Ci hanno chiesto in queste settimane, in questi mesi, ci hanno chiesto perfino dei giornalisti, se siamo dei no-vax.
Non essere vaccinati o esserlo (come molti di noi) non ci impedisce di avere parecchie domande a cui ci piacerebbe che qualcuno desse risposta, e siamo anzi stupiti che in così pochi ne abbiano pretese.
Domande che ci sembrano più importanti delle scelte personali sulla nostra salute e sul nostro corpo, e che magari ci aiuterebbero a capire, e magari a fugare un bel po’ di dubbi.
Per esempio: perché è sceso il silenzio sulla vicenda Reithera?
Davvero il vaccino italiano, che aveva dato risultati molto incoraggianti in fase di sperimentazione e che avrebbe dato enormi margini di indipendenza all’Italia, è stato bloccato per un “bisticcio” sull’utilizzo dei fondi del MISE da parte dell’azienda?
Davvero non c’era modo di risparmiarsi questo bisticcio?
E davvero, di fronte a un evento drammaticamente storico come quello della pandemia, non è possibile trovare altre forme pubbliche di finanziamento (oltretutto abbastanza contenuto)?
Perché siamo vincolati da diversi mesi a una determinata “selezione” di vaccini, tutti made in Usa?
Davvero l’anglo-svedese AstraZeneca è l’unico ad aver meritato il clamore negativo intorno ai suoi effetti collaterali? Cosa persuade le autorità indipendenti italiane ed europee che i vaccini russo, cubano, cinese siano talmente inefficaci e insicuri da negare perfino il Green Pass a chi li ha scelti?
E, parlando di Green Pass: davvero l’Italia, uno dei Paesi con il più alto tasso di vaccinati al mondo, ha bisogno di intimidire una parte dei suoi cittadini, minacciando di escluderli nei fatti dal godimento dei diritti civili e sociali (a partire da quello al lavoro, che apre la nostra Costituzione)?
Davvero si ritiene che l’opera di convincimento e persuasione al vaccino, che pure ha fatto largamente breccia, debba passare per misure piuttosto discutibili sul piano giuridico e uniche in Europa per severità?
Si pensa che l’ossessionante campagna mediatica di caccia alle streghe non darà, prima o poi, dei frutti amarissimi da cogliere sul piano del nostro tessuto sociale e culturale?
O magari – e sarebbe molto peggio – lo si sa, lo si immagina e lo si prevede?
E, a proposito di media: siamo certi che la quotidiana divulgazione stia rendendo davvero conto di un dibattito scientifico in realtà largo, plurale e aperto?
Disturberebbe il flusso quotidiano alternare l’onnipresenza di quattro o cinque autorevoli scienziati e ricercatori con quella di altrettanto autorevoli scienziati e ricercatori di diversa opinione, che pure fuori dalla TV ci sono e non sono pochi?
È possibile dar conto di queste opinioni che dissentono, per esempio, su una campagna vaccinale aperta ai giovanissimi e a breve anche ai bambini? Perché in questi lunghi mesi nulla è stato veramente fatto sul piano del potenziamento di sanità, scuola e trasporti?
Se la vaccinazione di massa viene percepita come una forma di compensazione rispetto a queste inadempienze, perché meravigliarsi se poi essa si trascina dietro una coda lunga di scetticismo e risentimento?
Queste alcune delle questioni alle quali vorremmo ci venisse data una qualche risposta.
E tuttavia il timore è che anche stavolta, piuttosto che persuadere e convincere con le armi della razionalità e della comprensione, prevarranno i toni di chi solo ammonisce e comanda (se si chiede un atto di fede non ci si lamenti se vi si oppone un atto altrettanto aprioristico di sfiducia).
Se i sentimenti diffusi di diffidenza e scetticismo sono l’effetto di una “crisi d’autorità” che ha radici profonde, è altrettanto vero che una comunicazione dall’alto piena di contraddizioni e dai toni spesso violenti e isterici sembra non cercare altro che avvelenare ulteriormente il clima di divisioni nel Paese, alla ricerca del nemico di turno al quale addossare le responsabilità di un’emergenza che si vuole eterna e infinita. D’altra parte, scavando all’interno delle nuove polarizzazioni create e alimentate da una “società dello spettacolo” sempre più frammentata, sfibrata e inerte, che va messa continuamente in stato di allerta, pena il suo completo sfilacciamento, a colpi di emergenza e caccia al nemico interno da ostracizzare e ridurre al silenzio, rinveniamo le stesse logiche di fondo nel nome delle quali si è ceduto terreno sui diritti sociali e sui diritti politici (al punto che molti giustamente si chiedono a che serve ormai votare se le grandi decisioni vengono stabilmente prese altrove).
Ritroviamo cioè l’emergenzialismo come visione del mondo e come paradigma consolidato di governo che nei fatti sterilizza la dialettica democratica, comprime il dibattito pubblico, necrotizza col pensiero critico la possibilità di immaginare una società alternativa, e affida gli strumenti di governance a presunti esperti visti come gli unici depositari del sapere tecnico necessario a fronteggiare l’insorgenza di continue e interminabili emergenze.
Eppure non sono poche, anche fra chi prima della pandemia denunciava la torsione tecnocratica degli ultimi tempi, le assonanze con le semplificazioni e la foga liquidatoria alla base di una certa narrazione. Basti pensare anche alle voci che, “da sinistra”, squalificano chi avanza critiche o solleva dubbi sul modo in cui è stata contrastata la pandemia, accusandolo di aver introiettato una visione del mondo neoliberale. Quasi considerando buona e giusta qualsiasi forma di limitazione delle libertà individuali in nome della salvaguardia di un presunto e mai troppo specificato interesse generale, e chiunque ne metta in discussione la legittimità – magari perché, di fronte all’assenza di certezze granitiche, vorrebbe una maggiore attitudine al dialogo, una stretta osservanza delle ragioni della prudenza e della cautela da parte dei decisori pubblici, misure più ragionevoli, adeguate e proporzionate rispetto ai fini che esse si propongono – incluso, quando va bene, fra le vittime inconsapevoli della spirale consumistica, e quando va male fra gli anarco-individualisti indifferenti alla sorte dei propri concittadini.
A ben vedere, di subalternità al paradigma neoliberale si può certo parlare, ma guardando in una direzione diversa: a coloro che non desiderano altro se non ritornare alla normalità di prima, e in nome di questa (la normalità dell’uomo privato con i suoi scopi privati, con il suo lavoro privato perché svuotato di ogni rilievo pubblico) acconsentono in maniera acritica e fideistica a qualsiasi decisione dall’alto, senza riuscire a guardare oltre la loro dimensione particolaristica e utilitaristica (Gramsci parlerebbe a tal proposito di “apoliticismo animalesco”).
Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune: così Manzoni sulla peste, così oggi sul Covid.
Giulio Di Donato e Simone Luciani