Nocività, difesa ipocrita della vita e militarizzazione della salute, dall’Icmesa di Seveso (1976) all’attuale gestione della ‘pandemia’. Ravenna, 7 Maggio 2022 ore 16:30 Piazzetta Ghandi (Via Cavour).
10 luglio 1976: una nube tossica contenente diossina fuoriesce dall’Icmesa di Seveso (MI), fabbrica chimica di proprietà della svizzera Hoffmann-La Roche che, nei fine settimana, produce armi all’insaputa della popolazione. Le istituzioni impongono piani d’emergenza e stravolgono la vita di chi abita nel territorio circostante con deportazioni di massa e militarizzazione.
Quarantacinque anni più tardi, col pretesto della ‘pandemia’ da Covid-19, viene dichiarato lo stato d’emergenza su tutto il territorio italiano e un generale della Nato viene nominato ‘Commissario per la gestione dell’emergenza epidemiologica’. Ancora una volta alle questioni irrisolte sulla salute le istituzioni rispondono con misure coercitive e con la militarizzazione.
Lo spettro di Seveso
Era il lontano 2007 quando, come collettivo Maistat@zitt@, organizzammo a Milano un incontro su produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita, a partire dal disastro avvenuto a Seveso poco più di trent’anni prima.
Rileggere i dispositivi autoritari con cui le istituzioni gestirono l’”emergenza diossina” a Seveso può fornirci degli strumenti utili per comprendere il presente e liberarci definitivamente dalla narrazione tossica che da due anni ci avvelena l’esistenza e ‘militarizza’ la nostra salute.
Per questo da alcune settimane ho cominciato a girare per l’Italia proponendo un percorso di riflessione su queste tematiche che ci aiuti a comprendere come differenti percezioni del rischio possano attivare strumenti di lotta e di autodeterminazione o, all’opposto, aprire la strada a soluzioni autoritarie.
Man mano che si definiscono aggiornerò qui i prossimi appuntamenti, ma intanto vi invito a leggere l’intramontabile (purtroppo!) Topo Seveso (disponibile sul sito web).
due parole su di me
Scrivere saggi è certamente un atto individuale, ma le riflessioni sono sempre frutto di confronto collettivo. Non sono un’accademica, ma un’intellettuale militante, quindi mi è difficile tracciare delle note biografiche che non tengano conto degli incontri e delle letture che hanno segnato la mia formazione: dall’eredità della Resistenza antifascista che mi hanno trasmesso le donne e gli uomini che vi parteciparono, alle ‘perle rare’ con cui ho condiviso tratti del mio percorso.
Per questo anziché dilungarmi sulle mie note biografiche preferisco richiamare i momenti più importanti per la mia formazione intellettuale e politica. A partire da quando, adolescente, abitando accanto a Seveso e avendo vissuto da vicino la tragedia dell’Icmesa, ho cominciato a fare politica con chi cercava di far emergere la verità su quel ‘crimine di pace’ avvenuto nel luglio del ’76.
Alla fine degli anni ’70 ebbi anche il mio primo e fondamentale incontro col movimento delle donne, quindi con le pratiche di autodeterminazione e di liberazione. Da quel momento ho cominciato a fare politica soprattutto in gruppi e collettivi di donne.
Qualche anno più tardi, nell’83, mi trasferivo a Milano per studiare. All’università ho conosciuto Luciano Parinetto che, con Georges Lapassade, è stato uno dei miei più importanti ‘cattivi maestri’. Il confronto col loro pensiero, così come il rapporto di amicizia e collaborazione, è stato un vero nutrimento.
“E il lavoro?”, mi si chiederà…
Appartengo alla generazione che per prima ha cominciato a sperimentare la precarietà: dopo svariati lavori mentre studiavo all’università, per anni ho fatto ‘marchette’ intellettuali nelle accademie e attualmente sono una precaria della scuola. D’altronde il lavoro è un contesto prostituzionale, o no?
Nicoletta Poidimani