Sarà esagerato utilizzare parole come “pulizia etnica” o “apartheid”, che hanno un tremendo peso specifico e una forte connotazione storica, per descrivere quanto avviene da decenni in Palestina? A volte ce lo chiediamo perfino noi.
Noi che guardiamo sempre con un po’ di fastidio alla rigidità delle definizioni così come, per altri versi, all’utilizzo spregiudicato o superficiale di concetti come “genocidio” e “fascismo”. Concetti che, in virtù dell’approssimazione, si finisce spesso per svuotare di senso. Eppure, a proposito della Palestina, abbiamo scelto da sempre di utilizzare parole forti, come “pulizia etnica”, “razzismo” o “apartheid” pensando di poterne valutare a sufficienza la portata. Questo articolo di Alessandra Mecozzi è un utile contributo proprio per mettere a fuoco il tema e il peso del linguaggio in un conflitto che, agli occhi distratti di chi guarda dal versante nord del Mediterraneo, sembra ripetersi da settant’anni sempre uguale. Sembra, perché non è affatto così. Quel che resta invariato, insieme a diverse altre cose, è l’enorme influenza della manipolazione mediatica che protegge in buona parte del mondo l’oppressione israeliana non solo quando scorrono fiumi di sangue ma, soprattutto, quando si riproduce un assurdo quadro di “normalità”. I governi di Tel Aviv hanno capito molto presto, nel secolo scorso, quali sono le chiavi di volta per vincere la guerra. Ciò che non hanno mai capito è come cancellare dalla scena una volta per sempre tutta quella gente che impara a resistere prima di poter camminare
Che ci troviamo in una fase diversa della occupazione coloniale di Israele sulla Palestina e della lotta che gli viene opposta dai palestinesi, lo dicono anche le parole, corrispondenti ad una realtà sconvolgente, che da troppo tempo il mondo rifiuta di riconoscere.
Nei casi di onesto discorso politico pubblico, abbiamo sentito usare le parole: occupazione, colonialismo, muro, strangolamento dell’economia, ecc. Nella denuncia e nelle soluzioni corrispondenti, è stato invocato il rispetto del diritto internazionale, dei diritti umani, del dialogo, dei negoziati, di due popoli per due Stati…
Ma questi giorni ci insegnano qualcosa, oltre all’angoscia, al senso di impotenza per le vittime di una violenza feroce, alla rabbia per il silenzio e la mala informazione che circonda il massacro e la diffusione della rivolta palestinese, da Gerusalemme, ai territori occupati, alle città israeliane dove sono presenti palestinesi del ’48 o loro discendenti. Il tutto, mentre aumenta il numero delle vittime civili a Gaza, sottoposta ancora una volta a incessanti bombardamenti.
Negli articoli sui giornali e i siti, sia palestinesi che israeliani, sempre più spesso si parla di apartheid, pulizia etnica, pogrom addirittura! Parole che si pensava risalissero a un tempo lontano e ai tanti “mai più” pronunciati. Parole ancora tabù, per la maggior parte dell’informazione nostrana e per governi e istituzioni nazionali ed europee.
Eppure la realtà si è incaricata di smentire quei “mai più”.
Due importanti organizzazioni per i diritti umani Human Rights Watch, internazionale, e B’tselem, israeliana hanno di recente pubblicato due corposi rapporti: il primo Una soglia varcata. Autorità israeliane e crimini di apartheid e persecuzione e il secondo Questo è apartheid. Un regime di supremazia ebraica tra il Giordano e il mar Mediterraneo
Si tratta di testi dettagliati, costruiti attraverso testimonianze dirette, analisi delle disposizioni amministrative e di legge israeliane, documenti di archivio, che portano alla luce la costruzione scientifica di un sistema razzista di sfruttamento, disuguaglianza, inferiorizzazione giuridica e materiale della popolazione palestinese, nei territori occupati, in Israele e in Gaza, di supremazia di un gruppo ebraico su un altro, quello palestinese. Apartheid appunto.
La Legge sullo Stato Nazione del 2018, legge fondamentale, ne chiarisce e codifica i termini, richiamandosi all’esclusivo diritto ebraico all’autodeterminazione. Una legge sincera la definisce Gideon Levy su Haaretz (19/7/2018) “La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.. “
D’altra parte le violenze contro famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme est, da parte di coloni armati ed esercito israeliani sostenuti dalla decisione della Corte Suprema, non sono un risultato episodico di “cavilli immobiliari”.
Come hanno spiegato gli abitanti stessi, le espulsioni fanno parte di un piano che riguarda tutta la Palestina e, in questo caso, corrisponde alla già avvenuta illegale proclamazione di Gerusalemme capitale dello stato di Israele. Ramzy Baroud, giornalista e scrittore, scrive su Palestine Chronicle 12 maggio 2021: “… la “logica” per la quale gli ebrei rivendicano le proprietà palestinesi come proprie non dovrebbe essere associata a poche organizzazioni estremiste. Dopo tutto, la pulizia etnica della Palestina nel 1948 non è stata opera di pochi sionisti estremisti. Allo stesso modo, l’occupazione illegale di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967 e la massiccia impresa coloniale di insediamenti che ne è seguita non sono state il frutto dell’ingegno di pochi individui estremi. Il colonialismo in Israele era, e rimane, un progetto gestito dallo Stato, che alla fine mira a raggiungere lo stesso obiettivo che viene portato avanti a Sheikh Jarrah: la pulizia etnica dei palestinesi per garantire la maggioranza demografica ebraica”.
Persino la parola “pogrom” è tornata alla luce. In un articolo su il manifesto del 13 maggio, scrive il professore israeliano Zvi Schuldiner: “QUI, IN ISRAELE, mentre scriviamo, non sappiamo se i pogrom siano ripresi o se quegli idioti, criminali e razzisti che governano il paese abbiano frenato almeno un po’ l’indegna sfilata razzista che stanno guidando e che ci conduce tutti al disastro.”
Si sono quindi diffuse parole antiche, ma adeguate alla insostenibilità del reale, portata alla luce anche grazie alla risposta alla violenza, da parte dei giovani palestinesi, da Sheikh Jarrah alla Porta di Damasco alle città dentro Israele.
Vecchie parole per una realtà attuale, di cui è ora che anche la politica prenda coscienza. Deve riconoscerla pronunciando le parole che la esprimono, agendo di conseguenza e rompendo la, sia pur non dichiarata, complicità. Deve dimostrare che il diritto internazionale esiste e va rispettato. Serve parlare in primo luogo di uguaglianza di tutti i diritti per la popolazione palestinese, della sua autodeterminazione e della sua libertà, contro l’apartheid e la pulizia etnica; di sanzioni su Israele sul piano commerciale e militare, di sospensione degli accordi preferenziali e di embargo sulle armi: uniche armi nelle mani della Comunità internazionale, peraltro utilizzate in altre occasioni, con uno sfacciato doppio standard. Serve proteggere i civili dal massacro.
Gaza è sotto “sanzioni” imposte da Israele, ma di fatto internazionalmente accettate o subite, con un blocco da 13 anni, che strangola la popolazione, impedisce il lavoro, il commercio, le cure mediche, condizioni di vita dignitose. Una condizione esplosiva…
Ma le violenze, le distruzioni, i bombardamenti israeliani incessanti continuano ad essere chiamati “diritto alla autodifesa”; mentre i razzi di Hamas, infinitamente meno letali, e comunque respinti da una efficace difesa tecnologica, come Iron Dome, vengono definiti terrorismo.
Così Israele continua nei suoi crimini e, di ora in ora, crescono le vittime e si allontanano le soluzioni. Le parole della cosiddetta comunità internazionale, come le sue non-azioni, appaiono inutili. E oggi la Palestina può concretamente contare sulla comunità civile internazionale, con le sue manifestazioni di solidarietà, i suoi appelli, la sua speranza…
Alessandra Mecozzi
Le parole per dirlo – Comune-info