Fino a due settimane fa tutti lo negavano e gli davano del pazzo. Dicevano che i morti a Bergamo erano qualche decina. Allora, sui necrologi dell’Eco di Bergamo, c’erano 25-30 necrologi al giorno. Oggi sono 400. In città e nei piccoli e medi centri della bergamasca, gli anziani sono un terzo della popolazione e l’Eco di Bergamo non riceve più necrologi per telefono ma solo via mail, per cui molti desistono. Al giornale, ora, hanno la consegna di non pubblicare più di 20 pagine di necrologi al giorno.
I medici del posto dicono che il rapporto tra i morti ufficiali e le vittime effettive, in alcune aree, tocca le punte di 1 a 20. La provincia di Bergamo conta 1 milione e 100.000 e, se fosse confermata dalla versione di quei medici, significherebbe che lì, ogni famiglia, avrebbe almeno un morto.
Il 25 marzo, il capo della protezione civile, Angelo Borrelli, aveva ammesso, su Repubblica, che il contagio poteva essere dieci volte la stima ufficiale. Quel giorno stesso Borrelli, accusava sintomi febbrili e, a scopo precauzionale, lasciava la sede del Dipartimento. La Protezione Civile, dapprima sospendeva e poi confermava la quotidiana conferenza stampa sull’emergenza Coronavirus.
Intanto l’Istituto Superiore di Sanità aveva chiesto di dichiarare una zona rossa nei comuni focolaio di Bergamo e Brescia: la richiesta dell’ISS risale al 2 marzo, ma non fu presa in considerazione. Da lì in poi il virus è dilagato nelle due province, con migliaia di contagiati e di morti.
Eppure, il governatore lombardo e leghista Attilio Fontana piagnucolava, puntando il dito contro la comunità scientifica, che, secondo lui, gli aveva suggerito di non chiudere i focolai.
Francesco Macario è il segretario provinciale del PRC di Bergamo, città di cui è stato assessore comunale. Oggi è consigliere comunale in un piccolo centro della provincia dove la settimana scorsa è deceduto un numero di persone pari alla metà di quelle che di solito muoiono in un anno, ma ufficialmente non di COVID-19.
Un mese fa è stato anche l’unico politico ad accusare il sindaco di Bergamo di incoscienza, dopo il suo appello ai bergamaschi e uscire da casa e riempire locali e negozi. Erano i giorni in cui il sindaco di Milano, Beppe Sala, lanciava lo slogan ‘Milano non si ferma‘ ed il segretario del Partito Democratico Zingaretti accorreva nel capoluogo lombardo per un aperitivo a favore di telecamere.
E sempre Macario è stato tra i primi a denunciare la discrepanza tra le cifre ufficiali e le vittime effettive, che ora tutti ammettono e che sarebbero 5-10 volte quelle contabilizzati ufficialmente, cioè non 1.000 ma dalle 5.000 alle 10.000.
E ‘una tesi che ormai rilanciano anche i media e lo stesso sindaco di Bergamo.
In un’intervista pubblicata dal sito glistatigenerali.com il 25 marzo scorso, Macario ha chiamato in causa le condizioni della sanità lombarda, il ruolo delle imprese e della politica, le relazioni tra Bergamo e la Cina, la condizione dei lavoratori oggi nelle fabbriche, quella dei medici in prima linea ed ha fatto, infine, alcune importanti riflessioni sul “dopo”.
Dal suo racconto emerge una verità molto diversa circa le cause dell’enorme diffusione del contagio e della lunghissima serie di decessi registrati nella provincia di Bergamo. Tra queste, una risalta, con estrema evidenza: un cedimento “sistemico” delle classi dirigenti bergamasche alle ragioni del profitto e della “produzione” accompagnati da uno scarso riguardo alla vita ed alla salute delle persona, in primis, quella di lavoratrici/ri ed anziane/i.
Eccone un ampio stralcio.
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“Quando ti riferisci ai morti che non vengono contabilizzati ufficialmente nelle statistiche, perché muoiono in casa cosa intendi, cioè perché non vanno in ospedale?
Le cose vanno così. Tu stai male, ti sale la febbre per 2-3 giorni e hai due possibilità: o ti riprendi e guarisci oppure peggiori. In questo caso dopo 5-6 giorni arriva una crisi respiratoria, che può essere terminale, cioè muori in meno di un’ora perché lo scambio tra ossigeno e anidride carbonica nei polmoni è insufficiente, non affluisce abbastanza ossigeno al cervello e muori nel tuo letto in preda alle convulsioni, un’esperienza terribile anche per i familiari.
Se invece il paziente sopravvive viene messo su un’ambulanza e portato nel triage, dove gli attaccano l’ossigeno e gli fanno il tampone. Se ha il COVID-19 va negli infettivi, sennò in un altro reparto. In altre parole se muore a casa non gli fanno il tampone e risulta perlopiù morto per infarto o polmonite.
Poi c’è l’altra ipotesi e cioè che portino l’ossigeno direttamente a casa del malato, perché non ci sono posti letto o il tuo caso viene giudicato relativamente meno grave. Anche in questo caso se poi il paziente muore il tampone non viene effettuato e quindi il decesso non viene attribuito al coronavirus. Sabato è morto mio zio. Lo avevano portato all’ospedale ed è mancato in attesa che gli facessero il tampone. Ufficialmente è deceduto per polmonite, è stato seppellito, non cremato come i morti di COVID, e i parenti a contatto con lui non hanno l’obbligo della quarantena, perché lui non risulta contagiato.
La sanità lombarda in che condizioni affronta questa prova?
Qui la popolazione ha un’età media molto elevata. L’assistenza sanitaria è di buon livello, se ti ammali ti curano bene, mentre la medicina preventiva è decisamente insufficiente. Ma nel complesso si vive a lungo, anche 110 anni, però a una certa età si è molto vulnerabili, perché spesso si sovrappongono più patologie croniche.
In questo contesto le giunte di Formigoni e poi quelle leghiste, a partire dagli anni ’90 e poi, più rapidamente, dopo il 2000, hanno intrapreso una sistematica azione di chiusura o privatizzazione delle strutture pubbliche. Sono stati chiusi o privatizzati 28 ospedali, i posti letto per acuti sono stati trasformati in posti letto per riabilitazione, i reparti di pronto soccorso chiusi e due terzi dei posti di terapia intensiva cancellati.
Di recente Giorgetti ha dichiarato persino che bisogna abolire i medici di base perché non ci va più nessuno. Si è parlato di seguire i malati cronici a domicilio tramite call center privati. L’ultimo ospedale che hanno cercato di chiudere, l’anno scorso, era quello di San Giovanni Bianco, che serve alcune zone montane con una popolazione molto anziana e dove le strade sono impervie e più che l’ambulanza serve l’elicottero.
Se ci fossero riusciti l’alternativa sarebbe stata a 50 chilometri. Ma la gente ha reagito, ci sono state proteste a cui abbiamo partecipato e alla fine anche i sindaci si sono convinti e la chiusura è stata sventata. Ebbene oggi senza quell’ospedale saremmo al collasso.
L’ospedale Papa Giovanni a Bergamo invece è stato rifatto ex novo. I lavori sono terminati 10 anni fa, ma coi lavori sono diminuiti sensibilmente i posti letto, che oggi mancano. E così dobbiamo costruire un ospedale da campo dentro la fiera perché nessuno aveva previsto un’emergenza.
Tu sostieni che questo tipo di gestione rientra in una lunga tradizione di malasanità attribuibile alla politica.
Nella sanità lombarda scandali e inchieste non si contano. C’è stato il caso delle camere iperbariche in alcune cliniche, che lavoravano a ciclo continuo trattando un numero di pazienti ingiustificabile a spese del SSN. Poi c’è stato il caso della clinica milanese Santa Rita, ribattezzata la ‘clinica degli orrori’, perché si eseguivano operazioni inutili su pazienti perlopiù terminali facendosi rimborsare dalla ASL.
Questa è la sanità di Formigoni e della Lega. Il bilancio della regione equivale al budget di un paese come la Danimarca e la sanità rappresenta la prima voce di spesa. Le ASL sono rigorosamente lottizzate: nel bergamasco Treviglio alla Lega, Bergamo a Forza Italia/Comunione e Liberazione, mentre Seriate era prima di AN ora di FdI.
E’ qui che Giovanna Ciribelli, revisore dei conti, che era stata anche nostra consigliera comunale, ha denunciato alcune anomalie contabili innescando un’inchiesta che ha visto rinviato a giudizio un ex eurodeputato di AN, per 15 anni dg dell’ospedale di Seriate, accusato di peculato. Tra i suoi addebiti due viaggi andata e ritorno da Seriate alla Croazia effettuati d’estate con auto e autista di servizio. Poi si sono aggiunte altre accuse ed è stato costretto a dimettersi.
Insomma se all’ospedale di Alzano, nella ASL di Seriate, qualcuno è andato coi sintomi del virus e non se ne sono accorti possiamo dire che c’entra l’inefficienza strutturale di quell’ospedale, già al centro di polemiche.
Il secondo punto della tua denuncia riguarda l’arrivo del virus e la sua diffusione nel bergamasco. Che relazioni ci sono tra Bergamo e la Cina?
C’è un rapporto strutturale dettato dalla geografia. Bergamo è il terminale di una rotta commerciale che dalla Cina arriva nell’Adriatico, oggi tramite il Canale di Suez, e da lì nella nostra provincia e risale a Marco Polo e all’antica Via della Seta. La città era l’ultima fortezza veneziana che garantiva il transito di merci cinesi dirette in Francia e nel nord Europa. Per questo ci sono sempre state relazioni culturali e commerciali.
Quando ero assessore comunale avevo seguito un progetto sulle fortezze veneziane nel Mediterraneo finanziato dall’UNESCO. Tradizionalmente quando l’economia cinese tira questa via prospera e, viceversa, quando va in crisi si isterilisce.
Fatta questa premessa il vero nodo è che il bergamasco ospitava un importante distretto tessile concentrato soprattutto in Val Seriana. Col passare del tempo però le imprese tessili della zona hanno delocalizzato la produzione in Cina, creando joint-venture coi cinesi e fornendo loro telai e macchinari, per cui ci sono tecnici e manager cinesi che vengono in Italia e italiani che vanno in Cina. I nostri tecnici vanno là per fare manutenzione, corsi di formazione ecc.
L’aeroporto di Orio al Serio ospitava voli low cost diretti agli scali intermedi per la Cina e questo consentiva ai tecnici di fare avanti e indietro anche in settimana. Questo traffico probabilmente aveva già portato l’infezione in Italia a fine gennaio e probabilmente qualcuno coi sintomi del virus era stato all’ospedale di Alzano e la cosa era stata sottovalutata. Ma il fenomeno presumibilmente in quei giorni era circoscritto.
Il prestigioso sito finanziario Forbes220320 domenica ha scritto che l’Italia ‘a febbraio nel punto più alto dell’epidemia spediva gente a fare la spola con le fabbriche di prodotti tessili nella provincia dell’Hubei’.
A febbraio, quando l’Italia ha bloccato i voli diretti con la Cina, le aziende hanno continuato a far fare avanti e indietro ai propri dipendenti, facendo fare loro scalo a Mosca o a Bangkok. Perciò quando tornavano non risultavano in arrivo dalla Cina e non venivano sottoposti ai controlli né registrati. Tutti lo sapevano. Nelle fabbriche se ne parlava e la gente era preoccupata, ma nessuno è andato ad autodenunciarsi alle autorità sanitarie per timore delle conseguenze. E così l’infezione in Val Seriana ha galoppato per l’atteggiamento irresponsabile degli imprenditori.
Tra Bergamo a la Cina ci sono affari per 1,3 miliardi (BergamoNews220319), il che spiega la tesi del Fatto210320, cioè che gli imprenditori avrebbero messo sotto pressione i sindaci della zona: due della Lega, ad Alzano e Albino, e due del PD, a Villa di Serio e a Nembro. Il primo cittadino di Scanzorosciate, confinante con Alzano e Villa di Serio, è anche segretario provinciale del PD e amico del viceministro per l’economia Antonio Misiani (così ha scritto lui su Facebook dopo la nomina di Misiani), uomo forte del PD nel bergamasco. L’oggetto delle pressioni sarebbe stata l’ipotesi di istituire in quest’area una zona rossa come Codogno e Vo’.
A Nembro c’è la Persico Marine, che fa barche da regata come Luna Rossa. L’articolo del Fatto che hai citato riferisce che la Persico avrebbe avuto alcune consegne importanti tra febbraio e marzo, altri dicono che il 9 marzo doveva consegnare una barca in Sardegna. L’Azienda naturalmente ha smentito.
In zona poi ci sono molte altre imprese importanti come la Polini Motori e le cartiere Pigna. In ogni caso gli imprenditori della Val Seriana quando si è cominciato a parlare di zona rossa hanno cominciato a protestare dicendo che sarebbe stato un danno economico incalcolabile. Confindustria ha dato loro man forte.
Quindi se ho ben capito nella ipotetica zona rossa ci sono due sindaci del PD e due della Lega e anche il comune dove è sindaco il segretario provinciale del PD, vicino alla longa manus del Governo a Bergamo, rischia di essere incluso nella zona rossa. Fatto sta che il Governo decide di non istituirla…
Ma non lo fa neanche la Regione, che pure ne avrebbe l’autorità. I sindaci leghisti di Alzano e Albino, che a fine febbraio escludevano la zona rossa, oggi dicono che era necessaria ma non è stata fatta per colpa del Governo. Insomma Governo e regione si rimpallano la responsabilità per non aver preso una decisione che ciascuno dei due avrebbe potuto prendere in autonomia. Poi ci sono le aggravanti.
Quali sono?
L’ultima settimana di febbraio qui c’è una situazione da matti, le persone muoiono già a mazzi, qualcuno dice che serve una zona rossa, ma imprenditori e sindaci sono contrari e tutto va avanti come nulla fosse. Il sindaco di Albino continua ad autorizzare il mercato rionale con le bancarelle, che viene sospeso solo la settimana scorsa.
Il 26 febbraio il sindaco di Bergamo Giorgio Gori va con la moglie Cristina Parodi a mangiare la pizza nel ristorante di un consigliere comunale del PD e invita i bergamaschi a uscire e a fare shopping e il weekend dopo sui bus c’è il biglietto unico per l’intera giornata per incentivare la gente a mettere in pratica i consigli del sindaco.
In provincia risiedono un milione e 100.000 persone. Il capoluogo ha una popolazione relativamente ristretta, 120.000 persone, ma la grande Bergamo, che è la ‘città reale’, è una conurbazione con 400.000 residenti, di cui fanno parte anche i 4 comuni più colpiti dal virus.
La gente arriva da tutto il circondario, scende dalle valli, attirata dallo spot del sindaco pro commercianti, trasformando l’intera zona in un grande lazzaretto a cielo aperto. E quando io attacco Gori, dandogli dell’incosciente, vengo stato coperto di insulti, coi militanti del PD che mi telefonano dicendo che così si ammazza l’economia.
Da lì poi il contagio è dilagato verso Brescia e Cremona. Attraverso quali canali?
Siccome c’è il timore che il virus colpisca Milano, sulle strade tra Bergamo e Milano hanno fatto più controlli, c’erano i posti di blocco ai caselli autostradali e nei principali snodi. Verso Brescia invece i controlli erano decisamente più blandi. Tieni conto che tra le due province ci sono legami economici forti, mediati dalle aziende della siderurgia e dall’industria vinicola – qui c’è la zona del Franciacorta. Poi ci sono imprese che hanno cave sia nel bresciano sia nel bergamasco e c’è stata una fusione tra una banca di Bergamo e una di Brescia, per cui molti bancari da Bergamo vanno a lavorare a Brescia.
Cremona è un caso limite, sono pochi, circa 350.000 residenti, ma hanno la più alta percentuale di contagi, probabilmente perché sono stati aggrediti da due lati. A nord confinano con noi e ci sono diversi canali diretti. Tieni presente che la parte meridionale del bergamasco è provincia di Brescia ma diocesi di Cremona e anche la loro agricoltura gravita più sul cremonese. A ovest invece confinano col lodigiano, dove si è manifestato il primo focolaio.
La produzione nel frattempo continua ad andare avanti.
Le fabbriche di vernici e quelle del settore della gomma-plastica, che producono guarnizioni per auto, fanno parte della chimica e quindi sono aperte. Ma anche qui i paradossi non mancano.
Ad esempio la Regione ha stabilito che le aziende artigiane devono chiudere. Perciò ci sono aziende artigiane con 200 dipendenti che fanno guarnizioni per auto che chiudono e imprese industriali con lo stesso numero di dipendenti che producono le stesse guarnizioni che invece rimangono in attività.
Un’azienda che ha una produzione sia di vernici ad acqua per tinteggiare sia di vernici per carrozzerie ha deciso di fermare la prima mettendo i dipendenti in ferie forzate. L’altro reparto continuerà a lavorare chiedendo la deroga perché le sue vernici possono essere usate anche per le carrozzerie delle ambulanze. E finita l’emergenza avrà i magazzini pieni.
I lavoratori come reagiscono?
I lavoratori hanno fatto scioperi spontanei, in particolare nel settore metalmeccanico e chimico. Il sindacato finora ha fatto poco, in alcuni casi la FIOM, soprattutto, ha dato la copertura ad alcuni di quegli scioperi innescati dall’assenza di sicurezza.
Nel settore delle vernici, ad esempio, si lavora sempre con la mascherina perché ci sono emissioni dannose. Ora che le mascherine non si trovano più, i lavoratori devono usare la stessa mascherina monouso per una settimana, col rischio di intossicarsi con la polvere di talco che dopo un po’ ci rimane appiccicata sopra.
Perciò i lavoratori italiani col posto fisso o si mettono in malattia o trovano il modo per farsi mettere in quarantena – il decreto Cura Italia parifica la quarantena alla malattia – e tante fabbriche in realtà sono costrette a chiudere per questo.
Il problema sono gli immigrati e i precari, che rischiano di perdere il posto di lavoro e se sono stranieri anche il permesso di soggiorno. Se hai 45 anni, un contratto a tempo con un mutuo da pagare e una famiglia da mantenere cosa fai? Vai a lavorare. Ho visto gente andare in fabbrica piangendo. Sanno che loro probabilmente non si ammaleranno, ma porteranno il virus a casa, dove magari hanno genitori o suoceri, col rischio di condannarli a morte.
Tra i lavoratori ci sono anche i medici, i farmacisti e gli infermieri. E’ vero che in corsia si è costretti a scegliere chi curare e chi no?
Come ti dicevo prima ci sono pazienti che vengono ricoverati e altri a cui viene mandato l’ossigeno a casa. Se tu ti trovassi a scegliere tra ricoverare un padre di famiglia di 45 anni coi bambini piccoli e un ottantenne che magari ha già 2-3 malattie cronache e sai che al 70% non ce la farà, che cosa faresti?
Qui sono tutti sotto shock, perché situazioni come queste ti cambiano il modo in cui vedi la vita. E si accumula una profonda rabbia sociale, perché c’è la coscienza che tutto questo si poteva evitare. Se poi ti fanno vedere la gente sui balconi che canta Fratelli d’Italia e tu hai genitori, zii e nonni che muoiono ti incazzi.
Torniamo ai medici.
Mia sorella è medico di base in Valcalepio e ha 1.500 mutuati, ma ora che il suo collega è a letto, probabilmente col coronavirus, ne ha ereditati altri 1.500. Gli è arrivato un documento di 10 pagine in cui le spiegano per filo e per segno come deve usare mascherina, occhiali e tuta protettiva, che però non le vengono forniti.
Lei è un medico di quelli di una volta, visita i pazienti a casa, ora ne ha tantissimi in quarantena a letto con la bombola dell’ossigeno. Deve andare a visitarli, ma non ha una mascherina. Il suo compagno è arrivato a pubblicare un appello in FB chiedendo se qualcuno gliene può dare una. Mia moglie invece è farmacista e di mascherine gliene hanno dato tre.
Per il resto non si trovano oppure si trovano a prezzi esorbitanti. I prezzi li fanno i grossisti e se tu le compri e le vendi a quelle cifre la gente se la prende con te. Dico io, vuoi fare la sanità privata? Falla, ma senza contributi pubblici.
Qui mancano letti e ci sono strutture private che tengono aperti solo i posti letto convenzionati e gli altri li chiudono per ragioni economiche. Abbiamo buttato i soldi pubblici nelle cliniche per rifare i nasi alle ragazzine e non abbiamo scorte strategiche per le emergenze.
Qui siamo alle riflessioni più politiche. Secondo te la rabbia di cui parlavi poco fa potrà essere incanalata per cambiare le cose e far sì che non succeda mai più?
La gente vuole cambiare. Chiede una commissione di inchiesta e voglio vedere se la politica acconsentirà. Diciamo che ci sono due possibili esiti. La rabbia può sfociare in una presa di coscienza, soprattutto nelle fabbriche, perché qui i lavoratori si sono resi conto di essere sacrificabili coi loro cari sull’altare della della produzione. Un operaio mi ha detto: ‘Ho scoperto che non lavoro per vivere ma vivo per lavorare e quindi sono sacrificabile’. Dicevano che la classe operaia era scomparsa, ma oggi riscopriamo che tra Bergamo e Brescia ci sono 500.000 operai, un quarto dei residenti. Perciò i lavoratori possono giocare un grande ruolo.
Qual è la seconda possibilità?
Che a cavalcare la rabbia sia la destra. In questi giorni abbiamo visto crescere un clima di intolleranza verso i moderni ‘untori’. Ho sentito simpatizzanti leghisti dire che bisogna sparare a chi è in strada senza motivo. Altri invocano i militari in strada coi mitra e più in generale circola l’idea che la democrazia sia troppo complicata e inadatta ad affrontare le emergenze. Si parla di app per tracciare gli spostamenti, droni e virus che possono mettere i nostri telefoni sotto controllo. La vera minaccia per la democrazia è questa.