“Come si insegna il Covid a scuola?”

In queste ore dovremmo preoccuparci molto di come il Covid possa diventare un argomento da affrontare a scuola, non solo per ridurre il contagio. L’accurata analisi dei motivi che hanno scatenato l’epidemia sarebbe un formidabile banco di prova per ripensare i modelli pedagogici e didattici. In realtà dovremmo forse prima di tutto metterci in ascolto dei ragazzi e di Greta. Anche per questo gli appuntamenti del 26 settembre (Priorità alla scuola) e del 9 ottobre (Sciopero per il clima) possono contribuire a disegnare percorsi inaspettati non solo per la scuola. Ha ragione Paolo Cacciari: abbiamo bisogno di mettere al centro le inquietudini di bambini e ragazzi, le loro capacità di comprensione e “i loro desideri di sapere come agire per cambiare questo mondo malato”


Alla fine, speriamo, arriveranno i banchi, gli spazi aggiuntivi, gli insegnati necessari e le scuole torneranno in qualche modo a funzionare. Ma bisognerebbe preoccuparsi anche di come verrà “insegnato” il Covid19 (abbreviazione per COronaVIrus Disease-2019). Verrà ripetuto anche in aula quello che da mesi affermano, come un disco rotto, tv, giornaloni e giornalini e cioè che siamo stati invasi da un “virus cattivo”, attaccati da un “nemico imprevedibile e invisibile” e via inventando un racconto di comodo che ignora le cause profonde, strutturali, scientifiche e sociali delle nuove pandemie emergenti da zoonosi? La drammatica esperienza vissuta da milioni di giovani di tutte le età andrebbe elaborata nelle scuole con amorevole cura e grandi competenze. Sia per contrastare la “pandemia depressiva” causata dalla desocializzazione da distanziamento fisico e da dipendenza da internet, sia per evitare l’imbroglio di una “ripresa” che non cambia nulla, anzi.

L’accurata analisi dei motivi che hanno scatenato l’epidemia sarebbe un formidabile banco di prova per ripensare i modelli pedagogici e didattici in uso nelle nostre scuole. Proprio quest’anno in cui dovrebbe iniziare l’ora di lezione di “educazione ambientale e alla sostenibilità” (voluta dall’ex ministro alla pubblica istruzione Lorenzo Fioramonti). Poca cosa e confinata nell’ambito della “educazione civica”, perciò stesso non idonea a “intrecciare saperi, competenze e pratiche innovative” di insegnati ed educatori/trici. Prendiamo per buoni, comunque, gli auspici del ministro all’ambiente Sergio Costa: “Con l’inserimento dell’educazione ambientale vogliamo far sì che le generazioni future abbiano una coscienza ambientale maggiore di quella che la mia generazione ha dimostrato di avere”. Quest’anno è anche il centocinquantesimo della nascita di Maria Montessori che diceva: “Il bambino è il maestro” (vedi il volume omonimo di Cristina De Stefano, Rizzoli, 2020). Cominciamo quindi con la pratica dell’ascolto e mettiamo in cattedra Greta Tumberg e le altre del suo movimento, che di “coscienza ambientale” sembrano averne già molta.

Per “spiegare” la diffusione delle nuove patologie virali e batteriche non bastano i virologi. Serve staccare l’occhio dal microscopio e guardare come funziona il mondo attorno a noi: naturale e culturale, biologico ed economico, emozionale-spirituale e fisiologico-cognitivo. Rompere gli steccati degli specialismi e acquisire una visione transdisciplinare. Se tutte le cose sono interdipendenti nella grande rete dei sistemi viventi, allora abbiamo bisogno di una “alfabetizzazione ecologica” (Fritjof Capra, Speaking Nature’s Language: Principles for Sustainability, 2011), che può esplicitarsi attraverso un progetto educativo unitario, un’opera ecopedagogica. Le Linee guida e le indicazioni del Miur per l’ora di educazione ambientale sono davvero poca e misera cosa. Per cominciare mi accontenterei di un corso rapido ai docenti sul “salto interspecifico” (spillover) dovuto alla distruzione degli ecosistemi e alla perdita di biodiversità, alla caccia e al commercio degli animali selvatici, agli allevamenti intensivi e al consumo di suolo, agli stili di vita e alla abitudini alimentari. Tutti effetti collaterali di un sistema di sviluppo controproducente.

Nei prossimi giorni non affideremo alla scuola solo l’igiene dei nostri figli, ma anche le loro inquietudini, la loro capacità di comprensione, il loro desiderio di sapere come agire per cambiare questo mondo malato.

Paolo Cacciari

09 Settembre 2020


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C’è chi pensa che possono cambiare l’ordine delle cose, ma al momento dentro un grande, fragile e incoraggiante movimento come Priorità alla Scuola scuola, nato intorno a genitori e docenti e che il 26 settembre manifesta a Roma (l’appello è stato raccolto anche dai sindacati, tra cui Flc Cgil e Cobas), sembrano un po’ defilati. Per questo la lettera ai Prof del Coordinamento Dei Collettivi Studenteschi di Milano sembra aprire un varco importante. Non accettano che le scuole siano state chiuse, ma rifiutano anche il silenzio su come cambiare una scuola che da tempo fa acqua da tutte le parti. Mettono al centro domande non scontate: “Come studieremo l’ambiente e le scienze? Qualcuno ci spiegherà mai il concetto di Spillover, il legame tra la crisi climatica e il virus?… Come impareremo a essere solidali con qualunque essere umano, non facendo morire delle persone nel Mediterraneo?…”. E invitano i docenti a camminare insieme su percorsi nuovi, a cominciare, ad esempio, dal concetto di città/territorio: “Vi scriviamo per invitarvi a essere con noi, a immaginare insieme strade percorribili, per prendere parte, per continuare a fare a scuola e a farla meglio. Occupate con noi i parchi, le scuole, le strade! Apriamo le scuole alla città e la città alle scuole, stiamo in classe il pomeriggio e la sera, scioperate con noi facendo lezione in piazza, ribellatevi alla Dad, siate partigian*!…”

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