Alessandro Marescotti: “La sinistra con l’elmetto ha ucciso il pacifismo”

La bandiera arcobaleno non sventola più. A sessant’anni dalla prima marcia Perugia-Assisi promossa da Aldo Capitini (24 settembre 1961), il movimento per la pace conosce una crisi senza precedenti. L’analisi di Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione Peacelink.

I missili Jupiter

Quando si tenne la prima marcia Perugia-Assisi, avevo tre anni. Di quel 1961 ricordo che abitavo a Taranto e, davanti a casa mia, c’era una famiglia di militari americani arrivati da poco. Marito, moglie e un bambino con i capelli biondi. Venivano dagli Stati Uniti per ragioni a noi ignote. Io cercavo di giocare con il bambino americano biondo. Aveva giocattoli molto più belli dei miei. Ma i suoi genitori non lo facevano uscire di casa. Un giorno lo picchiarono perché aveva giocato con me. Tanta severità non ce la sapevamo spiegare. Era come se avessero eretto un’inspiegabile cortina di silenzio e di riservatezza. Ma poi, quaranta anni dopo, fu tutto più chiaro. Vennero desecretati i documenti che spiegavano quella presenza di soldati americani a Taranto e in Puglia. Che facevano esattamente e perché erano venuti da noi? Erano arrivati dagli Stati Uniti per installare trenta missili Jupiter a testata nucleare in dieci basi segrete. Ognuno di quei missili aveva una potenza cento volte superiore a quella di Hiroshima. Quattro di quelle testate nucleari furono colpite in pieno da fulmini e due rischiarono di esplodere. Manca oggi dai libri di storia questo terribile dettaglio da cui è dipesa la mia vita e la vita di tante persone. Le postazioni di quei missili, smantellati dopo la crisi di Cuba, sono ancora visibili. Su PeaceLink ne abbiamo fatto la mappa con le coordinate satellitari perché sulle Google Maps è possibile ancora individuarne le tracce.

La marcia Perugia Assisi del 1961 e la mobilitazione degli intellettuali

Quei missili c’erano quando fu fatta la prima Marcia Perugia-Assisi nel 1961. Nell’Italia consapevole e progressista che partecipò a quella marcia si respirava un clima di lucida angoscia. Erano anni terribili. Un sottile e fragile filo collegava la vita delle persone alle grandi scelte delle superpotenze nucleari. Aldo Capitini, padre intellettuale e spirituale della nonviolenza in Italia, fu l’ideatore di una marcia di speranza. Il merito dell’iniziativa fu quello di dare inizio a un nuovo movimento pacifista, ideologicamente indipendente dalle superpotenze, diverso da quello dei “partigiani della pace” egemonizzato dai comunisti subito dopo la seconda guerra mondiale. Il 1961 fu quindi l’avvio del primo movimento pacifista del dopoguerra realmente autonomo e indipendente, capace di esprimere una cultura della pace e della speranza a cui contribuirono personalità come don Lorenzo Milani, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Danilo Dolci. A fare da apripista era stato già don Primo Mazzolari. Quel movimento di idee fu ulteriormente arricchito da intellettuali e scrittori come Gianni Rodari, Franco Fortini e Italo Calvino. A livello internazionale si erano distinti, nell’impegno per la pace e il disarmo nucleare, uomini di scienza del calibro di Albert Einstein e Bertand Russell. A questi si aggiunse Linus Carl Pauling, due volte premio Nobel, prima per la chimica e poi per la pace, che assieme a Barry Commoner mobilitò migliaia di scienziati contro i test nucleari in atmosfera.

La scomparsa dei pacifisti da Google News

A distanza di sessant’anni da quel primo movimento pacifista, così ricco di uomini di cultura e di scienza, così indipendente ma così schierato dalla parte della sopravvivenza dell’umanità, si avverte chiaramente oggi una evidente assenza: quella degli intellettuali. Non che manchino intellettuali impegnati, ma la differenza rispetto a sessanta anni fa è troppo evidente per essere taciuta.
Sessant’anni dopo sta per scomparire addirittura la parola “pacifista”, una parola che Freud utilizzava tranquillamente e con orgoglio scrivendo ad Einstein. C’è oggi quasi una remora a usare quella nobile parola. Per evitare che scompaia, PeaceLink la sta inserendo nei titoli delle sue pagine web perché continui a essere indicizzata da Google e dagli altri motori di ricerca. La parola pacifista rischia infatti di non dare più risultati se la si cerca su Google News. Il sito di PeaceLink la mantiene in vita intenzionalmente con articoli ad hoc, ma è come se la semantica si fosse inaridita. È una cosa terribile su cui occorre riflettere, perché “pacifista” sembra quasi una vecchia parola di cui vergognarsi, così come tanti si vergognano di essere stati “comunisti”. Fra gli aggettivi scomparsi c’è anche “imperialista”, come se nel mondo l’imperialismo non ci fosse più. Gli studenti trovano questa parola sui libri di storia, la studiano, salvo poi scoprire che oggi non viene usata più dai politici. Il primo politico che parlasse della politica imperialistica degli Stati Uniti non potrebbe più fare il ministro, avrebbe finito la sua carriera, e quindi si autocensura.

Le stagioni del movimento pacifista

Il movimento pacifista italiano ha conosciuto quattro stagioni: la sua primavera, con la marcia Perugia-Assisi del 1961; la sua estate, con la lotta agli euromissili dell’inizio degli anni Ottanta, sostenuto dal PCI di Berlinguer ma anche da tanti giovani e da tante realtà spontanee della società civile; il suo autunno, con la guerra del Golfo del 1991, in cui il pacifismo venne abbandonato dal PCI, ormai a fine corsa, ma per fortuna don Tonino Bello ebbe la capacità, con padre Ernesto Balducci, di ridare un riferimento credibile ad un movimento disconosciuto da chi lo aveva alimentato, magari in funzione anti-craxiana; il suo inverno, con l’appoggio di D’Alema e Fassino alla guerra del Kosovo del 1999 e dell’Afghanistan del 2001; un inverno durato vent’anni, caratterizzato persino da ambiguità durante le guerre di Libia e di Siria che hanno visto uno sbandamento vistoso del movimento pacifista.
Unica eccezione nel lungo inverno del declino pacifista è stato il grande movimento mondiale del 2003 per fermare la guerra di Bush in Iraq. Un movimento che si innestava nella precedente mobilitazione no-global del 2001. Nel 2003 milioni di persone riempirono le piazze, e anche i balconi, con le bandiere arcobaleno.
Di quel luminoso movimento cosa è rimasto? Un cimitero di siti Internet non aggiornati o addirittura scomparsi. Migliaia di pagine web non ci sono più, e questo fa riflettere parecchio. Sono scomparsi partiti e giornali. Cosa rimane allora? Forse l’esperienza di autonomia, serietà e competenza di alcuni segmenti del pacifismo. Il pregio della specializzazione e della competenza è sicuramente il lascito più interessante di quella intensa fiammata di attività che vide la centralità di testimoni di pace come Alex Zanotelli, Gino Strada, Luigi Ciotti e Tiziano Terzani.

Information warfare e comunicazione pacifista

Se dovessi indicare un limite del pacifismo di oggi, sceglierei quello della comunicazione inadeguata. C’è una evidente incapacità di competere in modo efficace con i media militari nella velocissima battaglia dell’informazione (information warfare) con cui giorno dopo giorno viene modellata l’opinione pubblica durante le crisi militari e i momenti più acuti dei conflitti armati. Pur disponendo di tecnologie digitali a portata di tutti, non teniamo testa all’offensiva mediatica militare che si palesa soprattutto sui social network, ossia su quel terreno che – per sua natura – dovrebbe vederci vincenti. È incredibile ma è così. La manipolazione delle coscienze passa attraverso una strategia mirata di diffusione di informazioni non verificabili e la velocità della comunicazione digitale è travolgente, provoca una grande scossa emozionale sull’opinione pubblica. Basti pensare agli annunci di uso delle armi chimiche, quasi sempre fake news costruite per gettare discredito su una delle due fazioni in conflitto. Il movimento pacifista ha una scarsa attitudine alla velocità. La prontezza nella comunicazione non è la sua carta vincente. Non controlla rapidamente l’informazione digitale generata dalla guerra. A volte condivide fake news. Nei conflitti è invece fondamentale che le bugie vengano messe subito in dubbio e smentite, entro le 24 ore e non dopo due settimane, due mesi, due anni o vent’anni. Questo è il grande limite del pacifismo, ed è un limite culturale, perché con le tecnologie digitali potrebbe essere velocissimo ed efficace nel controbattere colpo su colpo e passare all’offensiva mettendo sotto accusa le bugie del potere militare in real time.
La cosa drammatica è che noi pacifisti non siamo in grado di imitare ciò che ha fatto Assange. Forse non lo vogliamo emulare per paura di fare la sua fine? Il dato di fatto è che non abbiamo avuto neppure l’intelligenza di sostenere Assange e gli altri eroi del nostro tempo come Hale, Manning, Snowden. Tranne alcune frange di volonterosi il resto è silenzio. Il movimento pacifista è oggi il grande assente in questa lotta civile per la libertà dell’informazione negata dalla guerra e dal potere militare americano. Ritornerò su questo punto.

Il pacifismo: delegittimato e sotto assedio

Oggi il quadro complessivo del pacifismo è – dal mio osservatorio – quello di una città abbandonata e sotto assedio. Ma con sacche di resistenza isolate che cercano di riconnettersi. Gino Strada è stato un esempio magnifico di resistenza contro la guerra. Rispetto a sessanta anni fa va notato che l’assedio posto al pacifismo non proviene dalla destra militarista ma dalla sinistra con l’elmetto, quella governativa. Siamo stati delegittimati non dai nostri avversari ma dai nostri “amici”. È stata la sinistra – che un tempo marciava contro gli euromissili – ad abbandonare e poi a isolare il movimento che si opponeva alla guerra in Afghanistan. Il movimento pacifista è stato sabotato dall’interno. Ci chiedevano una legittimazione della guerra per i diritti umani. È stata usata una raffinata retorica (i partigiani che facevano la guerra contro Hitler e Mussolini) e sono stati resuscitati anche temi cari al colonialismo (ricordiamoci che Giolitti e Mussolini andavano in Africa per “liberare gli schiavi”). In nome dei diritti umani ci hanno chiesto di rinunciare alla bandiera della pace e ci hanno proposto un elmetto umanitario. Sembrava che il mondo dovesse essere rimesso a posto con missioni militari altruistiche e che chiunque si opponesse a questo altruismo con le stellette fosse insensibile ai valori della libertà. Il tradimento della sinistra è durato più di vent’anni e ha scolpito coscienze nuove, ha sfigurato l’identità di quella che un tempo era l’Italia progressista e pacifica. Pasolini direbbe che una parte dell’Italia è stata sfregiata e bruttata per sempre. Era l’Italia dei nostri padri e dei nostri nonni, quella che la guerra l’aveva patita e per questo condannata per sempre. Ci è stata chiesta l’abiura. Un’abiura ai nostri valori giovanili, e tutto questo per la loro carriera politica. È avvenuta una cosa così vergognosa sotto il profilo etico che è difficile persino scriverne. Il tradimento è passato dal terreno della pace a quello ambientale e qui la sinistra in carriera ha fatto il resto dei suoi disastri. Molti di noi si sono dovuti riconvertire da pacifisti a ecologisti per difendere i territori e la salute, io stesso l’ho fatto per il caso ILVA. Ho visto finire sotto processo quelli che avevamo votato. È emerso come un incubo e si è materializzato.

Le nostre responsabilità

Oggi, a sessant’anni dalla prima marcia Perugia-Assisi, il movimento pacifista conosce una crisi senza precedenti. Pensate che non vi è stata alcuna reazione allarmata neppure alla notizia (rivelata da Wikileaks) che la CIA è in grado di controllare tutti i cellulari e persino le nostre conversazioni davanti a una smart TV.
Oggi ignoriamo che c’è un informatico in carcere negli Stati Uniti che – con grande sacrificio personale – ha passato a Wikileaks oltre ottomila pagine top-secret (con il nome in codice Vault 7) che attestano quella capacità di controllo globale su cellulari e smart TV, in violazione della Costituzione Italiana e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il nome di questo informatico è Joshua Adam Schulte ma non vedo folle che si mobilitano. Si ripete il copione di Edward Snowden che adesso è salvo non perché ci siamo mobilitati noi ma perché è saputo fuggire e ora vive nascosto.
La “guerra al terrore” ha generato il carcere di Guantanamo (su cui è partita una campagna per la chiusura), dove hanno torturato le persone senza che il movimento pacifista abbia fatto in Italia qualcosa di realmente significativo. Alcuni addirittura pensavano che Guantanamo fosse stata chiusa! La nostra responsabilità di pacifisti è grande. Perché? Semplice. Perché loro hanno addormentato le nostre coscienze. Ma noi che abbiamo fatto per svegliarle? Vent’anni di guerra in Afghanistan ci hanno abituato ai suoi abusi. Le violazioni delle Convenzioni di Ginevra non hanno mobilitato le masse. Non siamo stati in grado neppure di supportare la richiesta della Corte Penale Internazionale di processare gli Stati Uniti per crimini di guerra.
La strategia del potere in questi anni non è stata quella di sbaragliare il pacifismo con una prova muscolare. La strategia è stata quella di mettere in una pentola tiepida la rana e di lessarla un po’ alla volta, finché non ha avuto più lo scatto per saltare fuori. Ed ora il movimento è bollito. Quanti si stanno battendo per chiedere la liberazione di Daniel Hale che ha fatto obiezione di coscienza ai droni e oggi è in un carcere americano per aver raccontato la verità? Quanti provano l’indignazione giusta per uscire fuori dal tiepido brodo in cui sono stati lessati?

Abbiamo lasciato solo Assange

Siamo di fronte a una preoccupante assuefazione al male. Una larga fetta della società convive con ciò che detesta. Ma è come se questa assuefazione la subissimo anche noi pacifisti perché, come ho scritto prima, non siamo in grado di supportare efficacemente la campagna per Wikileaks e per la liberazione di Assange. Senza il contributo di Assange non avremmo saputo che cosa succedeva realmente in Afghanistan. E quando Assange ha messo online le menzogne di guerra, noi non abbiamo usato quegli strumenti formidabili, ma ci siamo succhiati come caramelle le bugie che venivamo condivise sui media progressisti. Abbiamo persino creduto che la guerra in Afghanistan avesse migliorato le condizioni di vita degli afghani! Tutte bugie che gli Afghanistan Papers hanno demolito, ma quanti hanno letto gli Afghanistan Papers fra i pacifisti italiani? E così ci siamo fatti infiltrare dalla propaganda, altrimenti non si spiegherebbe la nostra mancata azione per porre fine alla guerra in Afghanistan, guerra interrotta per volontà degli Stati Uniti senza che vi fosse una battente iniziativa pacifista.

La grande differenza rispetto a sessanta anni fa

La crisi del movimento pacifista sta qui, in queste incredibili assenze. Le informazioni segrete sulla guerra e sugli abusi del potere militare non hanno in Italia mobilitato granché. Non abbiamo difeso le persone coraggiose, gli eroi del nostro tempo. Quelli che – con tanto pericolo – ci hanno consegnato le verità nascoste. Informazioni che documentavano la distanza fra la realtà e la propaganda di guerra. Una mole incredibile di dati su cui ha lavorato Stefania Maurizi, autrice del libro “Il potere segreto”. Ma noi pacifisti, diciamolo chiaramente, eravamo immersi nel tiepido brodo di cottura delle informazioni manipolate. Dormivamo sereni perché i buoni tutto sommato stavano vincendo in Afghanistan. Stavano governando con libere elezioni. Cercavano di garantire i diritti delle donne, aprendo scuole e offrendo alle bambine il diritto finalmente di studiare. Perché scendere in piazza? E quando i buoni hanno perso e sono stati cacciati, ecco che ci siamo svegliati per gridare – da bravi pacifisti bolliti – contro i cattivi talebani.

Il letargo dell’Afghanistan

Quando ci siamo svegliati da questo letargo, dopo zero iniziative sull’Afghanistan negli ultimi dieci anni, abbiamo scoperto che il governo afghano era un fantoccio, privo di reale consenso. Abbiamo scoperto che l’esercito afghano, sulla carta con 350 mila uomini dotati delle migliori tecnologie militari, si è volatilizzato di fronte all’avanzata di 75 mila insorti, meno attrezzati militarmente. Per giungere a Kabul non hanno sparato un colpo. Tutto si è concluso senza spargimento di sangue. Se non fossero stati talebani avremmo parlato di nonviolenza. Ma il finale ha talmente infastidito la sinistra con l’elmetto che abbiamo assistito alla spasmodica ricerca dell’informazione negativa a tutti i costi per spostare l’attenzione e non parlare del fallimento di venti anni di guerra e di retorica di guerra.
Sull’Afghanistan avevamo il dovere di fare di più e non lo abbiamo fatto. E di questa nostra assenza occorrerà capire il perché. La mia opinione è che in ultima analisi abbiamo creduto alla propaganda americana, preferendo anche una lunga guerra al ritorno dei talebani. È brutto da dire ma bisogna ammettere che l’egemonia del pensiero a stelle e strisce è penetrata nella nostra base sociale che in larga parte vota PD e che alla propaganda filo-americana del PD ha creduto. E così i pacifisti sono stati mutati – in vent’anni di mutazioni graduali e quasi impercettibili – in paciocconi e creduloni che hanno bevuto il racconto delle conquiste civili sotto l’occupazione americana. È un brusco risveglio dire loro oggi che le statistiche erano state manipolate. Credevano che esistesse veramente un Afghanistan buono dove migliorava l’alfabetizzazione, l’aspettativa di vita, e così via. Il Corriere della Sera ha addirittura parlato di un aumento di 8 anni dell’aspettativa di vita in Afghanistan nei 20 anni di “guerra umanitaria”, come a dire: con la guerra in Afghanistan gli afghani, pur morendo, hanno vissuto in media di più. Quello che è mancato al movimento pacifista in questi anni è stato il controllo sulla propaganda di guerra e la controinformazione per arginare il fenomeno dei paciocconi creduloni che avevano ammainato la bandiera arcobaleno per credere alle informazioni manipolate. Sessanta anni fa il movimento pacifista aveva un coraggio e un’identità che oggi occorre ritrovare.

La fine della guerra: sciagura od opportunità?

Mentre la fine della guerra del Vietnam è stata salutata nel 1975 come un fatto positivo, dopo averne denunciato le menzogne con una martellante campagna di volantini davanti a scuole e università, in queste settimane abbiamo assistito alla fine della guerra dell’Afghanistan senza qualcosa di simile al 1975. Anzi. Quando c’è stato il ritiro abbiamo quasi rimproverato Biden, invece di sostenerlo. Rimani ancora un po’, diceva l’Europa. Il regista Michael Moore negli Stati Uniti ha invece detto chiaramente: bravo Biden, ti sostegno. Ho apprezzato l’articolo di Domenico Gallo su MicroMega che – anche lui – ha sostenuto la saggia scelta di Biden di ritirare le truppe.

Invece della chiarezza di queste posizioni, nella sinistra abbiamo invece assistito a strani “contorcimenti” che non rendono chiaro se vogliamo che ritorni la “guerra umanitaria” o se vogliamo far fuggire in aereo tutte le donne dall’Afghanistan per metterle in salvo dai talebani. Ho letto persino la firma di Piero Fassino (che non rinnega l’appoggio alla missione militare di venti anni fa) accanto a quella di autorevoli esponenti di movimenti pacifisti in un comunicato, frutto di uno di questi “contorcimenti”, che cercava di mettere tutti d’accordo, pur di salvare gli afghani dal flagello dei talebani.

La regressione della consapevolezza

In questi sessant’anni siamo pertanto regrediti dalla chiarezza e dalla consapevolezza di chi partecipava alla prima marcia Perugia-Assisi. Siamo approdati ad uno stato di confusione che è sicuramente frutto di come la sinistra con l’elmetto, quella che ha appoggiato questi venti anni di guerra fallimentare, abbia combattuto una duplice guerra: una in Afghanistan e una dentro il movimento pacifista. La sinistra con l’elmetto è stata in grado di iniettare nella cultura pacifista uno “stato di colpa” così riassumibile: se non appoggiate la parte civile e “umanitaria” della missione militare in Afghanistan sarete responsabili moralmente delle violazioni dei diritti umani da parte dei talebani.
Oggi scopriamo che gli afghani non hanno imbracciato gli oltre 350 mila fucili e mitragliatori, generosamente donati dall’industria militare occidentale, per difendere le “conquiste civili” e il governo “democraticamente eletto”. E scopriamo che non hanno opposto neppure una resistenza passiva nonviolenta come i cittadini di Praga del 1968 di fronte alle truppe del Patto di Varsavia. Niente, niente di niente, neppure una mezza manifestazione di persone per scattare una foto simbolo consolatoria che raccontasse la resistenza all’avanzata dei talebani.
E allora quello “stato di colpa” oggi non funziona più di fonte a queste lezioni della storia, e per questo allora ce lo ripropongono ogni giorno con notizie di violenze e soprusi, come se prima violenze e soprusi fossero stati cancellati nell’Afghanistan liberato dalla NATO e dagli USA. Qualcosa evidentemente è andato storto e la NATO è sotto shock per aver perso la guerra. Ma noi ne siamo consapevoli? O ci addoloriamo assieme alla NATO per la sconfitta?

Rimettere al centro l’ONU e l’educazione alla pace

Come scrive Domenico Gallo su MicroMega la sconfitta della NATO in Afghanistan è paragonabile al crollo del Muro di Berlino e segna l’inizio di una nuova epoca che consente all’ONU di riprendersi la sua centralità per una politica di pace. La rinascita del movimento pacifista dipenderà dalla sua capacità o meno di saper cogliere questa grande occasione. Oggi essere pacifisti significa rimettere al centro l’ONU e fare educazione alla pace nelle scuole, nell’ora di educazione civica, anche perché il sedicesimo obiettivo dell’Agenda ONU 2030 è quello della pace.

Le cose da fare

Un’azione da sostenere è quella di un controllo serrato sul commercio delle armi, applicando la legge 185/1990 che vieta di esportare armi italiani a nazioni in guerra e che violano i diritti umani. Occorre poi mobilitarci per impedire che in Italia arrivino le bombe atomiche di nuova generazione, spingendo perché il parlamento discuta sull’adesione dell’Italia al trattato ONU sulla messa al bando delle armi nucleari. Come esempio oggi di buona prassi, vorrei segnalare una interessante iniziativa coordinata da Elio Pagani che sta riunendo diverse associazioni per finanziare uno studio giuridico sulla legalità della presenza delle armi nucleari in Italia.
Dobbiamo far tesoro delle buone prassi. Possono essere di riferimento le due grandi campagne, quella sulle mine antiuomo e quella sulla messa al bando delle armi nucleari, che hanno consentito al movimento per la pace mondiale di conquistare due premi Nobel attraverso una campagna capillare, seria e pragmatica, nazione per nazione, unita a una forte spinta ideale.

Un brevissimo cenno alla telematica è d’obbligo: il movimento pacifista è quasi invisibile online. Era molto più visibile venti anni fa. Quest’anno ricorrono i trent’anni dalla nascita di PeaceLink e in questi trent’anni abbiamo imparato come la “battaglia dell’informazione” sia ormai cruciale. Bisogna saperla condurre investendo in competenze digitali. Se si fa eccezione per PeaceLink, su cui vengono investite molte risorse e attenzioni, sono pochissime le altre realtà online che entrano in Google News e che svettano nei motori di ricerca. La frantumazione è una delle cause della scarsa visibilità. Ma anche i coordinamenti sono poco visibili per diverse ragioni su cui sarebbe importante discutere. Ma in particolare l’uso di Facebook è diventato la causa del fatto che il movimento pacifista non viene indicizzato sui motori di ricerca. I post su Facebook (usati tantissimo perché pratici e veloci) sono spesso invisibili rispetto ai motori di ricerca: non creano “memoria digitale”. È necessario che il movimento pacifista acquisisca competenze digitali, ora che tutti hanno le abilità digitali. Le competenze richiedono che alle abilità vengano connesse conoscenze comunicative, come saper titolare, saper fare notizia, saper scegliere le parole, saper confutare le fake news in tempo reale. Le competenze digitali servono a scegliere gli strumenti più adatti ad essere efficaci. Ma su questo versante non si presta attenzione e non vi sono percorsi di autoformazione. E allora ci siamo tiepidamente immersi nel brodo commerciale di Facebook, felici e contenti, senza esplorare le alternative social che pure esistono (segnalo sociale.network).

Cosa significa essere pacifisti oggi

Per concludere questa mia personale riflessione, vorrei sottolineare che essere pacifisti oggi significa non fare sconti a nessuno. Adesso è venuto il momento della resa dei conti. Una pacifica ma intransigente resa dei conti. Gli USA hanno perso la guerra, e anche la Nato. Adesso è il momento di essere intransigenti in modo nuovo, rivoltando la questione dei diritti umani sui paladini dei diritti umani che sono stati cacciati dall’Afghanistan. La Campagna per chiudere la prigione di Guantanamo deve diventare a mio parere la base di partenza per una critica della guerra a partire dai diritti umani, ossia da quella base culturale su cui gli Stati Uniti hanno lanciato le loro guerre umanitarie. Occorre porre sotto accusa chi ha compiuto, in particolare dopo l’11 settembre 2001, crimini di guerra.
Deve essere, il nostro, un cambio di paradigma e di narrazione. I diritti umani sono stati usati per mettere sotto accusa i “nemici” dell’Occidente, mentre siamo stati noi a primeggiare nei crimini di guerra a livello globale. È stato il terrore esercitato dall’Occidente, in modo inumano, l’inizio di uno dei più bui periodi per la storia degli Stati Uniti e della NATO. Dobbiamo far capire che questo è il momento di provare vergogna e i primi a doverci chiedere scusa devono essere proprio i leader della sinistra con l’elmetto.

Alessandro Marescotti

9 Ottobre 2021

Marcia Perugia-Assisi | La sinistra con l’elmetto ha ucciso il pacifismo (micromega.net)

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