[Sinistrainrete] Giulio Calella: La buona morale non ci salverà

La scrittura «engagé», dai social network alla letteratura, adotta un linguaggio sempre più individualizzante e rivolto a rassicurare la propria «bolla». Occorre invece un vocabolario in grado «dov’era l’io di fare il noi»

Nel tempo della fine delle grandi narrazioni, il vocabolario consolidato su cui si è retto per decenni il movimento operaio si è diradato perdendo credibilità. Si tratta di un fenomeno epocale di lunga durata, iniziato almeno negli anni Ottanta del Novecento, frutto della sconfitta dei movimenti e dell’alternativa politica al capitalismo: l’epoca neoliberista ha pian piano espropriato i linguaggi degli espropriati, in un processo che ha subito un’accelerazione profonda negli ultimi quindici anni. Molte delle recenti esplosioni sociali – dai Gilet Gialli alle varie e diversificate mobilitazioni dallo stile populista – hanno mostrato caratteristiche «spurie», spesso si sono autodefinite «né di destra né di sinistra», diventando difficili da identificare in modo univoco proprio perché prive dei linguaggi e della memoria storica dei movimenti e delle tradizioni politiche.

In presenza di un ritorno dell’attivismo, seppur prevalentemente giocato sui social network, questa discontinuità discorsiva potrebbe anche essere un’opportunità di liberarsi di alcuni schemi precostituiti, ma non sembra al momento emergere un nuovo vocabolario efficace.

L’iper-politica degli influencer

Anton Jäger su Jacobin ha definito l’attuale come una fase di passaggio «dalla post-politica all’iper-politica». Ossia, le organizzazioni sociali e politiche continuano a essere impantanate nella crisi profonda iniziata più di trent’anni fa ma assistiamo a improvvise seppur poco durature esplosioni sociali di massa – basti pensare alle proteste di Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd – e a un profluvio di contenuti politici veicolati individualmente sui vari social network.

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Pasquale Noschese: Per una filosofia della geopolitica

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Per una filosofia della geopolitica

di Pasquale Noschese

catene del valore globaliChe il prestigio della geopolitica sia in rapida ascesa, è possibile constatarlo con disarmante facilità: basterebbe guardare le ultime centinaia di ore di trasmissioni televisive. Rimonta che è innanzitutto lessicale, un aspetto non proprio secondario, in quanto non possiamo pensiero oltre i confini del nostro vocabolario (citofonare ad Heidegger per un’autorevole conferma). Si tratta, peraltro, di un rarissimo caso di una “moda” terminologica che non riguardi un anglismo. Un’effervescenza culturale strettamente congiunturale o la premessa di un cambiamento reale nella nostra cultura? Per abbozzare una prima risposta di un dibattito curiosamente silenzioso, è di certo utile guardare alle necessità strutturali che si faranno incontro alla nostra collettività, e che probabilmente già costituiscono le cause remote del revival della geopolitica.

La Storia non ha fatto in tempo a finire che subito è nata la frenesia di inaugurarne il ritorno. Il 2001, il 2003, il 2008, il 2011, il 2014, il 2020 e adesso il 2022. Principali indiziati: il terrorismo, la Cina, Putin, occasionalmente il Covid. Questi annunci, per quanto ispirati dalla buona fede di svegliare l’Italia o l’Europa dal sonno dogmatico della postmodernità, sono imprecisi nel voler trovare un evento, pure simbolico, che in virtù della sua forza intrinseca riesca a folgorarci col ricordo della storia. Nessun evento (nessun “oggetto” in generale) è così gentile da regalare un’interpretazione univoca di sé: è un pregiudizio realista quello di far fede su una fantomatica evidenza epistemologica dei fatti, tanto più se si parla di avvenimenti storici. Il dramma è che abbiamo perso la capacità di conferire senso storico (e quindi strategico) agli eventi, abbiamo perso il sentimento della Storia.

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Ascanio Bernardeschi: La parabola dell’economia politica

la citta futura

La parabola dell’economia politica

III. Marx, la trasformazione del plusvalore in profitto, interesse e rendita

di Ascanio Bernardeschi

I capitalisti commisurano il plusvalore estratto non al solo capitale variabile, ma a tutto il capitale: in tal modo il plusvalore si trasforma in profitto. Avvicinandoci alla complessità del reale e alla concorrenza fra diversi capitali si vede che il plusvalore viene ripartito fra i capitalisti di tutti i comparti, produttivi e improduttivi, in ragione all’incirca proporzionale al capitale anticipato. I prezzi che ne scaturiscono differiscono dai valori, ma è la legge del valore a determinarli con le opportune mediazioni. Qui la parte I, qui la parte II

d7d4debeacc031b761decd6f6d9d20bb XLLa trasformazione del plusvalore in profitto, del saggio del plusvalore in saggio del profitto e dei valori in prezzi di produzione

Dal punto di vista dei capitalisti il risultato economico, che sappiamo scaturire dal solo plusvalore, corrispondente al lavoro non pagato, deve essere valutato in rapporto all’intero capitale anticipato e non al solo capitale variabile. Lo scopo del capitale è la sua autovalorizzazione, e la si misura confrontandola con tutto il capitale. Diviene perciò, da quel punto di vista del capitale, cruciale il saggio di incremento del capitale, ΔD/D. Il plusvalore, in quanto rapportato all’intero capitale prende così la forma di profitto e l’efficienza delle imprese è misurata dal saggio del profitto, cioè il rapporto fra i profitti realizzati e tutto il capitale anticipato. Tale rapporto è espresso dalla seguente relazione

r=pv/(c+v) (1)

dove r è il saggio del profitto, c il capitale costante, v il capitale variabile, e il profitto in questa fase dell’analisi viene identificato con il plusvalore, pv. Questa relazione produce l’illusione che tutto il capitale, e non solo la forza-lavoro, contribuisca a produrre profitti.

Essendo questa la misura del rendimento di un capitale, i capitalisti cercheranno di investire i loro capitali nei settori che consentono di realizzare il maggiore saggio del profitto, che comporta, a parità di valore del capitale anticipato, anche maggiori profitti assoluti. Questa tendenza fa sì che accresca la competizione fra i capitali allocati nei settori maggiormente profittevoli, con un conseguente aumento dell’offerta di prodotti di quei settori, determinando una tendenza alla diminuzione dei valori di mercato dei rispettivi prodotti e quindi dei corrispondenti profitti e un aumento in quelli dove invece la competizione va diminuendo.

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Claudio Conti: Grosso guaio a Wall Street

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Grosso guaio a Wall Street

di Claudio Conti

Crollano le borse, a cominciare da quella statunitense, e fioccano le interpretazioni.e spiegazioni di breve periodo sono quasi scontate.

Innanzitutto l’inflazione, che continua a martellare su economie stressate da due anni di pandemia e dallo scoppio di una guerra che rischia di diventare mondiale (anche se lo è già, seppur sottotraccia).

Ieri il dato di aprile relativo alla Gran Bretagna – +9% – ha accompagnato quello per l’intera Unione Europea (-7,4%, come a marzo). Il che suona a conferma di un lungo periodo di prezzi in crescita, cui inevitabilmente – prima o poi – dovrebbero associarsi tensioni sociali per quantomeno adeguare salari e pensioni al costo della vita.

Un effetto implicito del peso dell’inflazione è già evidente: le relazioni trimestrali sui profitti delle catene di distribuzione Usa registrano un tracollo dei profitti come conseguenza delle vendite in calo. Ovvio: se i prezzi aumentano e i salari no, i consumatori stringono la cinghia. Target e Walmart, due delle maggiori catene commerciali, in soli tre giorni hanno perso a Wall Street rispettivamente a -29% e -17%.

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Fabio Mini: L’escalation è una polveriera

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L’escalation è una polveriera

di Fabio Mini

Il discorso di Putin del 9 maggio aveva gelato i guerrafondai nostrani e riacceso le speranze dei pacifisti in una sospensione del conflitto. La missione del nostro presidente del Consiglio a Washington ha riacceso le speranze dei primi e gelato i secondi. Il colloquio tra Biden e Draghi ha escluso qualsiasi ripensamento sulla condotta della guerra per procura che gli Stati Uniti stanno conducendo contro la Russia. Non c’erano dubbi, ma ha ulteriormente chiarito che questo genere di missioni “diplomatiche” non può avere lo scopo di una sommessa perorazione della pace mentre la guerra è in atto e si garantiscono ulteriori sanzioni, nuovi invii di armi all’ucraina e soldati ai confini. Il Parlamento americano ha espresso ancor più chiaramente la volontà americana di proseguire la guerra fino all’ultimo ucraino e Biden si è occupato di procedere alla liquidazione garbata o rude dei leader alleati fino all’ultimo Draghi.

La macchina è avviata La battaglia è pronta a continuare fino all’ultimo ucraino e Biden liquiderà i leader alleati fino all’ultimo Draghi.

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Rosso Malpelo: Business as usual

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Business as usual

di Rosso Malpelo

Il solo capitalismo finanziario non può sorreggere l’intera economia, eppure dall’inizio del nuovo millennio è stato proprio il capitalismo finanziario, quello delle speculazioni di borsa ed in particolar modo sui derivati, a trainare i profitti dei grandi investitori mondiali e quando nel 2008 è scoppiata negli USA la bolla dei mutui sub-prime causando il fallimento della Lehman Brothers (uno di quei grandi investitori) si è rischiato che venisse giù tutto il castello di carta del capitalismo finanziario. Le banche centrali sono quindi corse a sostegno di quel castello, creando migliaia di miliardi di dollari, euro, yen e sterline, a sostegno del sistema, aggiungendo così altra carta al castello di carta traballante, nella speranza di mantenerlo ancora in piedi. Giacché una parte marginale di quella carta finisce anche nell’economia reale sotto forma di prestiti ed investimenti alle imprese che producono qualcosa di concreto, ovvero beni e servizi. La creazione di un’enorme quantità di moneta a debito, come attualmente avviene tramite il sistema bancario, ha logicamente condizionato i tassi di sconto applicati dalle banche centrali, portandoli praticamente a zero e, come previsto da Keynes, il sistema è entrato nella trappola della liquidità.

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Stefano Garroni: Contro la guerra!

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Contro la guerra!

Sono utili i criteri morali per comprendere una guerra?

di Stefano Garroni

Spesso è stato osservato quale ruolo nefando stia giocando l’informazione rispetto alla Guerra del Golfo [1]. I critici non tanto ne sottolineano l’unilateralità e la non attendibilità, quanto la densità ideologica: che le notizie dai fronti di battaglia siano sottoposte a censure preventive e a deformazioni interessate può addirittura essere comprensibile e opportuno (per esempio, rispetto a esigenze diplomatiche e militari). Ciò che indigna è, invece, la pertinace, “totalitaria” utilizzazione dell’informazione per costruire l’opinione pubblica (cioè, delle larghe masse) intorno ad alcuni concetti non semplici ma rozzi, non precisi ma netti, non plausibili ma indiscussi.

In realtà, tale indignazione, in un certo senso, è ingiustificata: è assai probabile (a esser cauti) che un analogo imbarbarimento culturale caratterizzi ogni guerra (anche non guerreggiata), in particolare nell’epoca moderna, se non altro a partire dalla Prima guerra mondiale – intendo da quando il conflitto ha assunto carattere totale, da quando l’assassinio di massa coinvolge indifferentemente soldati e civili, e da quando il reale teatro dello scontro militare non è che l’aspetto più evidente e drammatico di un coinvolgimento in realtà universale (e questo è, appunto, anche oggi il caso).

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Federico Fioranelli: Il conflitto in Ucraina e gli oligarchi statunitensi

lantidiplomatico

Il conflitto in Ucraina e gli oligarchi statunitensi

di Federico Fioranelli*

Riceviamo da Fosco Giannini, direttore di Cumpanis, e con grande piacere rilanciamo…

720x410c50yrdfgSolamente la mancanza di adeguati strumenti interpretativi o una lettura superficiale della realtà possono portare a credere alla versione che ci viene fornita dai principali canali di informazione del nostro Paese e a non capire che il conflitto in Ucraina affonda le proprie radici nell’economia di guerra permanente degli Stati Uniti e nella natura oligarchica del capitalismo statunitense.

Gli Stati Uniti hanno un sistema di capitalismo che è possibile definire “oligopolistico”. Esso è un sistema che non rispetta i principi della concorrenza perfetta e che poggia sulle corporation, vale a dire sulle grandi e grandissime imprese.

Dato che le grandi corporation sono in grado di imporre il prezzo di vendita dei loro prodotti, negli Stati Uniti i prezzi tendono ad essere più rigidi verso il basso che verso l’alto e il soprappiù economico, cioè la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo, tende ad aumentare nel tempo sia in cifra assoluta sia come quota della produzione complessiva.

Tuttavia è evidente che, pur avendo la tendenza a generare quantità sempre maggiori di sovrappiù economico, un sistema di capitalismo oligopolistico non riesce sempre a creare gli sbocchi di consumo e d’investimento necessari per assorbirli. Ne consegue che un sistema di questo tipo sia caratterizzato da crisi e dalla tendenza a cadere nella stagnazione. Infatti, il mancato assorbimento del sovrappiù economico crea un vuoto di domanda che rende potenziali e non reali i profitti, genera perdita di reddito e impedisce la piena utilizzazione del lavoro e degli impianti produttivi.

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Pier Giorgio Ardeni: Ucraina, 2022: la fine dell’Europa e della globalizzazione

lafionda

Ucraina, 2022: la fine dell’Europa e della globalizzazione

di Pier Giorgio Ardeni

Pignatelli ottobre 2019defVoci sparse emergono dall’assordante barrage bellicista a reclamare la pace, il “cessate il fuoco”. Nell’imperiosa richiesta di prendere parte pare di dover fare ammenda, ricordarci che, sì, siamo figli di partigiani che “non avrebbero mai accettato di arrendersi, nemmeno al prezzo della loro vita”. Perché “ora la guerra è qui, nel cuore dell’Europa”, non in qualche remoto angolo di mondo dove si ammazzano con cannoni made in Italy, perché è una guerra “a difesa della democrazia” e, quindi, “dobbiamo fare qualcosa, non possiamo stare con le mani in mano e assistere al massacro”.

Ma il mondo occidentale, ce lo ricorda Slavoj Žižek, “stands for nothing”, si batte per il niente che nemmeno la sua ipocrisia sa nascondere. Fingendo di non sapere che la “lumpen-borghesia” che è emersa nelle ex-repubbliche sovietiche – in Russia come in Ucraina – controlla i capitali grazie alle privatizzazioni dei beni statali, ottenuti perlopiù da ex-gerarchi del partito dopo il crollo e grazie alla terapia-shock del passaggio all’economia di mercato. Da noi voluta e sulla quale anche noi abbiamo lucrato (ma il mercato non è “morale”, no?).

In tutti questi anni abbiamo fatto lauti affari con quelli, da una parte e dall’altra del lungo confine russo-ucraino sulle pianure sarmatiche. Ci abbiamo comprato non solo gas e petrolio, ma grani e fertilizzanti. L’Ucraina è un paese che dopo lo smembramento dell’Urss ha perso un quarto della popolazione, con un reddito medio che è un quarto di quello UE, popolato secondo linee di demarcazione storiche: nelle province (oblast) orientali, a maggioranza russa e russofona, in quelle occidentali con grosse minoranze polacche o rumene.

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Antonio Pagliarone: La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna

sinistra

La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna

di Antonio Pagliarone1

Introduzione al volume La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna, Asterios editore, Trieste 2022

ISBN LA LOTTA DI CLASSELa pubblicazione di questi articoli, come COVID-19 e la catastrofe del debito delle corporation in arrivo di Joseph Baines e Sandy Brian Hager, La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna di Julius Krein un commentatore che pubblica regolarmente su America Affair, è utile per introdurre nel dibattito una immagine del capitalismo moderno degli Stati Uniti che non viene assolu­tamente presa in considerazione dalla stragrande maggioranza degli osservatori del vecchio continente anche da quelli ritenuti più affidabili. Sin dai primi anni del nuovo millennio sono stati fatti dei tentativi per stimolare una riflessione su quella che a suo tempo alcuni di noi, pochissimi in effetti, definivano la “finanza speculativa”. Uno dei primi studiosi che hanno analizzato la di­namica dello Speculative Capital fu Nasser Saber, che pubblicò nel 1993 con questo titolo il primo di una serie di volumi per le edizioni Financial Times Management. Naturalmente non esiste alcuna traduzione dall’inglese dei suoi lavori ma essi si rivelarono utilissimi per poter approfondire in maniera empirica la trasfor­mazione del capitalismo verificatasi in maniera intensiva dopo il 200112, anno che rappresenta lo spartiacque tra due ere: quella del capitalismo classico e quella del capitale speculativo che ha pro­dotto i suoi guai peggiori con la Great Recession del 2007-2008 dalla quale a quanto pare non riusciamo assolutamente ad uscirne. Krein presenta un quadro della cosiddetta “finanziariz­zazione” che risulta interessante nelle sue caratteristiche generali, ma i presupposti avanzati per spiegare la dinamica della finanza speculativa non sono così precisi anche se il risultato d’insieme è efficace.

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Pierluigi Fagan: Strategia USA

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Strategia USA

di Pierluigi Fagan

Continuiamo la nostra ricerca intorno al problema più volte qui segnalato ovvero l’apparente sproporzione tra l’ambizione che traspare nei piani americani e la forza effettiva dell’amministrazione Biden.

Quanto all’ambizione, non v’è dubbio che l’attuale amministrazione si sia data compito strategico di ampia portata ovvero fare i conti col destino apparentemente inevitabile di un ordine multipolare che annullerebbe ogni vantaggio sistemico per gli Stati Uniti. Fin qui nulla di particolarmente nuovo, il nuovo potrebbe essere nel modo di perseguire l’obiettivo o forse un nuovo molto antico. Nell’ambito del pensiero strategico americano, si è a lungo ritenuto la Cina il competitor a cui gli USA dovevano guardare. Alcuni realisti hanno anche prospettato come utile una “strategia Kissinger” che riproponesse il vecchio “divide et impera” applicato al tempo di Nixon, quando uno dei più conservatori presidenti americani venne portato a Beijing a stringere la mano addirittura a Mao Zedong, pur di separare comunisti cinesi da quelli russi che ai tempi erano il nemico principale.

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Donatella Di Cesare: Aria di squadrismo “democratico” contro chi dissente

fattoquotidiano

Aria di squadrismo “democratico” contro chi dissente

di Donatella Di Cesare

In questi ultimi giorni, per via di vari segnali, ho ripensato alle parole di Carlo Rovelli che, da posizioni analoghe alle mie su questa guerra, ha detto che tira una brutta aria riconoscendo l’impossibilità di intervenire nello spazio pubblico. Lo dimostra anche la polemica innescata da Furio Colombo che stimo da sempre e che è un caro amico, di cui però non comprendo il rifiuto di scrivere su queste pagine a fianco di Alessandro Orsini. Leggo le righe denigranti e ostili che Aldo Grasso mi dedica sul Corriere della Sera mentre sono in Svizzera per un meeting di filosofia, dove tengo una conferenza dal titolo “I filosofi e gli esperti. Un conflitto nella polis”. Anche in altri Paesi europei si discute sulla controversa e un po’ inquietante figura dell’esperto. Perché se le competenze sono indispensabili, gli esperti che si presentano con dati e tabelle su questioni politiche come la guerra rischiano di deresponsabilizzare i cittadini e minare la democrazia. L’antidoto al potere degli esperti è la filosofia, con la sua capacità radicale di guardare a un’alternativa, di indicare una visione ampia. Ciò che manca oggi alla politica.

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Riccardo Paccosi: Pandemia, guerra, ancora pandemia

theunconditional

Pandemia, guerra, ancora pandemia

Come e perché occorra spezzare la catena riproduttiva delle emergrenze

di Riccardo Paccosi

L’emergenza bellica e la sua propaganda, non hanno funzionato. Dopo tre mesi, la maggioranza della popolazione continua a essere contraria alla politica guerrafondaia del governo e, soprattutto, è nauseata dal fatto di essere costretta a vedere la faccia di Zelensky ovunque e a qualsiasi ora. Viene da ipotizzare che se la propaganda atlantista fosse stata più sobria e meno ossessiva, il risultato avrebbe potuto essere diverso.

Come però dimostra la scarsa partecipazione alle manifestazioni di piazza da quando la guerra è cominciata, siamo di fronte a un dissenso ch’è soltanto tacito e passivo. Probabilmente, un dissenso dovuto al fatto che l’argomento Ucraina non ha per ora effetti tangibili sulla quotidianità delle persone.

In altre parole, l’opposizione alla propaganda di guerra non sta indicando un raggiunto grado di autonomia e consapevolezza del popolo rispetto alle narrazioni del potere, ma solo una distanza cognitiva da questo specifico tema emergenziale. Temo che la veridicità di questa tesi, ebbene, sarà presto certificata dalla nuova emergenza pandemica inerente al cosiddetto vaiolo delle scimmie.

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Velio Abati: L’intellettuale marxista Franco Fortini

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L’intellettuale marxista Franco Fortini

di Velio Abati

In nessun altro tempo, come nell’attuale di drammatica accelerazione, è più difficile prendere pubblicamente parola, se lo fai nel registro del letterato. Infatti di fronte all’odierno scarto storico che, come accade negli eventi tellurici, è di colpo fatto esplodere dalla tensione accumulatasi sotto l’euforia della globalizzazione seguita all’implosione sovietica, tutto modificando per un’intera epoca dell’umanità, misuri davvero, sulla tua carne, la pluralità e l’asincronia, anzi l’attrito insolubile dei tempi che attraversano l’individuo come la collettività. In che modo, ti chiedi, parlare – per dirlo alla Fortini – dell’aggressione russa all’Ucraina, dello scontro con la Nato della seconda potenza militare mondiale – un presente solfureo che brucia ogni altra dimensione – mentre scrivi di letteratura? Sai solo che il tuo dovere è cercare la verità e che essa è sempre dalla parte di chi ne è espropriato.

In questa occasione mi aiuta il volumetto di Giuseppe Muraca (L’integrità dell’intellettuale. Scritti su Franco Fortini, Ombre corte, Verona 2022, p.122, euro 12,00). Consta, ci spiega La breve premessa, di articoli e note scritti nell’ultimo trentennio, i più vecchi dei quali sono stati “rivisti e in parte modificati”.

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Andrea Fumagalli: Il salario minimo e il harakiri dei sindacati italiani

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Il salario minimo e il harakiri dei sindacati italiani

di Andrea Fumagalli

Quando si è in tempi di emergenza, prima quella sanitaria ora quella bellica, i/le lavorator* non se la passano bene. Lo sanno i bene i/le lavorator* ucraini. Ma lo sanno bene anche i/le lavorator*, precari e non, in Italia.

Negli ultimi mesi, il tasso di inflazione ha raggiunto un valore medio su base annua in Europa del 7,5%. Secondo i dati Eurostat, l’incremento medio dei salari è stato del 3%. Ciò significa che il potere d’acquisto si è ridotto di 4,5 punti.

Tali valori, tuttavia, variano da paese a paese. Vediamo come.

L’anno scorso (2021) in Francia il salario minimo è aumentato tre volte (complessivamente del 5,9%), e i sindacati si sono posti l’obiettivo di arrivare a 2 mila euro al mese. In Spagna il salario minimo ha raggiunto i mille euro e le mensilità sono 14. In Portogallo, il sindacato ha chiesto un aumento da 705 euro al mese a 800. In Germania per gli 85 mila lavoratori delle acciaierie, il sindacato IG Metall sta cercando di ottenere un aumento dell’8,2%, e intanto i chimici-farmaceutici hanno ottenuto una ‘una tantum’ da 1400 euro. In Danimarca il sindacato Fnv sta cercando di fare aumentare il salario minimo da 10 a 14 euro all’ora. In Lussemburgo e a Cipro, i salari sono agganciati all’inflazione.

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