le stesse strutture preposte alla cura delle persone, come gli ospedali, dove in teoria vengono adottate tutte le misure di prevenzione, rappresentano luoghi ad alto contagio sia per il personale che per gli utenti (sono tantissimi i medici e i paramedici già infettati e purtroppo crescono anche i decessi, da ultimo l’infermiere del 118).

Anche nelle navi da crociera (fornite di ogni confort di lusso) è stato impossibile fermare i contagi, figuriamoci cosa può accadere in luoghi fatiscenti e sovraffollati come le carceri, con celle che “ospitano” a volte fino a dieci detenuti con un solo cesso e docce fuori dalle celle dove si accede per gruppi, in totale assenza di norme igieniche e senza che siano assicurati dall’amministrazione penitenziaria nemmeno i prodotti primari quali sapone o disinfettanti, sia per l’igiene personale che per le pulizie delle celle.

Il contagio una volta entrato all’interno delle galere non potrà in alcun modo essere fermato e gli esiti, ampiamente prevedibili, saranno catastrofici.

L’attuale amministrazione penitenziaria si è dimostrata completamente inetta e incapace di affrontare tale emergenza, ma sarebbe meglio dire che ha scelto di non affrontarla ritenendo che la vita di queste persone non valga nulla.

Il sistema sanitario nazionale è al collasso, scarseggiano posti letto nelle terapie intensive, questo quanto ci ripetono da giorni… Il sovraffollamento carcerario (stimato al 180% nel carcere di Bologna, mentre la media è sul 120%) rende estremamente probabile che una cattiva gestione della prevenzione a monte produca un numero altissimo di contagiati… che “se scoperti” (si fanno tamponi e in che misura in carcere?) andrebbero a sottrarre preziosi posti di rianimazione “alla gente onesta” che ne ha bisogno. Il Governo incentiva anche così la “guerra tra poveri” tutelando alcuni e non altri a seconda degli interessi in gioco (anche fuori dal carcere gli operai delle fabbriche che devono “marciare” non hanno alcuna forma di tutela, il tampone lo fanno a Conte o a Zingaretti, ma non a loro).

La sanità nazionale, stante i tagli operati per decenni, non poteva non trovarsi immediatamente sull’orlo del collasso. Tale situazione non poteva che diventare estremamente pericolosa per i detenuti, per il semplice fatto che la sola struttura chiamata a far fronte ad eventuali casi di contagio è il presidio dell’ASL presente in carcere.

In carcere finora non si sono fatti tamponi ai detenuti.

Erano state allestite delle tende fuori dagli istituti penitenziari per effettuare i controlli, consistenti solo nella misurazione della febbre ai familiari ammessi al colloquio. Forse dopo un giorno o due di operatività è stato decretato il blocco totale dei colloqui ed è quindi terminato l’uso di tali tende.

Secondo le linee operative dettate dal capo del DAP Basentini qualche giorno fa (13 marzo) dovrebbero essere riconvertite per effettuare il triage dei “nuovi giunti” e per controllare lo stato di salute in caso di trasferimenti – previsti in questo momento solo per gravi motivi di sicurezza o di salute – ma che di fatto, a seguito delle rivolte e delle proteste hanno coinvolto centinaia di reclusi. Peccato però che per svolgere queste attività non è stato previsto alcun rafforzamento dell’organico sanitario, perennemente carente e insufficiente anche per le normali attività. Le disposizioni impartite sono quelle dell’uso dei termoscanner e anche dei tamponi in caso di febbre o sospetto di infezione, ma non mi risulta che tale materiale sia effettivamente stato distribuito.

A detta del DAP sarebbero state inviate nelle carceri 97.000 mascherine usa e getta (notizia non confermata dalla polizia penitenziaria che continua a denunciare di dover lavorare in assenza anche di questa minima precauzione), ma i detenuti sono oltre 61.000 quindi ognuno può trarre le proprie considerazioni sulla sufficienza delle stesse.

In qualsiasi caso è impensabile sia un uso continuo dentro le celle che una vera utilità per scongiurare l’avanzare dell’epidemia.

Con le accennate “linee operative” si dispone anche la necessità di isolare coloro che presentano sintomi che possano far pensare a una infezione, ma considerata l’insufficienza degli spazi detentivi sarà possibile attuare queste minime misure solo in pochi istituti o finché i casi saranno pochissimi. Tra l’altro se si svuotano delle sezioni per la quarantena – in assenza di provvedimenti che incidano sui numeri dei ristretti – non può che aumentare ulteriormente il sovraffollamento nelle altre sezioni e con esso il rischio di contagio.

Anche i reparti preposti al ricovero dei detenuti negli ospedali di zona, dove dovrebbero essere fatti i tamponi e tutti i controlli relativi, sono pochi e con un numero ridottissimo di posti letto. E comunque in questi reparti non ci sono certo centri di terapia intensiva che andrebbero disputati con tutti gli altri ricoverati “normali”.

Le carceri specializzate nell’assistenza medica di tutto il circuito si contano sulle dita di una mano ed hanno al proprio vertice di specializzazione il Carcere di Parma dove nessun detenuto auspica di finire per alcuna ragione.

In pratica l’unica proposta avanzata dal Direttore del DAP per i casi di sospetto o di accertato contagio è quello dell’isolamento in stile 41bis (!).

Nell’orizzonte del DAP e di Bonafede (un ministro che non sarà dimenticato) le carceri sono destinate a diventare nient’altro che lazzaretti! Siamo semplicemente in presenza di una bomba pronta ad esplodere!

Si può dire, pensando anche agli operai precettati al lavoro, che una situazione di crisi assoluta come questa fa emergere nella sua forma più nitida ed esplicita i rapporti di classe e di sfruttamento di questa società.

“Lo Stato non indietreggia neppure di un centimetro di fronte all’illegalità”, dice Bonafede oggi, chiedendo ai detenuti “il rispetto delle regole”, ma l’Italia è stata condannata più volte per “trattamenti inumani in carcere” dalla Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo e il nostro paese detiene da oltre 30 anni dei militanti politici in regime di isolamento assoluto (una forma di tortura)… Di che regole parliamo? Dov’è la funzione educativa del carcere?

Parlare di funzione rieducativa del carcere, tanto più in questo momento è semplicemente ridicolo, l’intera struttura detentiva dimostra di essere una macchina ben integrata fondata sul trattamento differenziato e sulla gerarchia di sicurezza e annientamento, dove le rappresentazioni “artistiche”, artigianali e rieducative sono solo l’altra faccia dell’isolamento, della repressione più violenta che attraversa l’intero sistema. Il sistema dell’isolamento differenziato attraversa tutte le carceri, sezione per sezione, diventa il codice genetico-operativo che fa del carcere il sistema terrifico per tutta la società e di annientamento per chi rifiuta di adeguarsi ai codici dominanti.

Questo governo non si discosta in nulla non solo dal precedente (a un Bonafede ne segue un altro, finché ce ne saranno) ma da più di tre decenni almeno. Rispetto delle regole e condizioni detentive non sono altro che l’espressione dei rapporti di forza che ci sono tra Stato e società. E’ su questo che si gioca lo scontro anche all’interno del carcere. Dare voce, forza, garantire ai detenuti i diritti fondamentali, con le lotte e le mobilitazioni. Sono queste che stanno garantendo ai detenuti questa minima ‘esistenza comunicativa’ e semplicemente di non morire in silenzio.

In Iran, un paese considerato da molti una dittatura, sono stati messi ai domiciliari 70.000 detenuti per far fronte all’emergenza coronavirus in carcere. In Italia quali sono le misure che a tuo parere andrebbero adottate?

Non ci sono assolutamente discussioni da fare, due misure sembrano di buon senso a chiunque in una situazione come quella italiana: un indulto significativo che riguardi le condanne fino a tre-quattro anni e l’applicazione, in tempi rapidissimi, di misure alternative al carcere come la detenzione domiciliare per il più gran numero possibile di detenuti che ne abbiano maturato formalmente le condizioni (reclusi in attesa di giudizio per reati di non estrema gravità, ultrasessantacinquenni, malati, persone che hanno pene contenute in due-tre anni). Naturalmente dovrebbe essere compito del DAP stilare la lista di chi risponde a tali requisiti e trasmetterla ai tribunali di Sorveglianza, ma anche ai Procuratori per quanto riguarda le persone in attesa di giudizio affinché siano prese decisioni in tempi rapidi e senza attendere la richiesta del singolo detenuto o dell’avvocato. Per contenere il diffondersi del contagio dentro le carceri sarebbe necessaria una vera e propria corsa contro il tempo, mentre finora non è stata presa nessuna iniziativa a livello centrale se non di segno contrario!

Per le migliaia di detenuti – per lo più migranti – privi di un domicilio l’unica soluzione concreta sarebbe l’indulto non essendo praticabile, se non in misura minima, la strada della detenzione domiciliare.

Le misure deflattive, sussistendo le condizioni del fine pena breve, dell’età avanzata o della presenza di patologie, dovrebbero essere applicate a tutti, cioè anche ai detenuti accusati o condannati per reati previsti dall’art. 4 bis O.P., norma che ha introdotto il doppio binario per l’accesso ai benefici penitenziari escludendoli (o imponendo un tetto di pena predeterminato) a un sempre maggior numero di reclusi, solo sulla base del titolo di reato.

Luca Abbà, militante No TAV, sottoposto a regime di semilibertà, in una recente lettera scrive: “Un provvedimento urgente, e di assoluto buon senso, sarebbe quello di liberare chi già gode di benefici, chi è sopra una soglia di età definita “a rischio”, chi ha un residuo di pena sotto i due anni. Non sta a me proporre quali misure alternative si potrebbero applicare (tipo obblighi di firma, rientri domiciliari ecc…) e nemmeno la forma legislativa adeguata (amnistia, indulto, decreto legge). Ai detenuti esclusi da tale provvedimento si potrebbero applicare più facilmente misure di prevenzione e sicurezza adeguate per poter garantire i colloqui con i propri cari e condizioni di detenzione meno disagiate di quelle odierne a causa del sovraffollamento cronico degli ultimi anni”. Secondo te, tali misure sarebbero coerenti con la “gestione democratica” dell’emergenza?

Non so quale possa essere nelle attuali condizioni una “gestione democratica” dell’emergenza. E’ certo che sono le sole che hanno un senso che non sia quello del giustizialismo dei Bonafede e dei Travaglio, un giustizialismo che vorrebbe fungere da distrazione di massa alla disperazione di quelle stesse frange sociali di piccola e media borghesia, che già strozzate dalla crisi vengono ora fatte a pezzi dall’esplosione, in campo sanitario ed economico, del coronavirus.

Non devono essere gli operai, i detenuti, o quelli che non hanno una casa in cui restare chiusi o nemmeno un lavoro da difendere, a pagare il prezzo delle crisi di questo iniquo e criminale modello di sviluppo ai tempi del coronavirus.

Si contano 14 morti tra i detenuti a seguito delle rivolte, tutti per “overdose da farmaci”, singolare non credi?

Non è solo singolare, ma nasconde di sicuro qualcosa di terribile successo nelle carceri di Modena, Rieti, Bologna e altre carceri. Alcuni sono morti certamente dopo i trasferimenti, ci sono testimonianze sicure di pestaggi feroci, sappiamo di mancanza assoluta di cura e assistenza medica dopo le rivolte e la repressione. Tutto questo ci impone di tenere aperta ad ogni costo la questione.Dobbiamo avere il quadro esatto dei trasferimenti, l’elenco dei detenuti ora, carcere per carcere, dobbiamo avere le relazioni dei centri medici sulla situazione generale e su ogni detenuto su cui sono intervenuti, dobbiamo esigere risposte immediate, chiare ed esaurienti dai tribunali di sorveglianza dei vari distretti su ogni carcere, per poter giungere ad una valutazione delle responsabilità. Su queste morti deve essere costituita una commissione di inchiesta che deve vedere la partecipazione oltre che di una rappresentanza parlamentare anche della magistratura di sorveglianza, dell’ufficio del garante e di rappresentanti dell’avvocatura penale, delle associazioni di sostegno ai detenuti e dei familiari che ne facessero richiesta.

Sino ad allora i responsabili di queste morti sono il Ministro Bonafede, il Direttore del DAP ed i loro sottoposti!

di Agenzia Stampa CARC

 

[Italia] Carceri e Covid-19: intervista all’avvocato Caterina Calia del Foro di Roma

 

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