E’ l’attuale modello di sviluppo a distruggere l’ambiente

Se il rapporto fra salute e lavoro è stato inevitabilmente al centro di ogni pensiero durante la pandemia, orientando sia le scelte sanitarie che di politica economica e sociale, ora, una visione più prospettica e rivolta al futuro, consente d’individuare con maggior precisione le cause remote della pandemia con l’obiettivo ormai improcrastinabile di ‘risanare il pianeta’.

Durante la fase iniziale e più acuta dell’emergenza pandemica la priorità era certo salvare vite umane.

L’impatto del tutto inatteso con un nemico invisibile e sconosciuto ha imposto scelte così immediate e radicali da dettate misure talora ispirate più dal buon senso che da scientifiche ‘certezze’ – come l’uso delle mascherine, dei guanti, del “distanziamento sociale” e dei lockdown. Misure che, ad eccezione dei settori ritenuti essenziali per la sopravvivenza, se hanno contribuito a combattere la pandemia, hanno al contempo penalizzato gravemente l’economia del Paese.

Con la comparsa dei vaccini sulla scena mondiale ed europea, l’economia ha indubbiamente ripreso il proprio cammino, anche se le conseguenze per l’apparato produttivo e soprattutto per l’occupazione restano drammatiche.

Settori come quello della piccola distribuzione, degli alberghi e della ristorazione, del turismo e del tempo libero, dello sport, dello spettacolo e delle attività culturali, e più in generale tutto il terzo settore, hanno subito un tale crollo dal quale ancora gli operatori stentano a riemergere.

Anche se i ricercatori più lungimiranti già negli anni cinquanta avevano previsto che il disinteresse dei sistemi produttivi verso l’intero patrimonio ecologico – flora, fauna, mari, atmosfera, clima, acque potabili e non, ed ogni tipo di risorsa naturale non rinnovabile – avrebbe provocato danni irreversibili al pianeta, è solo di recente che l’Unione Europea, gli Stati Uniti, l’ONU ed altre agenzie internazionali hanno cominciato ad organizzare incontri e summit destinati ad imporre standard, procedure e tempistiche per limitare drasticamente le emissioni inquinanti a livello globale.

Senza disconoscere l’irrinunciabilità dei vincoli temporali entro cui raggiungere risultati tangibili circa l’abbassamento delle emissioni inquinanti, è indispensabile attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sui processi attraverso i quali si dovrebbe raggiungere la meta nei tempi previsti.

L’attuale modello di sviluppo, come conseguenza della globalizzazione, ha prodotto assieme ad una gigantesca quantità di beni e servizi, un’inquietante massa di rifiuti tossici di ogni genere (si pensi che nel solo 2017 ne sono stati prodotti 326 milioni di tonnellate!).

Ora, Il dilagare di rifiuti (soprattutto materiali plastici come il Pet, l’Hdpe, il Pp, di fatto non riciclabili, fenomeno esploso con la pandemia che ne ha moltiplicato il consumo in seguito all’adozione di oggetti monouso) ha rappresentato una ghiotta occasione per il business del riciclaggio dei rifiuti, i cui protagonisti sono stati da un lato i paesi occidentali che se ne dovevano liberare e dall’altro la Cina (ufficialmente solo fino al 2018) disposta ad accogliere e riciclare i rifiuti e poi soprattutto i paesi del Sud Est Asiatico divisi fra i vantaggi economici e le preoccupazioni per il rischio che assieme ai rifiuti riciclabili vengano inviati pericolosi rifiuti chimici o organici.

L’impegno delle ONG, sia ad oriente che ad occidente, e innanzitutto quello delle giovani generazioni – volto a risvegliare nei cittadini e nei governi l’attenzione e soprattutto a pretendere azioni concrete ed immediatamente operative, che vadano bene al di là di quel principio di “responsabilità allargata del produttore” per la gestione delle scorie e dei suoi prodotti, investe l’intera gamma delle molteplici forme pubbliche e private di aggressione al sistema ecologico planetario – comincia solo ora ad ottenere risposte finalmente efficaci e decisive.

L’auspicio è perciò che l’incontro fra Draghi e Greta Thunberg – che, se non altro ha, si spera, messo fine alla favoletta dell’incompetenza e dell’inadeguatezza dell’engagement delle giovani generazioni – non abbia il solo significato simbolico di una legittimazione delle loro preoccupazioni circa un mondo futuro senza lavoro e privo di prospettive.

Quella per l’ambiente, il clima e la salute è, infatti, una battaglia cha va combattuta su più piani, coinvolgendo tutti gli strati sociali ed ogni generazione, con una piena e più matura consapevolezza degli effetti sul pianeta che questo modo di produzione comporta per le persone e per l’intero pianeta.

Desta, infatti, non poche preoccupazioni la prospettiva – che ha già trovato forme di organizzazione della vita e del lavoro prima impensabili in risposta ai rischi della pandemia – di una sempre più intenso impiego del lavoro a distanza (curiosamente definito smart working) che ricorre sempre più spesso al digitale, nel quadro ben più ampio di una radicale adozione dell’informatica e delle nuove tecnologie.

La sostituzione delle persone con una sempre più massiccia presenza di sistemi algoritmici non si limita ai soli settori dell’informazione e della comunicazione, dei servizi pubblici, della formazione scolastica, universitaria e professionale ma ormai pervade tutti quei settori – dall’agricoltura all’industria, dal commercio al turismo, ecc… – e perfino qualche potente consiglio di amministrazione di agenzie finanziarie – che in passato facevano affidamento sulle competenze e le esperienze di un personale qualificato dotato di indubbie qualità umane, che ad oggi non sembrano sostituibili da pur sofisticati sistemi automatici.

Questo nuovo modo di produzione “digitale” in molti dei progetti che si propongono di rilanciare l’economia e l’occupazione, sembra destinato dunque a coinvolgere tutti i settori della vita individuale e sociale, dal lavoro al tempo libero, dalla salute alla cultura, dalle professioni alle attività industriali e commerciali, creando una gigantesca infrastruttura tecnologica che Greenpeace considera “la cosa più vasta costruita dalla specie umana”. Ciò che impone una riflessione approfondita sui settori nei quali è utile, opportuno ed ecologicamente ragionevole adottare nuovi sistemi produttivi in cui il digitale sostituisca del tutto la presenza umana e quelli nei quali, anche allo scopo di garantire i livelli di occupazione, tale opzione sia talora addirittura controproducente.

Dunque, ricerche più recenti sembrano confermare effetti problematici ed aporie che un passaggio non ben calibrato da un modo di produzione come quello attuale ad uno massicciamente digitale comporterebbe non solo per la salute del pianeta.

Le cifre relative ai consumi della nuova industria digitale globale sono significative.
Ad esempio, le tecnologie digitali già oggi consumano il 10% dell’elettricità prodotta nel mondo intero e, per avere un’idea delle conseguenze per il pianeta, le loro emissioni di prodotti inquinanti sarebbero quasi il doppio di quelle prodotte dall’aviazione civile.

Ma, purtroppo, non sono solo le emissioni di CO2 a recar danni all’ambiente.

Infatti, per avere un’idea complessiva degli effetti collaterali della produzione di beni o servizi, occorre valutare la quantità di risorse necessarie per la loro produzione secondo un parametro scientifico elaborato di recente noto come MIPS (Material Input Per Service). Un insieme di indici volti ad individuare “quanta natura un prodotto o un servizio sono costati, cioè il loro prezzo ambientale”, un metodo scientifico che, secondo Schmidt-Bleek, dovrebbe diventare un’unità internazionale di valore ecologico, da affiancare al prezzo di ogni prodotto, o meglio ancora, di ogni servizio.

Di solito, invece, le imprese che vogliono dar conto dell’impatto ambientale del loro prodotto si limitano a fornire informazioni sulle emissioni di CO2; ciò, spesso non esclude altre forme di consumo e di inquinamento, come quello idrico.

Dunque, per essere esaustiva, l’informazione fornita dalle imprese dovrebbe consentire la valutazione di tutte le risorse e gli strumenti impiegati, dalle risorse rinnovabili a quelle che non lo sono, dai movimenti terra all’acqua consumata, dai prodotti chimici impiegati allo smaltimento dei rifiuti, con l‘eventuale inquinamento dei terreni, delle acque e dell’atmosfera.

Un esempio per tutti che dimostra il ‘differenziale ambientale’ nella fornitura di un servizio fondamentale è quello della movimentazione di persone o merci.

I dati pubblicati dagli stessi fornitori del servizio (nel caso di specie le Ferrovie dello Stato italiane), sono indicativi delle grandi possibilità di ‘risparmio ecologico’: infatti, il raffronto fra l’impatto ambientale espresso in km. di un viaggio su rotaie rispetto a quello stesso percorso in aereo o su gomma dimostra l’importanza non solo delle scelte pubbliche, ma anche di quelle private.

La corretta informazione circa l’impatto ambientale prodotto sia dalle attività (ormai sempre più esigue che rientrano però tuttora nel bilancio dello Stato) che dai servizi pubblici (che pur essendo in gran parte affidati ad una gestione privata comportano spesso un impegno anche economico dello Stato) dovrebbe essere un aspetto fondamentale di un nuovo modo di produrre beni e servizi più rispettoso dell’ambiente.
Come afferma Jens Teubler, tra i maggiori responsabili dell’Istituto tedesco di Wuppertal per il Clima, l’Ambiente e l’Energia, “Le persone sono spesso sorprese dal divario fra l’effetto percepito e l’impatto concreto della loro decisione di acquistare un bene di consumo”.

Non è perciò un caso che in occasione del G20 di Roma appena conclusosi, sia Mario Draghi che Joe Biden – nel confermare l’impegno comune dell’Unione Europea e degli Stati Uniti per la riduzione delle emissioni inquinanti ed il sostegno anche economico ai paesi terzi, nell’insistere sull’esigenza di convincere Cina, India e Russia ad accettare tempistiche più vicine al 2050 per contenere entro 1,5° l’innalzamento della temperatura del pianeta – non hanno mancato di sottolineare il ruolo determinante del settore privato in questa sfida, e l’indispensabile cooperazione consapevole dei cittadini.

Il rilancio del multilateralismo, malgrado la partecipazione indiretta dei leader di Russia e Cina, come risulta dallo stesso documento finale del G20 di Roma, sembra “la conferma del progressivo superamento del protezionismo degli anni scorsi”; se tutto questo avrà certamente delle ricadute sul piano commerciale l’augurio è che sia la premessa per un’effettiva cooperazione pubblico/privato in materia ambientale.

Il riconoscimento delle fondate preoccupazioni espresse dalle manifestazioni (orami periodiche) di gruppi di giovani particolarmente avvertiti e sensibili ai destini del mondo e dell’umanità, richiede ormai un atteggiamento diverso degli stati e dei loro governi. La decisione di intervenire immediatamente ha trovato una parziale conferma nell’impegno di erogare 100.000.000.000 di dollari all’anno per favorire la transizione ecologica dei paesi in via di sviluppo e, per la prima volta, nell’imposizione di una global minimum tax, ovvero di “un’aliquota fiscale minima” sulle attività delle multinazionali.

Si tratta, come riportato dal quotidiano Il Messaggero del 30 ottobre scorso, di “un accordo internazionale per tassare con le multinazionali che hanno un fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro (890 milioni di dollari). Riguarda soprattutto i colossi del web come Google, Facebook, Amazon e Apple. Ma non solo. Porterebbe in dote circa 150 miliardi di dollari (127 miliardi di euro) di entrate fiscali aggiuntive a livello globale. L’accordo ha una portata enorme: obbliga le grandi aziende a pagare un’imposta in ognuno dei paesi in cui sono attive e fanno profitti (invece che beneficiare di un fisco agevolato in alcuni paesi).”.
Un impegno che, se onorato, potrebbe consentire agli stati di dar seguito alle loro responsabilità nei confronti del clima e dell’intero pianeta.
Come ha sostenuto nel suo discorso alla COP 26 il Segretario dell’ONU Antonio Guterres, se la ricerca scientifica più documentata e obiettiva afferma che l’emergenza climatica rischia di produrre una crisi caratterizzata da disastri letali, diffuse carenze alimentari, malattie respiratorie e malattie infettive che potrebbero addirittura essere peggiori del Covid 19, è innanzitutto indispensabile dirottare i sussidi dai combustibili fossili alle energie rinnovabili se s’intende davvero uscire gradualmente dal carbone.

In secondo luogo, l’alleanza degli investitori istituzionali internazionali, che si è impegnata a trasferire i propri portafogli in investimenti a “emissione zero”, dovrebbe trovare effettivi, consistenti riscontri nelle scelte degli investitori privati. Ma, senza l’apporto dei singoli individui di ogni società che, in risposta alle pressanti richieste delle organizzazioni giovanili, facciano scelte migliori e più responsabili su ciò che mangiano ed acquistano e su come viaggiano, l’obiettivo di contenimento dell’aumento della temperatura globale del pianeta nel range di un grado e mezzo non potrà mai essere raggiunto.

Carlo Amirante e Dario Catena

04 Novembre 2021

(EDITORIALE   ANPPIA  novembre 2021)

E’ l’attuale modello di sviluppo a distruggere l’ambiente – OP-ED – L’Antidiplomatico (lantidiplomatico.it)

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