Haiti è un paese sfortunato. Non solo per le ripetute sconfitte subite dalle lotte del suo popolo, per la sua crescente povertà, per le crisi che si susseguono. Non solo per le aggressioni e i saccheggi colonialisti e imperialisti che ha dovuto sopportare durante tutto il XX secolo e ancor oggi.
È che in questo terribile quadro di mancanza di rispetto e umiliazione che oggi modella la palude della sua vita quotidiana, è difficile intravedere qualche segno che una via d’uscita si stia aprendo, anche se a lungo termine e a caro prezzo.
Il brutale assassinio del presidente Juvenel Moïse ne è un esempio. Moïse è stato un presidente conflittuale, e come può non esserlo ad Haiti o altrove quando si vuole cambiare qualcosa? La destra ricca, reazionaria e arresa agli interessi esterni lo ha accusato di essere un dittatore, mentre una gran parte della gente più povera lo ha sostenuto. Per ucciderlo è stato organizzato un complotto internazionale. L’assassinio è stato compiuto da una banda di sicari formata da soldati colombiani e haitiani con passaporto statunitense. Il committente dei colombiani è un uomo d’affari venezuelano con sede a Miami. In altre parole, gli Stati Uniti ci sono dentro fino al collo. E di fronte a questa situazione, Haiti chiede che si invade il paese per garantirne la sicurezza. Come non parlare di un pantano senza via d’uscita?
Non dirò altro su Moïse. Preferisco ricordare qui, come in altre occasioni, l’eroismo del popolo haitiano e alcune delle sue conquiste prima che la sua classe ricca e gli interventi yankee lo facessero precipitare nella fossa in cui vive oggi.
Dovremmo uscire da un errore storico e politico: quello di sostenere che la resistenza indigena è iniziata il 12 ottobre 1492. Quel giorno, un grande giorno di gloria per l’impero coloniale spagnolo, non ha niente a che vedere con la resistenza indigena. Gli ingenui indigeni di Guanahaní, che gli spagnoli chiamavano indios, festeggiavano il loro arrivo, offrendo acqua e frutta, mentre gli invasori guardavano con cupidigia gli anelli d’oro e li scambiavano con palline di vetro colorato. Una ingenuità che accompagnò tutto il viaggio di Colombo. Fu poi un capo tribù della parte dell’isola di Hispaniola che oggi è Haiti, chiamato Caonabó, a sollevarsi in armi. Questo fu l’inizio della resistenza indigena: nel gennaio 1493. Caonabó pagò il suo trionfo con la vita, e nessuno vuole ricordarlo. indigena.
Gli spagnoli massacrarono gli indigeni e li sostituirono con schiavi neri. Haiti venne assegnata alla potenza coloniale francese. Alla fine del XVIII secolo, gli haitiani neri e meticci approfittarono della rivoluzione francese e si rivoltarono. Combatterono contro i tre imperi coloniali: spagnolo, britannico e francese, e i loro eroi neri e mulatti, Toussaint Louverture, Christophe e Dessalines, furono capaci di sconfiggerli. Il 1° gennaio 1804, Haiti, libera, proclamò la sua indipendenza: la prima nel nostro continente dopo gli Stati Uniti. Un’altra impresa immortale. L’unica rivoluzione di schiavi, e di schiavi neri, ad aver trionfato.
Nel 1806, Francisco de Miranda, cercando appoggio per la sua spedizione di liberazione del Venezuela, sbarcò a Jacmel, un porto del sud di Haiti, e lì ricevette il pieno sostegno da parte degli haitiani, che gli fornirono risorse e una nave. Le amorevoli mani delle donne nere e meticce haitiane cucivano la nostra bandiera tricolore. L’unica, quella che Miranda piantò a Coro quando mise piede sul suolo venezuelano.
di Vladimir Acosta
(traduzione di Marinella Correggia)
Haiti, la tragedia di un popolo coraggioso – OP-ED – L’Antidiplomatico (lantidiplomatico.it)