I 100 anni del PCI, Dalla “svolta di Salerno” alla “via italiana al socialismo”

Un dramma che si rispetti si svolge sempre in tre atti. Nel primo atto i personaggi cominciano a muoversi in uno scenario ancora nebuloso;

 

Un dramma in tre atti

Dalla “svolta di Salerno” alla “via italiana al socialismo”

di Alberto Lombardo

Cumpanis, dicembre 2020

Un dramma che si rispetti si svolge sempre in tre atti. Nel primo atto i personaggi cominciano a muoversi in uno scenario ancora nebuloso; già c’è un primo intervento del deus ex machina che però non è chiaro quale delle due parti appoggi; lo spettatore propende ora per l’uno, ora per l’altro, perché riconosce in ciascuno di essi delle ragioni che contengono una parte di verità, anche se le rispettive ragioni possono sovrapporsi o addirittura contrapporsi; ma ciò non lo preoccupa: è la vita che si presenta così, egli attende insieme fiducioso e preoccupato il secondo atto. Nel secondo atto i contrasti si acuiscono, i personaggi cominciano ad assumere caratteristiche sempre meno personali e sempre più universali, c’è il secondo intervento del deus ex machina che sposta decisamente il peso della bilancia verso una delle due parti; lo stesso spettatore si sente trascinato a simpatizzare per quella; ma il personaggio che sembra soccombere, in realtà, non viene sconfitto, ma arretra semplicemente, si ritaglia un suo spazio nel quale l’altro lo lascia sopravvivere – o per ingenuità, o nella speranza che il conflitto verrà prima o poi a ricomporsi su un piano superiore. Nel terzo atto avviene la catastrofe; improvvisamente cambia lo scenario: il deus ex machina ha cambiato volto, ora è un nuovo dio che sostiene il personaggio che il primo avversava, il personaggio che nel secondo atto sembrava che avesse preso il sopravvento con la ragionevolezza delle proprie posizioni viene ora improvvisamente abbattuto da una manovra codarda dell’altro che ora emerge come il vincitore incontrastato al quale si inchinano anche i più recalcitranti tra gli altri personaggi, visto il trattamento subìto dalla sua vittima. Il dramma si chiude amaramente. Abbiamo la ferma sensazione che abbia vinto il cattivo, che il buono sia stato travolto – non sappiamo dire se a causa della sua ingenuità, dalla perfidia altrui, forse anche della giustezza delle sue posizioni che non potevano trionfare … perché questo è un dramma e non una commedia e se i drammi non finiscono male che drammi sono?

Svolgeremo la nostra analisi concentrandoci sugli aspetti ideologici riguardanti la concezione dello Stato che si ritrovano nei dibattiti avvenuti in tre momenti salienti della vita politica del Partito Comunista Italiano dal 1944 al 1956. Premettiamo che non sappiamo se questa analisi sia già stata fatta da altri in questi termini perché sono argomenti su cui si sono versati fiumi di inchiostro. In ogni caso abbiamo l’ardire di offrirla alla riflessione e alla critica dei compagni.

1. La “svolta di Salerno”

Premessa storica (non necessaria per chi conosce la situazione del momento, ma indispensabile per chi non l’avesse sufficientemente presente).

1944. L’Italia è divisa in due. La parte meridionale è liberata dagli Alleati. Il re è fuggito da Roma che è ancora occupata dai Tedeschi, insieme a tutta l’Alta Italia. Nel Meridione si istaura il governo Badoglio. Esso non è riconosciuto dagli Alleati angloamericani presenti in Italia, né dall’URSS; tuttavia i primi hanno con esso contatti continui, mentre la seconda ne è tagliata fuori. Il CLN – il Comitato di Liberazione Nazionale, che raccoglie i principali partiti antifascisti e conduce la resistenza nella parte ancora occupata – cerca una trattativa, ponendo due pregiudiziali per arrivare a un governo di coalizione nazionale a cui possano partecipare tutte le forze antifasciste: l’abdicazione del re e l’affidamento del governo a un altro personaggio, meno compromesso col passato fascista rispetto a Badoglio. Entrambe le condizioni vengono respinte dal re e quindi da Badoglio. La situazione al sud è bloccata su questo punto, ciò impedisce di avviare una seria cobelligeranza con gli Alleati. Nella parte occupata, invece, la situazione non è affatto bloccata; i partigiani conducono azioni molto importanti contro l’esercito nazista e i fiancheggiatori fascisti, anche se i rapporti con gli alleati sono contrastati: gli aiuti alle formazioni partigiane arrivano col contagocce e non viene celato un disprezzo e un aperto svilimento da parte delle autorità alleate, soprattutto britanniche, che temono il contenuto sociale che la Resistenza contiene. A questo punto al sud lo scenario cambia. Il 14 marzo l’URSS riconosce il governo Badoglio e scavalca gli Alleati, il problema dell’assetto costituzionale (monarchia o repubblica) viene demandato a dopo la fine della guerra e si richiede l’ingresso dei partiti del CLN nel governo. Togliatti sbarca a Napoli nel pomeriggio del 27 marzo e partecipa al consiglio nazionale del partito il 29 marzo. Il 30 marzo l’Isvestia pubblica un lungo ed acuto articolo sulla situazione italiana. In questo articolo si parla della situazione politica bloccata, della impossibilità di unificare le forze antifasciste nella comune lotta contro l’occupante, della necessità per l’URSS di avere contatti diretti col governo alla pari degli altri Alleati, dell’atteggiamento irrispettoso e perfino ostile che il governo inglese ha manifestato anche con atti militari contro la Resistenza. Le obiezioni degli altri partiti antifascisti, che si erano sentiti scavalcati dall’iniziativa comunista, vengono superate e il 24 aprile 1944 nasce il secondo governo Badoglio con la partecipazione dei sei partiti del CLN, tra cui il PCI.

La mossa poteva avere due conseguenze, considerando l’ostilità degli Alleati non contro il re e Badoglio ma contro una loro reale partecipazione alla guerra e l’ostilità verso la Resistenza: la prima, sfavorevole per la Resistenza, di ingabbiare l’attività partigiana sotto l’egemonia monarchica e quindi in ultima analisi degli Alleati; la seconda, invece favorevole, di sottrarre dall’immobilismo le forze monarchiche nei confronti della guerra antinazista sia al sud che al nord, di rendere protagonista il CLN anche al sud, dove invece esso era completamente assente, di sottrarre alla Gran Bretagna la carta monarchica contro la Resistenza. Sarebbero state le forze in campo a dire quale posizione avrebbe vinto. In ogni caso non si può dire che la mossa sovietica – certo spregiudicata – fosse una mossa opportunista, volta a minare l’attività del CLN in favore di una politica di potenza puramente diplomatica.

Vediamo quali furono gli effetti dento il PCI di questa svolta. Dalla Direzione del partito a Roma arriva ai compagni di Milano una nota nella quale si informa della discussione in Direzione:

«2. La direzione del partito per la zona occupata approva all’unanimità la nuova politica… ma nella valutazione del suo valore e significato, sia in relazione alla politica precedentemente seguita, sia per se stessa, per gli sviluppi che ne possono conseguire, due opposte posizioni si sono manifestate. L’una ritiene che essa sia sostanzialmente in contrasto con la linea politica fin qui adottata dal partito e riveli un errore di principio e ideologico, nei concetti fondamentali che l’hanno fin qui ispirata; l’altra nega valore e significato ideologico tra la nuova e la vecchia politica e quindi che i concetti fondamentali che hanno guidato la politica del partito siano stati viziati da errori di principio. Inoltre l’una sostiene che l’attuale mutamento di politica investa la sostanza stessa della linea politica del partito e rappresenti una “svolta” a lunga portata; l’altra afferma invece che trattasi essenzialmente di un mutamento di tattica giustificato dalle nuove condizioni di fatto (situazione venutasi e creare), maturato nella situazione nazionale e internazionale e che pertanto non tocca la sostanza della line politica del partito.

3. In tali opposte posizioni nella interpretazione e valutazione della nuova politica sono derivati due opposti atteggiamenti pratici. Gli uni ritengono necessaria per una giusta comprensione della nuova politica un’autocritica sul piano ideologico che riconosca e dichiari la erroneità di principio della linea politica derivante da un’errata concezione della “questione nazionale”, della “democrazia” e conseguentemente del “fronte nazionale” e quell’errore corregga con una nuova impostazione di principio di tale questione; gli altri negano l’autocritica ideologica e di principio, ammettono l’autocritica sui modi della realizzazione pratica e loro eventuali insufficienze e deficienza, e spiegano la politica attuale del partito con l’obiettiva situazione di fatto e le nuove condizioni in essa maturate». (in P. Secchia, 1973 Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 397-8)

Alla prima posizione appartengono Giorgio Amendola, Gino Negarville e Giulio Novella.

Giorgio [Amendola]. «Dal momento dell’invasione tedesca in poi tutta la nostra politica è stata sbagliata. Alla sua base c’è un errore ideologico, di principio; c’è un falso concetto della funzione nazionale del partito. … Invece di porre il problema dell’unione nazionale si afferma il principio dell’unione attorno il partito comunista». (Op. cit., p. 398)

Alla seconda Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi.

Mauro [Scoccimarro] «Mi limiterò per ora ad indicare l’errore di quei compagni in tali questioni. Nella questione nazionale: si trascura o sottovaluta la lotta di classe. Nella democrazia: si trascura o sottovaluta la diversità di rapporti di classe e di contenuto possibile entro i limiti della democrazia borghese. Nel fronte nazionale: si trascura o sottovaluta l’articolazione di classe del movimento nazionale; cioè la distinzione tra rapporti politici con forme fiancheggiatrici ed oscillanti accessibili saltuariamente a accordi parziali, e rapporti politici con forze capaci di continuità d’azione e di un programma comune; ed in seno a queste posizioni e funzione delle diverse classi sociali». (Op. cit., p. 403).

«Noi non eravamo per il ritorno della democrazia borghese tout-court e non potevamo rinunciare ad operare e a batterci perché la classe operaia e le classi lavoratrici potessero esercitare una funzione dirigente nel corso della resistenza e nel rinnovamento dell’Italia all’indomani della guerra. (Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi) responsabili di avere fatto deviare il partito». (Op. Cit. p. 399).

«Non si tratta di rinunciare ai programmi e al raggiungimento di più avanzati obiettivi politici e sociali, si tratta di rendersi conto che ogni strato sociale, ogni corrente politica, ogni partito conterà domani ella misura che avrà contribuito oggi a liberare l’Italia dall’odiato straniero e dal fascismo.

È attraverso a questa lotta che il popolo italiano si assicurerà gli strumenti del governo di domani, perché è nel corso della lotta stessa che si creeranno le nuove forme della vita democratica di domani e cioè di una democrazia progressiva, aperta a tutte le conquiste». (La nostra lotta, maggio 1944, n. 9, pp. 7-8, in P. Secchia, Op. Cit. p. 426)

Non ci limitammo ad accettare supinamente la “svolta” di Salerno, ma, nel momento stesso in cui si formava insieme a Badoglio un governo di unità nazionale, noi ponemmo con più forza e con maggiore chiarezza di prima la necessità di creare dei CLN che non fossero soltanto coalizioni di partiti, ma rappresentassero le larghe masse lavoratrici, ponemmo il problema di creare dei CLN periferici, quali organi di potere della nuova democrazia, della “democrazia progressiva aperta a tutte le conquiste”.

La situazione nel Nord era tale che gli stessi socialisti e azionisti non poterono assumere e non assunsero l’atteggiamento preso dai loro compagni a Roma e difatti il CLNAI diede la sua adesione alla “svolta” politica del Sud.

Anche dopo la “svolta” di Napoli e di Salerno, se più grande fu lo sforzo unitario, non venne mai meno la nostra attenzione sulla direzione da imprimere al movimento, all’obiettivo: lotta per una democrazia progressiva. Valga per tutte la posizione che assumemmo per fare dei CLN degli organismi rappresentativi delle masse e degli organi di potere… Guai se in quei giorni ci fossimo lasciati invischiare dal feticismo dell’unità e se per timore di urtare questo o quest’altro personaggio o gruppo politico avessimo capitolato di fronte a coloro che manovravano per impedire l’insurrezione!

Infine non risponde a verità l’affermazione fatta da diverse parti che noi dopo la “svolta” di Napoli, per le esigenze della lotta unitaria, accantonammo le istanze sindacali, le rivendicazioni economiche e sociali.

Non accantonammo mai la lotta di classe, gli scioperi si susseguirono sino all’ultimo. Certo vi era un interesse generale della nazione col quale dovevano essere coordinati gli interessi particolari, ma noi comunisti non ritenemmo mai che gli interessi della classe operaia fossero in contrasto con quelli nazionali. Al contrario, la lotta di classe potenziava la lotta di liberazione nazionale. Riuscimmo a fare accettare dal CLNAI il principio, ma soprattutto la pratica, dei grandi scioperi e dello sciopero generale! Sempre dall’inizio alla fine della guerra la Resistenza italiana fu caratterizzata dall’intrecciarsi della lotta armata con le lotte di massa. Tutti gli scioperi politici organizzati durante la Resistenza partivano ed avevano come base delle rivendicazioni economiche, sociali. La lotta era indirizzata contro i nazifascisti e contro i grandi industriali collaborazionisti. Le direttive in tal senso erano chiare ed esplicite. (P. Secchia, Op. Cit. p. 427-30).

Dalla lettura di questi brani emerge la netta sensazione che le due anime che si scontrano nel PCI muovessero da visioni opposte. Il primo prevede la restaurazione di una democrazia borghese nella quale comunque il ruolo dei partiti antifascisti assume una rilevanza predominante; ciò avrebbe posto le basi per i successivi avanzamenti, quindi la forza dei comunisti risiede negli ambiti istituzionali politici dove essi vengono accettati e riconosciuti. Il secondo invece non scinde questi ambiti istituzionali dagli avanzamenti sociali dal percorso politico e militare che nel frattempo si attua. La differenza tra queste due visioni può essere derubricata a meri atteggiamenti tattici. Invece la diversità tattica deriva da un atteggiamento ideologico divergente, che il secondo gruppo tentava di negare.

Il primo gruppo si accaparrò il diritto di autoproclamarsi interprete autentico della “svolta” e accusò il secondo di deviazioni ideologiche, mentre questo, per difendersi, nega il dissidio ideologico. Se di qualcosa si può addebitare ai secondi è di non aver avuto la capacità o la forza di ribaltare le accuse contro l’altro gruppo, forse per non minare l’unità del partito o anche perché questi si ammantavano dell’autorità che ad essi conferiva Togliatti e, attraverso esso, Stalin in persona. Se andiamo a ben vedere, invece, l’azione della diplomazia sovietica non entrava – né lo avrebbe potuto – in questa diatriba. Quanto a Togliatti, egli rimaneva quasi al di sopra delle parti.

Dal punto di vista della dottrina leninista non c’è dubbio che le posizioni di Amendola e gli altri non fossero assolutamente giustificabili. Non esiste la possibilità di un doppio momento, uno per la democrazia borghese e uno per il cambiamento progressivo. Né del resto questa visione poteva essere fatta risalire alle indicazioni di Mosca che arrivarono in quei momenti a tutti i centri di resistenza europei, che riguardavano solo di entrare nei governi di coalizione per non lasciare alle forze moderate la direzione della resistenza e di contrastare lì dentro la loro egemonia, non certo di diminuire l’egemonia delle forze popolari con la loro partecipazione ai governi di coalizione. E del resto, lo sviluppo degli avvenimenti in Alta Italia conferma che la politica dei comunisti fu del tutto coerente con questa seconda prospettiva.

Un ultimo commento sulla frase di Secchia «perché è nel corso della lotta stessa che si creeranno le nuove forme della vita democratica di domani e cioè di una democrazia progressiva, aperta a tutte le conquiste». Evidentemente non c’è e non ci può essere alcuna garanzia che questa lotta alla fine abbia successo – come alla fine non ha avuto – se il prosieguo della lotta non abbia assicurato continuità al perseguimento dei fini preposti. Secchia in quel momento non poteva pensare che il guasto ideologico che stava inoculandosi nel partito avrebbe preso piede fino al punto che vedremo.

Gli avvenimenti che seguirono sono istruttivi per capire come si mossero i protagonisti in campo. La pagina più dolorosa fu la mancata insurrezione di Roma prima dell’arrivo degli Alleati. In questo insuccesso pesò – per unanime analisi – non tanto la insufficiente preparazione dei partigiani a Roma città, quanto l’atteggiamento del Vaticano che di fatto impedì la rivolta popolare. Se mai ce ne fosse stato bisogno, questa era l’ennesima prova che le forze cattoliche mai sarebbero state trascinate a passi in conflitto coi desiderata del papa e che questi mai si sarebbe allontanato dal suo rigido anticomunismo in politica e comunione di interessi con gli angloamericani.

2. Il Cominform

Anche qui è necessario un inquadramento storico. Il governo di coalizione vede la partecipazione del PCI con ministro della Giustizia Togliatti. Viene varata la controversa amnistia per i crimini fascisti “più efferati”, mentre non si procede – contrariamente a quanto avviene in tutti i paesi liberati – a una profonda epurazione degli elementi fascisti dall’esercito, dall’amministrazione e dalla magistratura. Il combinato disposto delle due cose fa sì che la maggior parte dei criminali fascisti viene giudicata da magistrati non epurati collusi col fascismo e viene amnistiata. Si accende la lotta nella Costituente per la scrittura della Carta. Il PCI fa di tutto per presentarsi come partito nazionale e diminuire l’allarme che si genera nella borghesia e negli alleati occupanti l’Italia. Prima delle elezioni del 1946 i CLN vengono spogliati di ogni funzione e quindi sciolti nel 1947. Le fabbriche vengono sgomberate dagli operai occupanti e si procede al loro disarmo. In pratica, tutta la forza che il PCI ha accumulato durante la Resistenza viene disarmata, sebbene esso passi ad essere il partito più grande con oltre 2 milioni di iscritti. Una forza quindi che sta nei numeri, ma non nel reale contropotere nella società. Sintomo di questo atteggiamento può essere preso l’accettazione da parte del PCI di accettare, contro il parere dei partiti laici, i Patti Lateranensi come parte integrante della Costituzione che si stava scrivendo (unica voce dissenziente, Concetto Marchesi). Quindi in sintesi un atteggiamento di appeasement, di pacificazione, come si disse esplicitamente, verso la propria borghesia, nella speranza di continuare a restare dentro il governo. Dalle manifestazioni furono bandite le frasi, i canti che potessero “spaventare” i borghesi. Il risultato di tutto questo fu che, seguendo i dettami degli imperialisti angloamericani, De Gasperi nel maggio 1947 (prima ancora dell’entrata in vigore della Costituzione) ruppe l’alleanza uscita dalla Resistenza, buttò fuori dal governo il PCI e il PSI (allora legati dal patto di azione) e si avviò a governare solo coi partiti moderati.

Nel frattempo il movimento comunista internazionale si riorganizza. Gli avvenimenti che fanno presagire la nuova guerra fredda e il lancio del Piano Marshall, le insufficienze da parte dei partiti comunisti in occidente, fanno sì che il PCUS riprenda in mano la direzione del movimento. In Polonia alla fine del mese di settembre 1947 si tiene una Conferenza d’Informazione (Cominform) dei rappresentanti di alcuni partiti comunisti dove viene presentato un Rapporto da A. Ždanov. In quel rapporto si criticano le “deficienze” dei partiti comunisti occidentali (in sostanza i due più grandi, il PCI e il PCF):

I comunisti devono essere la forza dirigente che trascina tutti gli elementi antifascisti amanti della libertà alla lotta contro i nuovi piani americani di espansione e di asservimento dell’Europa.

Il pericolo principale per la classe operaia consiste attualmente nella sottovalutazione delle proprie forze e nella sopravvalutazione delle forze dell’avversario. Come nel passato la politica di Monaco ha incoraggiato l’aggressione hitleriana, anche oggi le concessioni alla nuova politica degli Stati Uniti d’America e del campo imperialista, possono rendere i suoi ispiratori ancora più insolenti e aggressivi. Perciò, i partiti comunisti devono mettersi alla testa della resistenza ai piani imperialisti d’espansione e di aggressione in tutti i campi: governativo, politico, economico, ideologico.

Ai partiti comunisti fratelli della Francia, dell’Italia, dell’Inghilterra e di altri paesi spetta un compito particolare. Essi devono prendere nelle loro mani la bandiera della difesa dell’indipendenza nazionale e della sovranità dei rispettivi paesi. Se i partiti comunisti resteranno saldi sulle loro posizioni, se non si lasceranno intimidire e ricattare, se staranno coraggiosamente a guardia di una pace solida e della democrazia popolare, a guardia della sovranità nazionale, della libertà e dell’indipendenza dei loro paesi, se nella loro lotta contro i tentativi di asservimento economico e politico dei loro paesi sapranno mettersi alla testa di tutte le forze, pronte a difendere la causa dell’onore e dell’indipendenza nazionale, nessun piano di asservimento dell’Europa potrà essere realizzato.

Come si vede, una posizione ideologicamente opposta a quella del gruppo amendoliano in cui ai partiti comunisti viene affidato il compito di guidare politicamente la lotta contro l’imperialismo e per la difesa della pace, in nome della sovranità nazionale. In questa azione e solo in questo modo, aperto e senza dissimulazioni, si può compiere il ruolo dei comunisti di agire come “partito nazionale”, ossia che incarna gli interessi della nazione, contro le forze che invece ne svendono gli interessi.

Nella Dichiarazione comune sui problemi della situazione internazionale che chiude la conferenza dei partiti convenuti in Polonia si punta in particolare il dito contro le forze socialdemocratiche che si erano staccate dalle forze popolari (in Italia i saragattiani, che partecipavano al governo De Gasperi).

Per il PCI hanno partecipato a quella riunione Longo e Reale.

In quella occasione Longo dirà:

«il nostro partito è stato particolarmente debole quando noi siamo stati esclusi dal governo e gettati nell’opposizione. In tale circostanza la nostra opposizione si è manifestata soprattutto in modo verbale nella stampa e nei comizi. E soltanto in questi ultimi mesi che una serie di manifestazioni rivendicative e di azioni di massa hanno dato maggior vigore alla nostra lotta contro il governo. Questa lotta però rimane anche oggi sul piano essenzialmente rivendicativo e sindacale e non si è ancora trasformata in una grande lotta popolare con degli obiettivi politici precisi.»

Il conseguente Comunicato della Direzione del PCI assume in tutto e per tutto le indicazioni della Conferenza.

Togliatti viene nominato, insieme a Longo, rappresentante ufficiale del PCI nel neonato Cominform e addirittura dovrebbe andare a dirigerlo, venendo meno alla direzione del partito, ma egli rifiuta.

A Mosca invece andrà Secchia nel dicembre 1947. Egli è il responsabile dell’organizzazione del PCI che, sotto la sua direzione, ha superato i due milioni di iscritti (2.279.000 iscritti per la precisione). A Mosca presenta una lunga relazione nella quale, dopo l’analisi della situazione economica, passa in rassegna la situazione politica italiana.

La prospettiva di una terza guerra mondiale è da considerarsi come una prospettiva reale e imminente? Noi riteniamo che questa prospettiva non può oggi essere considerata imminente.

Potevamo evitare il rafforzamento delle posizioni del capitalismo nel nostro paese? Le cose sarebbero andate senza dubbio diversamente se noi non fossimo stati un paese sconfitto e occupato dagli anglo-americani. Questo non significa che anche da parte nostra e del movimento democratico in generale non siano stati commessi degli errori, senza i quali noi avremmo potuto mantenere determinate posizioni di forza o almeno mantenerle più a lungo.

Per quanto riguarda i nostri errori: anche il nostro partito condivide la responsabilità, assieme agli altri partiti democratici, di non aver valorizzato sufficientemente il movimento partigiano, di non aver opposto una sufficiente resistenza all’allontanamento dei partigiani dai posti di direzione dello stato e della vita nazionale. Avremmo dovuto batterci con maggior forza per tenere in vita i CLN quali organismi democratici che facilitavano la partecipazione delle masse popolari alla vita politica e alla direzione del paese. Nella nostra azione di governo vi sono state senza dubbio debolezze ed errori, determinate posizioni non sono state difese come avremmo dovuto, altre abbiamo abbandonate senza impegnare troppo la necessaria lotta. In certi momenti ci siamo lasciati dominare troppo dalla minaccia di rottura da parte delle forze conservatrici, in qualche momento ci siamo forse lasciati dominare troppo dal pericolo della guerra civile.

Non soltanto nel momento della nostra esclusione dal governo, ma in generale noi non sappiamo sufficientemente legare l’azione sul piano parlamentare con l’azione extraparlamentare delle grandi masse.

Ci sono dei compagni che osservano che De Gasperi avrebbe avuto piacere se noi, nel momento in cui stavamo per essere esclusi dal governo, avessimo organizzato lo sciopero generale, perché così avrebbe potuto dimostrare che noi ci ponevamo sul terreno extralegale, sul terreno della violenza, abbandonavamo il terreno della democrazia parlamentare. Si afferma anche che “l’elemento favorevole a noi è soprattutto il fatto che siamo usciti dal governo senza dare la parola d’ordine dell’insurrezione, il che ha accresciuto il prestigio del nostro partito in determinati strati sociali”. Ma riteniamo non esatto questo giudizio, perché non si trattava già di dare la parola d’ordine dell’insurrezione, ma di organizzare una grande mobilitazione di popolo, prima ancora che fossimo esclusi dal governo. Dal non fare nulla al fare l’insurrezione ci corre (sottolineatura nostra). Ci siamo fatti mettere fuori dal governo senza una grande protesta di massa, senza proclamare uno sciopero generale di ventiquattro o di quarantotto ore.

… proprio perché era De Gasperi che prendeva l’iniziativa di escluderci dal governo era difficile mobilitare contro tale iniziativa le masse democristiane. Infatti, poiché si era mandato a dire al congresso della CGdL che si teneva a Firenze, che la Confederazione dovesse organizzare una grande manifestazione per reclamare che i partiti dei lavoratori restassero al governo, non riuscimmo a far accogliere la nostra proposta perché i dirigenti DC facenti parte degli organismi direttivi della CGdL si proclamarono subito contrari a tale manifestazione e dissero che se l’avessimo fatta malgrado loro essi sarebbero usciti immediatamente dalla CGdL, avremmo cioè avuto la scissione sindacale. Malgrado queste ed altre difficoltà reali, ritengo però che non avremmo dovuto lasciarci estromettere dal governo senza impegnare una forte lotta di massa, anche se forse sarebbe stata una battaglia persa. Con ogni probabilità, anzi, sarebbe stata una battaglia persa, ma vi sono delle battaglie che occorre combattere anche se si sa di perdere immediatamente. Esse servono per il domani. In ogni caso ritengo che si perda di più ogni volta che si cedono posizioni importanti senza dar battaglia (sottolineatura nostra).

… il difetto più grave del nostro partito mi sembra essere una grande massa di iscritti inattivi, che non fanno niente.

Possiamo fidare soltanto sullo sviluppo e sulle progressive vittorie elettorali? Ma avendo il governo nelle loro mani le elezioni ce le prepareranno sempre in modo tale da decurtare i nostri successi e da impedirci successi decisivi.

Non credo che essi pensino ad una restaurazione del fascismo in Italia, questo non è loro possibile. L’azione violenta tipo fascista contro di noi darebbe immediatamente slancio e sviluppo alle forze democratiche. I lavoratori difenderebbero con le armi le libertà conquistate. Il pericolo è un altro ed è che il governo De Gasperi, d’accordo con i grandi industriali, con gli agrari, conduca una politica tesa ad impedire oggi un movimento di massa, domani a strappare una piccola conquista, dopodomani un’altra, cercando di dividere i lavoratori, facendo agli uni qualche concessione, mostrando i denti agli altri. Il pericolo dal quale dobbiamo guardarci è quello di cedere oggi una posizione, domani un’altra e trovarci poi nella condizione di non poter più avere l’iniziativa.

… noi non possiamo restare sulla difensiva o in attesa degli eventi. Se noi non riusciremo ad andare avanti andremo indietro, perché sulla cresta dell’onda non ci si ferma. E la cresta dell’onda secondo me è già passata, l’abbiamo toccata nell’ottobre 1945, poi è cominciato il declino.

Noi dobbiamo orientarci verso lotte più ampie, più dure, più decise.

Oggi la situazione italiana è tale che a mio modo di vedere possiamo ancora prendere l’offensiva, vi sono le forze per farlo e se il nemico cercasse di sbarrarci la strada con la violenza, malgrado le misure che con l’aiuto dell’imperialismo americano già ha preso, tuttavia noi disponiamo ancora di un potenziale di forza tale che saremmo in grado di spezzare ogni loro violenza e di portare i lavoratori italiani al successo decisivo. Per contro ho il timore che, malgrado il gran numero di nostri iscritti al partito e ai sindacati, le posizioni nei comuni, nelle province, in Parlamento, la larga influenza che abbiamo, ecc. se non ci impegniamo con decisione, se il governo De Gasperi dovesse consolidarsi, si creerebbe per noi una situazione sempre più difficile, una situazione di cedimento e di ritirata tale che ci porterebbe via via a perdere tutto e ad aver perso tutto, a trovarci in un regime diverso, di tipo reazionario, senza neppure avere dato battaglia.

Sono le posizioni che lui, Scoccimarro e gli altri avevano portato fin dal 1944.

Al VI Congresso del PCI (Milano, 4-10 gennaio 1948) si verificò una cosa che definire irrituale è poco. Il congresso ha eletto Togliatti segretario e Longo vicesegretario; dopo la conclusione del congresso, Togliatti scrive ai delegati dicendo che è necessario nominare un secondo vicesegretario nella persona di Secchia!

Vediamo quindi questo secondo atto del dramma come si è concluso.

L’azione dei comunisti subisce un rovescio. La linea della pacificazione nazionale non paga e la reazione riprende le proprie posizioni, praticamente senza colpo ferire. Le illusioni di poter contrastare la borghesia sul suo terreno, ossia quello imposto dal diritto borghese, di farsi forte dall’“autorevolezza” nel Paese, senza che questa venga sostenuta da ben altre ragioni, fa bancarotta. Il 18 aprile dello stesso 1948 il blocco del popolo registrò una disfatta storica proprio sul terreno sul quale avevano contato di più, quello elettorale. Le recriminazioni possono essere tante: il Vaticano, il ricatto padronale, i brogli, la corruzione, il malaffare e la mafia al sud … ma erano tutte cose che non potevano non essere previste. La situazione non si scuote neanche dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio dello stesso anno. Lo stesso segretario lancia l’appello alla calma dal fondo del proprio letto d’ospedale.

Una cosa che si disse, facendo riferimento agli eventi della guerra civile in Grecia, è che se in Italia si fosse provato a forzare la situazione, saremmo finiti in un bagno di sangue e il movimento popolare sarebbe stato ricacciato indietro in una situazione para-fascista.

Ora ritengo che questa analisi sia non solo non scientifica, ma anche troppo semplicistica e non tenga sufficientemente conto del fatto che gli eventi si modificano gli uni con gli altri.

1. Si sopravvaluta l’azione che gli eserciti angloamericani potevano svolgere nel 1945/46 nell’Italia da loro occupata. In particolare, quello statunitense era un esercito di leva, fatto da giovani che avevano combattuto dallo stesso lato dei partigiani e sarebbe stato difficile metterli contro quelli da un giorno all’altro. Quei giovani volevano solo ritornare a casa. La «… più grande rivolta di soldati mai avvenuta nelle file di un esercito vittorioso si è verificata tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946» (Filippo Gaja, Il Secolo corto, Maquis Ed., 1994, “8. Riportateci a casa”, pagg. 77-89). Ci volle un certo periodo per piegare attraverso il maccartismo la società e l’esercito americani all’anticomunismo. Diverso il caso dell’esercito professionale britannico, che infatti fu quello che operò da subito in Grecia. Ma quell’esercito era troppo piccolo per operare contemporaneamente in più scacchieri oltre la Grecia. Forse se partiva l’Italia e magari anche la Francia non era detto che finiva come in Grecia, né l’Italia, né la Francia e forse neanche la Grecia. Immaginiamo se, non dico l’insurrezione, ma una costante tensione pre-insurrezionale fosse stata mantenuta nelle fabbriche, nei quartieri popolari, magari coi partigiani e gli operai ancora armati. Sarebbe stato ben difficile andare a smantellare queste posizioni ad una ad una. Dal punto di vista istituzionale si sarebbe potuto mantenere in piedi il ruolo dei CLN anche senza e contro le forze borghesi; si sarebbe potuto mantenere, magari armi in pugno, i prefetti partigiani e non lasciarli rimuovere senza colpo ferire. Dell’amnistia abbiamo già detto. I comunisti sarebbero stati accusati di atteggiamenti sovversivi? Cosa hanno guadagnato per evitare queste accuse e cosa hanno perso?

2. Si sopravvaluta la funzione di retroterra reazionario del sud Italia. “Il sud Italia sarebbe stata la Vandea d’Italia”. Oltre ad essere un insulto vergognoso per le lotte popolari che hanno sempre caratterizzato il popolo meridionale, ciò è documentatamente falso. È vero che la resistenza al sud non ci fu, è vero che l’organizzazione comunista nel sud era molto più debole, ma le lotte per l’occupazione delle terre, le lotte sindacali antimafiose che costarono le vite di tanti sindacalisti e attivisti socialisti e comunisti ne sono la testimonianza. Il 1° maggio 1947 i cittadini, che andarono a festeggiare a Portella della Ginestra la vittoria elettorale del Fronte popolare contro la DC, sarebbero stati vigliaccamente attaccati dagli scagnozzi mafiosi del potere borghese se non fosse stato necessario “dare un segnale” intimidatorio? Per il popolo meridionale invece non sarebbe stato un segnale straordinario di riscossa la mobilitazione al nord, anziché il segnale di disfatta che comunicò la sottomissione ai vecchi padroni?

L’errore ideologico commesso nel 1944 ha tragiche conseguenze nel 1947/48. Ma non tutto è perduto. Ancora si può combattere per consolidare le posizioni e dall’URSS viene una forte scossa in questa direzione.

3. L’VIII Congresso del PCI

Ancora un richiamo storico. Nel 1953 la DC aveva fatto approvare una legge elettorale (bollata dall’opposizione come la “legge truffa”) che prevedeva un premio di maggioranza che impallidisce rispetto a quelli attuali. La legge fu approvata in parlamento, ma non scattò, in quanto il blocco moderato non raggiunse il quorum richiesto. Quindi una sconfitta parlamentare, ma un successo parziale nelle urne. Nel 1953 muore Stalin. I principali protagonisti del movimento comunista che avevano interpretato le indicazioni del Cominform muoiono o vengono sostituiti: Bierut con Gomulka in Polonia, Rákosi in Ungheria, Gottwald in Cecoslovacchia. Nel maggio-giugno del 1955 si ripristinano le relazioni tra l’URSS e la Jugoslavia titina, atto col quale si riconoscono le vie “nazionali” al socialismo. In Italia nel 1954 si svolge la vicenda Seniga (stretto collaboratore di Pietro Secchia, che scappa con la cassa del partito), che travolge il vicesegretario del PCI in una morsa dalla quale non si risolleverà più; egli viene prima affiancato e poi sostituito come responsabile dell’organizzazione proprio da quel Giorgio Amendola che abbiamo trovato all’inizio del nostro dramma. A Mosca il vento è cambiato e Roma si adegua. Resterà da capire come uomini che hanno sfidato la morte più e più volte, come Longo e Scoccimarro, siano rimasti impietriti davanti a questi avvenimenti, impotenti a fermare la deriva. Più che le torture fasciste, poté l’attaccamento all’unità del partito e del movimento comunista. Leggere le umilianti autocritiche che dovettero scrivere uomini del calibro di Secchia e di Rákosi (un uomo che non poteva quasi camminare perché aveva le piante dei piedi piagate dalle torture subite nelle carceri naziste) fa male al cuore. “Colpirne uno per educarne cento”.

La linea Kruscev-Togliatti ha vinto.

Nel febbraio 1956 si svolge il XX Congresso del PCUS che sancisce il nuovo corso e a ruota segue l’VIII Congresso del PCI nel dicembre dello stesso anno.

Il Congresso si tiene in un momento internazionale molto delicato, tra la crisi del Canale di Suez e i fatti d’Ungheria. Questi ultimi hanno spaccato il fronte delle sinistre: il PCI ha assunto una difesa dell’intervento sovietico, mentre il PSI è stato largamente critico, molti intellettuali abbandonano il PCI. È da notare però che gli ospiti socialisti al congresso vengono accolti fraternamente. Il XX Congresso dell’URSS e le “denunce” delle «brutali violazioni dei principi leninisti di direzione, violazioni brutali della legalità socialista», attribuiti alla direzione staliniana, sembrano già digeriti. In buona sostanza la svolta krusceviana viene fatta passare come un ritorno a Lenin, una svolta a “sinistra” contro una destra burocratica e financo retrograda. Stesso “format narrativo” usato poi da Gorbačëv.

Certo, l’abilità dialettica di Togliatti è grande. Già nei primi mesi dopo le “rivelazioni” del XX Congresso egli si era espresso consigliando equilibrio, indicando i pericoli che le critiche indiscriminate potessero compromettere la stabilità del sistema; e i fatti d’Ungheria gli danno ragione. Nella relazione all’VIII Congresso non si smentisce. Resta però un buco logico che egli non può colmare. Non è credibile che queste pretese violazioni così estese e pervasive non fossero note a lui, che a Mosca ha vissuto in quegli anni, e a tutta la più alta dirigenza dei partiti comunisti. È un’argomentazione che ha costituito arma anticomunista per tanti anni, ma non per questo il buco logico non c’è.

Ma c’è di più. Togliatti dice: «Quegli errati indirizzi politici, che il [XX] congresso denunciava … non erano mai stati compatibili coi nostri programmi». Quindi la figura di Togliatti è inattaccabile per assunzione postulata, ma anche la linea del PCI viene sottratta alle polemiche. Quindi, chi volesse rimettere in discussione la linea del partito sappia che deve prendersi sulle spalle tutto il carico dei “crimini”. Un capolavoro!

Per inciso riportiamo ora un brano che riguarda il movimento comunista internazionale:

Nella Cina il Partito comunista non poteva essere sorpreso, perché sempre aveva avuto una condotta propria, originale, adeguata alle condizioni di quel grande paese, nel quale la costruzione di una società socialista si compie in forme nuove e la vita stessa del partito ha una sua impronta particolare, che deriva dalla lunga ed eroica lotta che ha strettamente collegato il partito con tutti gli strati della popolazione lavoratrice e fa dei comunisti cinesi la espressione più alta della coscienza nazionale e sociale di tutto il popolo della Cina. La sorpresa invece vi è certamente stata per lo meno in alcuni paesi di democrazia popolare ed è probabilmente stata profonda. Questo contribuisce a spiegare il perseverare in situazioni che rapidamente avrebbero dovuto essere affrontate con coraggio e modificate, contribuisce a spiegare lo smarrimento seguitone, gli sbandamenti, la perdita del controllo degli avvenimenti e l’inserirsi in tutto questo della azione perfida e violenta dei nemici di classe, come drammaticamente è avvenuto in Ungheria.

È difficile dare torto in quel momento a questa argomentazione dialetticamente così ben fondata. Fa specie però che addirittura la Cina venga chiamata a testimone, insieme all’Italia, di essere protagonista di una originale via nazionale. Fa specie, alla luce delle polemiche che scoppiarono tra il PCC e Togliatti nel 1962-63, cioè ben sei anni dopo! Ma questo fa parte di un altro dramma.

Riprendiamo il filo principale del discorso. Qual è allora la linea del partito? In due parole: «la possibilità di evitare la guerra in conseguenza delle modificazioni stesse della struttura del mondo» e «il riconoscimento della possibilità di una avanzata verso il socialismo che escluda la violenza insurrezionale e si compia nell’ambito della legalità democratica, utilizzando anche gli istituti parlamentari». Il legare questi due argomenti addebita agli oppositori anche l’accusa preventiva di voler far ripiombare l’Italia nel pericolo della guerra. Tuttavia non c’è dubbio che il legame tra la guerra fredda o calda e la via pacifica ancora è semplicemente postulato ma niente affatto dimostrato. I riferimenti teorici possono essere fatti risalire a quanto ha detto Dimitrov nel Rapporti al II Congresso del Fronte patriottico del febbraio del 1948 e al V Congresso del Partito dei Lavoratori Bulgari nel dicembre dello stesso anno (vedi in M. Rizzo, A. Lombardo, URSS a 100 anni dalla rivoluzione sovietica, 2017 Male Edizioni), in cui l’avvento della democrazia popolare (esplicitamente annoverata come una forma della dittatura del proletariato, accanto alla forma dei soviet) poté essere non violenta, grazie alla presenza sul territorio dell’Armata Rossa. In realtà questa argomentazione andrebbe formulata in negativo e non in positivo, sottolineando l’assenza delle armate imperialiste e non la presenza di quelle sovietiche; infatti la transizione a una forma più avanzata di socialismo fu attuata in Cecoslovacchia nel 1948 senza l’aiuto dell’armata Rossa, che si era subito ritirata da quel paese dopo la fine della guerra. L’assenza di questo “dettaglio” nell’argomentazione togliattiana è un vulnus che ne farebbe cadere tutta la struttura … se solo ci fosse qualcuno che in quel momento avesse la forza di farlo.

Seguono due citazioni leniniane (miste a calunnie sulla dirigenza ungherese pre-1953) talmente striminzite e decontestualizzate da poter significare tutto e il contrario di tutto. In ogni caso quelle brevi parole sarebbero sufficienti per condannare il togliattismo come negazione del valore universale della rivoluzione d’Ottobre. Ma tutto fa brodo per accreditare le argomentazioni togliattiane in un contesto privo di ogni possibile contestazione.

Quindi il capolavoro dialettico:

Il socialismo non può mai essere importato dall’esterno; è una trasformazione sociale che deve sgorgare dal lavoro e dalle lotte di tutto il popolo, alla luce sì di una esperienza internazionale, ma sotto la guida delle migliori tradizioni nazionali, e di una dottrina rivoluzionaria, di una esperienza compiuta dal popolo stesso e il formarsi in esso di una nuova coscienza.

Chi potrebbe mettere in discussione queste conclusioni? Purtroppo queste saggie parole nascondono, come abbiamo cercato di argomentare, tutt’altro.

La necessità di distruggere l’ordinamento capitalistico e creare un ordinamento socialista, non esce né dalle decisioni, né dalla abilità o dalla forza di un partito politico. Non esce nemmeno dalla forza di un movimento sindacale di classe. Esce dallo sviluppo e dai contrasti delle forze reali e delle forze soggettive di cui è tessuta l’odierna società. Sono questo sviluppo e questi contrasti che rendono il passaggio al socialismo storicamente necessario, tanto che si può dire che il socialismo oggettivamente matura nel seno stesso del capitalismo.

… la nostra lotta per delle riforme di struttura … Sarebbe errato confondere la rivendicazione di queste riforme con quelle che un tempo chiamavano rivendicazioni transitorie, cioè parole d’ordine da lanciarsi nel momento di una crisi rivoluzionaria acuta e destinate solo a dirigere le masse popolari verso la lotta per il potere, parole d’ordine, quindi, destinate a consumarsi rapidamente nel corso stesso di questa lotta. Le riforme di struttura sono un obiettivo positivo, che noi vogliamo realizzare e che è realizzabile nelle condizioni attuali della lotta politica. … Le riforme di struttura non sono il socialismo. Sono però una trasformazione delle strutture economiche che apre la strada per avanzare verso il socialismo. Sono misure di lotta contro l’odierno nemico principale della classe operaia e del socialismo. Sono nell’interesse del popolo, del progresso e della pace.

Le obiezioni che si sentono fare sono che noi con questa azione tenderemmo a riformare, e non a distruggere il capitalismo e, d’altra parte, che si sono già avute riforme di struttura, certe nazionalizzazioni, per esempio, senza che nei paesi che le hanno attuate si sia progredito verso il socialismo. La prima obiezione non regge, perché, se fosse valida, dovrebbe esserlo anche contro qualsiasi altra rivendicazione, sia economica, sia politica, che non sia di un puro aumento di salario. La seconda, invece, pone tutta la questione della lotta che deve condursi, nelle condizioni presenti, da parte della classe operaia e delle masse popolari, guidate dai loro partiti, per affermarsi come fattore dominante della politica e della economia nazionali. Da sola, una nazionalizzazione può non significare grande cosa. Fatta in certi modi, può persino dare certi vantaggi a certi gruppi capitalistici, o a gruppi politici non progressivi. Ma le cose cambiano quando questa o altre misure di lotta contro il grande capitale monopolistico, siano parte integrante di una azione continua, di una lotta incessante, che venga condotta con decisione, da grandi organizzazioni politiche e di massa, con l’appoggio di una parte notevole dell’opinione pubblica, per imporre, pur nelle condizioni attuali, una politica economica che sia a favore dei lavoratori e del ceto medio, che impegni il governo stesso, attraverso il Parlamento, alla azione antimonopolistica. Allora le cose cambiano. Allora anche l’intervento dello Stato nella vita economica può assumere un valore ben diverso da quello che ha quando il governo agisce come puro comitato di affari dei gruppi monopolistici e le forme di capitalismo di Stato non sono altro che forme di subordinazione dell’apparato statale alle volontà e agli interessi dei grossi capitalisti. [sottolineatura nostra]

Qui bisogna usare il bisturi della dialettica con la stessa abilità di Togliatti – ìmpari compito, ma ci proviamo.

La frase «sviluppo e dai contrasti delle forze reali e delle forze soggettive» è una frase di una tale genericità da non dire nulla e pertanto non può essere contestata, come non si può pestare l’aria fritta. Anche che «il socialismo oggettivamente matura nel seno stesso del capitalismo» è un’ovvietà. Togliatti è abile nello schivare preventivamente le obiezioni di principio, ma poi impatta inevitabilmente sul punto finale, che poi è il centro di tutta l’argomentazione di queste pagine. Può lo Stato in presenza di rapporti di produzione borghesi non agire come comitato d’affari dei gruppi monopolistici, se prima esso non è stato sottratto alla direzione politica della borghesia? Marx, Engels e Lenin (e io ci metto anche Gramsci, quello vero, quello da leggere nell’originale e non quello piegato dal togliattismo) ci dicono invariabilmente di no, Togliatti dice di sì. Se vogliamo la questione si riduce tutta qui: la questione dello Stato. Lascio ad altri più dotti di me andare a cercare le ascendenze di quel pensiero in Croce, Hegel, Platone … ci interessa poco in questo contesto.

Anni dopo Togliatti tornerà su questo punto.

Nel complesso, noi partiamo, e siamo sempre convinti che si debba partire, nella elaborazione della nostra politica, dalle posizioni del XX Congresso. Anche queste posizioni hanno però bisogno, oggi, di essere approfondite e sviluppate. Per esempio, una più profonda riflessione sul tema della possibilità di una via pacifica di accesso al socialismo, ci porta a precisare che cosa noi intendiamo per democrazia in uno Stato borghese, come si possono allargare i confini della libertà e delle istituzioni democratiche e quali siano le forme più efficaci di partecipazione delle masse operaie e lavoratrici alla vita economica e politica.

Sorge così la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, nell’ambito di uno Stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi se sia possibile la lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura. In paesi dove il movimento comunista sia diventato forte come da noi (e in Francia), questa è la questione di fondo che oggi sorge nella lotta politica. Ciò comporta, naturalmente, una radicalizzazione di questa lotta e da questa dipendono le ulteriori prospettive. (Palmiro Togliatti, Il Memoriale di Yalta, “Promemoria sulle questioni del movimento operaio internazionale e della sua unità”, Yalta, agosto 1964)

È un ripensamento? Chissà!

Il dramma che abbiamo seguito in queste pagine arriva alla sua conclusione. Inarrestabile. Noi spettatori, che sappiamo cos’è venuto dopo – la scelta delle nuove classi dirigenti del partito, la liquidazione progressiva dell’organizzazione del partito in cellule, la perdita delle posizioni del partito sociali e parlamentari, la ripresa della forza del partito negli anni Settanta in un contesto di contesa tutto interno al potere borghese, la politica dei sacrifici, il compromesso storico, l’ombrello della NATO, … fino alla dissoluzione – vorremmo saltare su quel palco e gridare “No! compagni, no!”

«Non penso affatto che nel 1945 si potesse fare la rivoluzione. Il nostro paese era occupato dagli angloamericani ecc. Condivido pienamente l’analisi fatta dal partito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto… ma si trattava di difendere di più certe posizioni»

«Sono convinto che se le mie posizioni fossero state seguite, noi non ci troveremmo nelle condizioni di oggi»

«Dal non fare nulla al fare l’insurrezione ci corre»

(Pietro Secchia)

Un dramma in tre atti (cumpanis.net)

 

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