Julian Assange, Fondatore di WikiLeaks, attualmente rinchiuso in un carcere inglese è in attesa della sentenza di estradizione negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di reclusione. La sua colpa? Aver rivelato i crimini di guerra degli Usa in Iraq e Afghanistan.
Con Stefania Maurizi, unica giornalista italiana che da più di 10 anni segue la vicenda umana, politica di Assange, conoscendolo anche personalmente, abbiamo affrontato il suo caso dove non è solo in gioco la libertà di uomo, ma quella della informazione e di ciò che rimane della democrazia. Lo scorso 26 agosto è uscito nelle librarie il libro di Stefania Maurizi: “Il Potere Segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks”.
di Francesco Guadagni
Partiamo da Julian Assange e l’Afghanistan un’associazione più che mai doverosa visti gli ultimi avvenimenti. Nei giorni scorsi è diventato virale un video del Fondatore di WikiLeaks, il quale, nel 2011, spiegava che per gli Usa in Afghanistan “l’obiettivo era una guerra eterna”. Già da queste parole si intuisce il motivo per il quale gli inquilini della Casa Bianca degli ultimi anni chiedono la sua testa?
Non c’è alcun dubbio che la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano sulla guerra in Afghanistan, gli Afghan War Logs, da parte di WikiLeaks nel luglio del 2010, sia costata la libertà a Julian Assange. Dal 2010, non è più un uomo libero. I file sulla guerra in Afghanistan, quelli sul conflitto in Iraq, i cablo della diplomazia americana e le schede dei detenuti di Guantanamo sono i documenti per cui rischia 175 anni di prigione negli Stati Uniti. Ma la libertà l’ha persa già dal 2010, quando iniziò a pubblicare queste rivelazioni e, da quel momento in poi, è finito inizialmente agli arresti domiciliari per 18 mesi, poi è rimasto confinato sette anni nell’ambasciata dell’Ecuador senza mai un’ora d’aria e senza via d’uscita, infine è stato incarcerato nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, in cui si trova dall’11 maggio 2019 in attesa che la giustizia inglese decida se estradarlo negli USA dove appunto rischia 175 anni. Ricordo la reazione furibonda del Pentagono, nel luglio del 2010: accusò immediatamente Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks di avere “le mani sporche di sangue”, perché, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, gli Afghan War Logs esponevano i traduttori e i collaboratori delle truppe americane e occidentali, i cui nomi comparivano nei file, alla rappresaglia dei Talebani.
Ricordo anche che con Glenn Greenwald andammo su al Jazeera: eravamo due dei pochissimi giornalisti che mettevano in dubbio l’attacco delle autorità americane contro la pubblicazione di quei documenti. Sono trascorsi 11 anni dalla rivelazione degli Afghan War Logs: ad oggi non risulta che un solo essere umano sia stato ucciso, ferito, torturato o anche solo imprigionato a causa di quei file. E non è che le autorità americane non abbiano provato a cercare vittime: neppure quattro settimane dopo la loro pubblicazione, il portavoce del Pentagono Geoff Morrell rese noto che «Una task force di oltre cento analisti dell’intelligence sta passando al setaccio tutti i 91.000 documenti ventiquattr’ore su ventiquattro, cercando centinaia di parole chiave, inclusi i nomi dei cittadini afghani, delle moschee, degli alleati, nello sforzo di valutare il pericolo causato dall’uscita [dei loro nomi]».Trascorsi ben 11 anni, non risulta una sola vittima. Ed è ovvio che se il Pentagono ne avesse trovata anche una sola, avrebbe divulgato la notizia urbi et orbi per dare la colpa a WikiLeaks e distruggerne la reputazione. Come scrivo nel mio libro “Il Potere Segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks”, solo Kafka e il suo Processo possono aiutare a capire quanto sia oltraggioso, allucinante e assurdo che una potenza come gli Stati Uniti che, solo con la guerra in Iraq, hanno causato centinaia di migliaia di morti innocenti, processino e cerchino di seppellire per sempre in prigione un giornalista che non risulta abbia mai cagionato una sola morte”.
Intanto, Assange langue nella prigione di Belmarsh, la “Guantanamo inglese”, il soprannome dice già tutto, in terribili condizioni psicofisiche in attesa della sentenza del processo sull’estradizione voluta dagli Usa. Nell’ultima udienza, del 10 agosto scorso, l’Alta Corte di Londra ha permesso agli Stati Uniti di contestare la perizia psichiatrica di Julian Assange. Puoi spiegarci meglio cosa è accaduto in questo giorno nero per la giustizia?
Nel mio libro racconto perché la prigione di Belmarsh non è diventata la Guantanamo inglese, come il governo di Tony Blair aveva provato a fare. Lo dobbiamo in modo particolare a una persona speciale: l’avvocata Gareth Peirce, che si oppose all’incarcerazione a tempo indefinito di alcuni dei suoi clienti, sospettati di terrorismo, dopo l’attacco dell’11 settembre. Nel 2004 i Law Lords, che allora svolgevano la funzione di Corte Suprema le dettero ragione. Gareth Peirce coordina la difesa di Julian Assange in Inghilterra: è un’icona della Giustizia. Detto questo, in quella che è stata la prima udienza del processo di appello alla High Court di Londra, le autorità americane hanno incassato un allarmante successo: hanno ottenuto di rimettere in gioco le perizie sulla salute fisica e mentale di Julian Assange. Nel processo di primo grado, il giudice Vanessa Baraitser aveva negato l’estradizione negli Stati Uniti del fondatore di WikiLeaks solo ed esclusivamente a causa della sua grave condizione fisica e mentale. Aveva riconosciuto che se estradato, incarcerato nella prigione più estrema degli Stati Uniti – l’ADX Florence, in Colorado, in cui si trova il narcotrafficante El Chapo – e sottoposto al regime speciale SAM (Special Administrative Measures), Julian Assange correrebbe un rischio molto serio di commettere un suicidio. Non dimentichiamoci che Chelsea Manning – l’eroica fonte che ha passato tutti i 700mila documenti segreti del governo americano a WikiLeaks, dal video Collateral Murder fino alle schede dei detenuti di Guantanamo – quando era in carcere per aver passato questi file, ha provato a suicidarsi ben tre volte. E’ un miracolo che Chelsea Manning sia ancora tra noi. Quindi il rischio di suicidio è molto reale per Julian Assange e il giudice Baraitser aveva riconosciuto la fondatezza delle perizie mediche che evidenziano questo rischio in tutta la sua drammaticità. Nel mio libro riporto le conclusioni del professor Michael Kopelman, docente emerito di neuropsichiatria al King’s College. Quando ho letto quelle valutazioni mediche sono esplosa di rabbia per come è stato ridotto Julian Assange. Nel corso di oltre 10 anni ho toccato con mano come la sua salute fisica e mentale sia stata gravemente compromessa. Lui cercava di mostrarsi sempre forte: Julian Assange è uno che vuole sempre apparire stoico, non vuole mai mostrarsi debole, ma osservatori costanti come me, che lo avevano incontrato tante volte nel corso degli anni, potevano vedere come la sua salute se ne stava andando piano piano. Nella prima udienza alla High Court, gli Stati Uniti hanno ottenuto di rimettere in discussione le conclusioni del professor Kopelman. Il rischio che Julian Assange venga estradato è assolutamente reale. Abbiamo visto in questi ultimi 11 anni come il fondatore di WikiLeaks non possa fare alcun affidamento nelle corti inglesi. La sua vita è letteralmente appesa a un filo.
In Italia è nota la tua battaglia per Assange e per quello che rappresenta per la libertà di informare e informarsi, perché un giornale come ‘Repubblica’, dove molti lettori ti seguivano ed hanno potuto informarsi sulle vicende del Fondatore di Wikileaks, ora è trattata marginalmente? Anzi, Assange passa ormai come una spia, un hacker dei russi. L’informazione italiana è così servile agli interessi atlantici da non rendersi conto che con l’estradizione di Assange negli Usa, solo per aver rivelato dei fatti, la libertà di informazione è praticamente morta?
La mia battaglia è nota in Italia e all’estero perché, avendo lavorato fin dal 2009 a tutti i documenti segreti di WikiLeaks e avendo pubblicato tutto quello che Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks hanno pubblicato in tutti questi anni, non ritengo che sia decente dal punto di vista professionale e umano abbandonare Julian Assange e lasciarlo estradare e chiudere per sempre in prigione, mentre io e tutti gli altri colleghi dei media internazionali, che hanno lavorato come me ai file, non abbiamo mai avuto problemi. Immagina di uscire con un collega per fare un’inchiesta, e il collega cade in un precipizio. Tu che fai? Lo abbandoni? Io ritengo che non sia accettabile professionalmente e umanamente abbandonarlo. E’ per questo che da sei anni porto avanti una battaglia legale basata sul Foia contro 4 governi – Stati Uniti, Inghilterra, Svezia, Australia – per scoprire la verità, cercando di ottenere tutti i documenti del caso per ricostruirlo in modo fattuale. La porto avanti completamente da sola, inizialmente pagando personalmente migliaia di euro in spese legali delle parcelle degli avvocati esperti di FOIA nel Regno Unito, in Svezia, negli USA, in Australia. Quando per me le spese legali non erano più sostenibili, ho cercato un grant per il giornalismo investigativo,e l’ho ottenuto e poi ho organizzato anche un crowdfunding. Solo così sono riuscita ad andare avanti, completamente da sola. E’ sconcertante che di centinaia di giornalisti in tutto il mondo che hanno scritto di Julian Assange e di WikiLeaks nessuno abbia mai cercato di scoprire la verità, cercando di ottenere l’accesso ai documenti del caso. E’ una cartina di tornasole di come è ridotto il nostro giornalismo: un giornalista, che ha rivelato crimini di guerra e torture, è rimasto sette anni chiuso in un’ambasciata senza un’ora d’aria, ha perso la libertà dal 2010. Ebbene, nessun giornalista americano, inglese, svedese, australiano ha detto: vediamo un po’ cosa è andato storto, cerchiamo di accedere alla documentazione di questo caso. E’ inquietante pensare che il giornalismo nel mondo occidentale sia ridotto così. Quanto all’informazione italiana è estremamente servile nei confronti del governo americano e, per la mia esperienza, quella americana e inglese è altrettanto servile. Nel mio libro, ricostruisco come, nel 2008, la prima volta che iniziai a osservare il lavoro di WikiLeaks – che era stata fondata da Julian Assange appena un anno e mezzo prima – una delle cose che mi colpì fu il coraggio dell’organizzazione di Assange di dire no al Pentagono che aveva chiesto di rimuovere dal sito di WikiLeaks il manuale di Guantanamo. Non solo non avevo mai conosciuto un’organizzazione giornalistica che dicesse no al Pentagono, ma quel coraggio mi colpì perché avevo osservato quanto i grandi media americani fossero completamente supini al Pentagono, alla Cia, tanto che, dopo l’11 settembre, il New York Times rifiutò per ben 13 anni di usare la parola “tortura” per le abominevoli torture a Guantanamo e nelle prigioni segrete della Cia. Il New York Times le chiamava ‘enhanced interrogations’, un termine criptico che non permetteva di capire la disumanità di pratiche tipo: un sospetto veniva legato al pavimento e lasciato morire di freddo. E’ successo a Gul Rahman in Afghanistan. Né al Washington Post le cose andavano meglio che al New York Times: quando nel 2005 rivelarono l’esistenza delle prigioni segrete della Cia, scelsero di non fare i nomi dei paesi dell’Est Europa – Polonia, Lituania e Romania – in cui si trovavano alcune di queste prigioni segrete, perché l’amministrazione Bush aveva chiesto al giornale di omettere questi nomi. E il Washington Post aveva detto sì.
Giornalisti, artisti, attori sempre pronti a solidarizzare con il dissidente russo, cubano o venezuelano di turno. Perché è scomodo mostrare solidarietà ad Assange? Soprattutto, tu che lo hai conosciuto personalmente e tutta la sua vicenda, perché, invece, è una battaglia giusta chiedere la sua liberazione?
È sotto gli occhi di tutti come il caso Navalny sia tutti i giorni nelle news. E voglio sottolineare che, a mio avviso, è positivo che gli venga assicurata copertura mediatica, perché lo protegge e questo indipendentemente da come io la penso sulle idee di Navalny. Sono una sincera democratica: difendo il diritto di Navalny di fare politica in modo sicuro, senza che finisca ammazzato, indipendentemente dal fatto che io approvi o meno le sue idee e i suoi programmi politici. Quindi che Navalny sia tutti i giorni sulle news, per me non è un problema. Il problema è che non ci sono gli altri dissidenti, gli altri perseguitati, primo fra tutti Julian Assange. Se un media vuole essere credibile, deve denunciare persecuzioni e violazioni dei diritti umani ovunque esse accadano. Se denuncia il trattamento di Navalny, deve denunciare anche quello di Julian Assange, altrimenti perde credibilità, diventa solo una pedina nello scacchiere della propaganda contro la Russia, o la Cina o contro uno dei tanti nemici degli Stati Uniti. La mancanza di solidarietà nei confronti del fondatore di WikiLeaks è dovuta al servilismo della politica e dell’informazione: gli Stati Uniti sono una superpotenza la cui influenza si fa sentire in tutto il mondo. Decidono molte carriere e quindi sono veramente pochi i politici e i giornalisti che vogliono inimicarseli, denunciando il trattamento abominevole di Julian Assange. Conosco il fondatore di WikiLeaks molto bene, da oltre dieci anni. L’osservazione sul lungo periodo di una persona è uno dei pochi criteri per capire con chi si ha a che fare. Sulla base di questa osservazione e interazione con lui per oltre un decennio, posso dire che tutto quello che Julian Assange ha fatto è stato di rivelare la criminalità di Stato: crimini di guerra, torture, gravissimi abusi dei diritti umani. Se lasciamo che rimanga in prigione e addirittura ci rimanga per sempre, sarà la fine della democrazia. Quello che distingue una democrazia da un regime è proprio la possibilità per un giornalista di rivelare la criminalità di Stato ai più alti livelli. In un regime non è possibile farlo senza finire ammazzati o incarcerati per sempre. In una democrazia deve essere possibile. E’ per questo che, come scrivo nel mio libro, questo caso deciderà il futuro del giornalismo nelle nostre democrazie. E in una certa misura anche nelle dittature. Ma voglio sottolineare che questo caso va anche oltre il giornalismo: è in gioco la libertà dei cittadini di guardare negli angoli più oscuri dei loro governi, dove si pianificano guerre che distruggono intere nazioni, come accaduto in Iraq e in Afghanistan, dove si consumano abusi ai più alti livelli, come accaduto con le torture della Cia. Questa libertà è l’essenza della Democrazia: non c’è democrazia se il cittadino non ha la possibilità di scoprire la criminalità di Stato ai più alti livelli”.
Tornando un po’ alla prima domanda, in base agli eventi che si verificheranno in Afghanistan il verdetto per la sua estradizione negli Usa sarà in qualche modo influenzato? Perdoneranno ad Assange di aver rivelato la verità?
I drammatici sviluppi in Afghanistan non influenzeranno direttamente il processo di estradizione, ma indirettamente sì. Il National Security State, che Eisenhower chiamava ‘il complesso-militare industriale’ degli Stati Uniti, è fuori controllo: è uno Stato nello Stato che non risponde a nessuno, gode dell’impunità totale. Dalla distruzione dell’Iraq, alle extraordinary rendition – in cui un essere umano come Abu Omar venne fatto sparire da Milano in pieno giorno, come nel Cile di Pinochet – dalla brutalità di Guantanamo alla distruzione dell’Afghanistan, l’opinione pubblica deve assolutamente capire che la Democrazia ha bisogno di giornalisti che espongano la criminalità di Stato ai più alti livelli. La Democrazia ha bisogno di Julian Assange e di WikiLeaks.