“Città, malattie e comunità”

In molti angoli del mondo, le risposte delle comunità non solo hanno offerto straordinarie possibilità di mutuo aiuto e di solidarietà contro la crisi provocata dal virus (come raccontato in Condomini virali), ma hanno anche dato prova di funzionare meglio dell’ospedalizzazione dei malati. È accaduto e sta accadendo perfino in alcuni slum. Scrive Michela Barzi: “Quando le malattie attaccano le città, sia che si tratti di virus o batteri oppure della «cancrena galoppante» (definizione usata da Jane Jacobs in Città e libertà) dei progetti che demoliscono interi quartieri, più che gli individui sono le comunità che devono immunizzarsi”

Le foto di questa pagina raccontano alcuni momenti di vita durante la pandemia del movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo (ABM, “coloro che vivono nelle baracche”): qui l’assemblea dell’occupazione eKhanana, a Durban, dedicata alle nuove attrezzature per la cucina di comunità

Dharavi è uno slum di Mumbai, dove si stima che viva un milione di persone ammassate in strade strette e piene di piccole abitazioni informali estremamente affollate. Riporta un articolo di Al Jazeera che quando il coronavirus ha fatto lì la sua prima vittima, in molti hanno temuto di vedere lo slum tramutarsi in un cimitero. Tuttavia, malgrado l’impossibilità del distanziamento sociale, tre mesi dopo le nuove infezioni si sono ridotte grazie a un’efficace strategia di tracciamento del virus. Ogni giorno in una parte diversa dello slum, gli operatori sanitari istituiscono un punto di raccolta dove viene mandato chi ha la febbre, in modo che i residenti possano essere sottoposti a screening e test. Scuole, sale per matrimoni e complessi sportivi sono stati trasformati in strutture per la quarantena. In questo modo alla fine di giugno più della metà della popolazione dello slum era stata sottoposta a screening e test, registrando solo 82 degli oltre 4.500 morti di Mumbai. A Dharavi, un luogo che l’urbanistica – disciplina imparentata con la medicina – vorrebbe risanare, l’approccio terapeutico basato sull’attivazione della comunità ha dato prova di funzionare meglio dell’ospedalizzazione dei malati.

A marzo scorso il New England Journal of Medicine ha pubblicato un documento redatto da alcuni medici che lavorano all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Il massiccio ingresso di pazienti Covid-19 stava determinando, secondo loro, una situazione in cui l’ospedale diventava un’importante fonte di contagio e il personale impiegato un veicolo privilegiato per il virus. L’approccio terapeutico basato sul paziente e centrato sull’ospedale si è dimostrato inadatto a fronteggiare la pandemia. Era l’intera popolazione infetta che deve essere raggiunta dalle cure, non solo coloro che necessitano un ricovero. La soluzione individuata sta nell’approccio terapeutico basato sulla comunità, che limita, per quanto possibile, l’ospedalizzazione dei pazienti sostituendola con cure domiciliari, telemedicina e un vasto sistema locale di sorveglianza e isolamento.

Nel suo ultimo libro, Dark Age Ahead, Jane Jacobs ricordava l’importanza di usare l’approccio epidemiologico basato sulla comunità quando si deve fronteggiare la diffusione di un determinato agente patogeno in una grande città. Nell’estate del 1995 Chicago fu colpita da una tremenda ondata di caldo a cui si associarono alti livelli di umidità e di ozono troposferico. Nella settimana tra il 14 e il 20 luglio a centinaia, soprattutto anziani e poveri, morirono per colpo di calore, disidratazione, insufficienza renale o squilibri elettrolitici. Un ricercatore, analizzando due quartieri limitrofi in cui però in uno il numero dei morti era stato dieci volte maggiore dell’altro, scoprì che nel primo gli anziani non avevano alcun posto fresco da raggiungere a piedi e avevano paura di lasciare il loro appartamento per via della microcriminalità. In questo quartiere esisteva una comunità disfunzionale che non aveva protetto i suoi abitanti dagli effetti di quella particolare epidemia. Se una comunità è carente, se è stata depotenziata da decenni di cattiva pianificazione e di indebolimento socio-economico, se i suoi abitanti sono stati lasciati da soli ad arrangiarsi come possono appena fuori dalle loro abitazioni, anche il singolo individuo si indebolisce. Capire dove le persone vivono può essere il primo passo per individuare quale sarà il loro comportamento quando qualche agente patogeno potrebbe colpirli. Mentre scriveva il suo libro nel 2003, anche Toronto, la città nella quale viveva da più di trent’anni, era stata colpita dalla SARS.

Quando la celebre autrice di Vita e morte delle grandi città, era una semplice redattrice di Architectural Forum, in un articolo del 1952 scriveva che l’architetto Isadore Rosenfield progettava gli ospedali che lo avevano reso celebre arrivando a indagare persino il reddito familiare delle comunità a cui erano destinati. Gli ospedali di Rosenfield erano la dimostrazione che per costruire a favore della comunità bisogna prima di tutto conoscerla a fondo. Epidemie e pandemie rendono la conoscenza dei sistemi con cui si strutturano le comunità urbane un elemento imprescindibile per i piani di contenimento degli agenti patogeni. La pianificazione e la progettazione degli elementi strutturali di una città rispecchia quindi il modo di pensare la comunità a cui sono destinati.

Secondo l’antropologo James C. Scott è in parte grazie a Jacobs, e in particolare a Vita e morte delle grandi città, che noi ora conosciamo meglio cosa può rendere soddisfacente un quartiere per le persone che vi abitano. Ciò su cui non si deve smettere di indagare riguarda il modo di sostenerne gli abitanti affinché possano funzionare come una comunità. In un saggio sulla critica di Jacobs all’urbanistica iper-modernista e sulla sua idea di città – che Elèuthera sta per pubblicare in appendice a Città e libertà, un’antologia di scritti di questa autrice – Scott attribuisce a Jacobs la convinzione dell’impossibilità da parte degli urbanisti di creare comunità funzionanti. Al contrario, una comunità che funziona «può, nei propri limiti, migliorare la propria condizione» al di là piani urbanistici. Scott, a questo riguardo, riprende questa affermazione dell’urbanista Stanley Tankel citata nel libro di Jacobs: «la creazione di una comunità è un’impresa che trascende le possibilità inventive di chiunque. Dobbiamo imparare ad amare le comunità che abbiamo, perché non è facile trovarne». Tankel insieme a Jacobs era tra i pochi oppositori del vasto programma di demolizione degli slum e di ricostruzione, che aveva radicalmente trasformato molte città americane, concepito sotto l’egida dell’urban renewal.

Jacobs sosteneva che gli abitanti dei quartieri «condannati» dall’urbanistica del rinnovamento urbano erano in grado di formare comunità capaci di attuare quelle iniziative di auto-risanamento che nel suo libro aveva definito unslumming. Riprendendo queste argomentazioni, Scott sottolinea come gli urbanisti abbiano distrutto molti slum – «il primo punto di appoggio per gli immigrati poveri arrivati in città» – che potevano smettere di esserlo. Se solo, come in molti casi era successo, le comunità che li abitavano avessero potuto raggiungere una certa stabilità sociale ed economica, esse sarebbero state in gradi di uscire da sole dalla condizione di degrado in cui vivevano. Ciò che non corrispondeva agli standard edilizi pensati dagli urbanisti avrebbe potuto avere in sé le energie per far emergere le comunità vitali di cui le città hanno bisogno, soprattutto per affrontare i momenti di difficoltà.

Distribuzione di cibo di ABM alla comunità Daggakraal, nella provincia del Mpumalanga.

La parola comunità viene dal latino communitas, la cui etimologia è stata indagata dal filosofo Roberto Esposito. La sua radice munus rimanda al dovere di dare qualcosa, al dono e al reciproco essere in debito che lega i suoi componenti. Gli individui sono parte di una comunità quando esiste questo legame. Esserne privi definisce, al contrario, la condizione dell’immunità. In una intervista rilasciata nel pieno della pandemia all’Istituto Italiano di Studi Filosofici, Esposito ha sostenuto che, dopo avere attivato il principio immunitario dell’isolamento forzato degli individui dalla loro comunità, è assolutamente necessario riattivare il principio comunitario che lega tra loro le vite degli individui, come hanno dimostrato gli operatori sanitari che hanno rischiato di perdere la loro per salvare le vite altrui. Si tratta, per Esposito, di un passaggio fondamentale verso la «riattivazione della democrazia».

Peter L. Laurence, nel secondo saggio pubblicato in appendice dell’antologia Città e libertà, sostiene che Jacobs credeva che le città, nella loro forma fisica, potessero promuovere la vita democratica. Laurence ricorda che Jacobs, nel suo libro del 1992 System of Survival, aveva sostenuto che ci fosse «bisogno di continue, anche se informali, esplorazioni democratiche su quella parte di persone che potrebbe farsi strada nell’ambito delle politiche governative, degli affari o del volontariato e della società civile». Là dove i cittadini dedicano una parte del loro tempo alle questioni di interesse pubblico e non si accontentano del solo diritto di voto si innescano spontaneamente dei «processi di democratizzazione». Secondo Scott, Jacobs ha messo in evidenza come, in un contesto democratico, una comunità strutturata possa avere la forza di battersi per creare e mantenere tutti quei servizi urbani vitali e quelle abitazioni decenti di cui ha bisogno per continuare ad esistere. Quando le malattie attaccano le città, sia che si tratti di virus o batteri oppure della «cancrena galoppante» – definizione che Jacobs usa in uno dei suoi scritti pubblicati da Elèuthera – dei progetti che demoliscono interi quartieri, più che gli individui sono le comunità che devono immunizzarsi.

Dalla fine degli anni Cinquanta gli scritti di Jacobs hanno avuto l’obiettivo di presentare ai lettori gli strumenti concettuali che potessero renderli immuni dalle false credenze dell’urbanistica novecentesca. Anche se, sottolinea Scott, per molti dei suoi critici Jacobs ha sopravvalutato le virtù della comunità in quartieri che in molti erano ansiosi di lasciare e sottovalutato di considerare quanto le città fossero già state pianificate non dalla iniziativa popolare o dallo stato ma dagli immobiliaristi e dagli uomini della finanza con connessioni politiche, ciò che è importante recuperare della sua fenomenologia urbana è il profondo legame che unisce i luoghi in cui le persone vivono, le comunità che lì si formano e i processi democratici che vi trovano spazio.


Già assistente di Teoria e Storia Urbana all’École d’Architecture di Ginevra e del corso di Urbanistica del Politecnico di Milano, Michela Barzi è autrice e direttrice del sito Millennio Urbano e ha pubblicato numerosi saggi e articoli sullo spazio e la città.

Michela Barzi

01 Settembre 2020
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