Gen. Fabio Mini: “La linea del Dniepr, i ponti abbattuti e la vittoria lontana”

Sarà il caldo, ma mentre la guerra prosegue a ritmi gelidamente cinici la situazione in Ucraina appare sempre più grave ma sempre meno seria, come direbbe Ennio Flaiano. L’arrivo tanto atteso delle armi americane non ha migliorato le possibilità di vittoria ucraina ma aumentato la capacità di colpire a distanza di relativa sicurezza qualsiasi tipo di obiettivo, militare e civile in Ucraina. La parte di esercito che gli inglesi stanno addestrando non sarà pronto abbastanza presto e comunque non sarà in grado di dare una svolta risolutiva al conflitto. Eppure Zelensky mostra i muscoli e parla di vittoria certa. Dopo aver annunciato la mobilitazione di un milione di uomini ha mandato al fronte la moglie. Al fronte vero, quello americano. La moglie di Zelensky in prima linea alla Casa Bianca, al Congresso e sulle copertine delle riviste glamour si è presentata con il pacchetto di munizioni che fanno sempre centro sulle donne del potere americano: la falsa modestia e i “bambini”.

Eppure sappiamo qualcosa della leadership ucraina e poco o nulla del popolo ucraino. Di certo è un popolo martoriato e disorientato la cui voce è filtrata e soppressa dalla propaganda o dalla repressione ultranazionalista. Come al popolo russo era stata annunciata una “operazione speciale” limitata e transitoria, a quello ucraino è stata annunciata la vittoria certa non tanto per la resistenza popolare quanto per l’assistenza, da lontano, di tutto il mondo che “conta”. Questo popolo comincia a non capire più cosa sta succedendo e il presidente eletto per “servire il popolo” ora se ne serve per scaricare su altri le proprie velleità e i fallimenti. Del diluvio di miliardi di dollari ed euro rovesciati sull’Ucraina nemmeno una goccia ha raggiunto il popolo. Il debito ucraino aumenta vertiginosamente e viene spacciato per aiuto umanitario. Di fatto l’Ucraina è da tempo incapace di pagare gli interessi sui debiti contratti prima della guerra. È già in default tecnico e l’aumento degli “aiuti” la ridurrà al fallimento. La promessa della vittoria è corredata da quella della ricostruzione che renderà l’Ucraina “più bella e forte che pria”. La vittoria sarà certa perché l’Ucraina sta salvando il mondo fornendo grano. Ma è stato fatto notare che l’accordo voluto da Onu e Turchia prevede anche lo sblocco del grano russo e comunque neppure assieme potranno risolvere un problema che era evidente già prima della guerra. Un problepaio che durante la guerra ha soltanto spostato il profitto da uno speculatore all’altro, alla faccia del mondo in crisi alimentare.

Il popolo ucraino non capisce perché saltino fuori all’improvviso le faide interne al governo e le purghe di centinaia di funzionari traditori. Il popolo ricorda benissimo che lo stesso Zelensky è divenuto ostaggio di una fronda estremista interna dopo il primo discorso d’insediamento. Se oggi crede veramente in quella fronda o è spaventato a morte o è vittima della sindrome di Stoccolma e si è innamorato del sequestratore. Il popolo ucraino ricorda bene ciò che hanno fatto i russi agli ucraini ma sa anche che tutti i paesi confinanti, a partire dalla Polonia, rivendicano brandelli di Ucraina. Il popolo comincia a sospettare che appunto l’Ucraina sarà fatta a brandelli. A partire dal Donbass. Zelensky in questo è stato chiaro: farà saltare tutti i ponti sul Dniepr e i russi “dovranno passarlo a nuoto”. Strano ragionamento per chi prevede di riconquistare tutti i territori ucraini finora perduti. Ma fa caldo e se ora Zelensky avverte i russi che dovranno superare il grande fiume a nuoto significa che dà già per scontata l’occupazione dell’Ucraina ad est del fiume. Vale a dire della metà più ricca e industrializzata del paese. Non è un buon segnale da lanciare al popolo che però è talmente stanco della guerra da rassegnarsi anche all’occupazione russa. Il popolo conserva la memoria lunga del proprio paese molto più dei suoi capi politici. Il popolo disorientato ricorda che quel fiume non ha mai impedito alle truppe d’invasione di avanzare. In un senso o nell’altro. E invece il suo attraversamento, vero o presunto, è stato sempre un segnale di grande forza. Nel 1966 le forze del Patto di Varsavia effettuarono una esercitazione corazzata che prevedeva il “forzamento” del fiume, vale a dire il superamento sotto il fuoco avversario. All’esercitazione “Dniepr 66” parteciparono migliaia di carri armati e furono ammessi ad assistere tutti gli addetti militari stranieri acma creditati a Mosca. Fu uno choc: in un mattino rigorosamente dopo colazione e prima di pranzo gli osservatori videro all’orizzonte orientale le formazioni di migliaia di mezzi corazzati avvicinarsi a tutta velocità al fiume articolate in colonne distanziate di un chilometro una dall’altra. I capi carro fuori torretta e le bandierine di unità sventolanti sulle antenne radio. A qualche centinaio di metri dalla riva la marcia rallentò di poco, i capicarro e i piloti chiusero le botole e spuntarono gli snorkel delle prese d’aria dei motori. I carri proseguirono in acqua, s’immersero fino all’altezza delle bandierine e approdarono sulla riva opposta riprendendo la corsa verso ovest. Gli addetti militari saltarono il pranzo e si affrettarono a inviare cablo e descrivere l’azione.

Nacque da quel momento la sindrome dell’invasione sovietica “da Mosca alla Manica in quarantotto ore”. La dottrina strategica cambiò e fu previsto il ricorso alla guerra nucleare. Le forze della Nato e statunitensi si attrezzarono per la difesa su linee successive con l’intenzione di rallentare l’avanzata nella consapevolezza che non sarebbe stato possibile arrestarla. Il V e VII corpo d’armata americani schierarono unità e mezzi pre-posizionati in corrispondenza delle “soglie” naturali, da Trieste a Stettino. Le divisioni di Fort Carson, Colorado e di Fort Hood, Texas erano in grado d’intervenire in trentasei ore contro lo sfondamento. Gli aerei da trasporto erano già pronti al salto dell’atlantico e della Groenlandia per il rimpiazzo delle forze alleate europee annientate. Spuntarono le proposte delle prime forme di “difesa non provocatoria” e controllo degli armamenti. Dieci anni dopo (1976) le scuole di guerra occidentali ancora proiettavano ai frequentatori il film della “Dniepr 66” realizzato non dai russi ma dalla Nato, come esempio della minaccia alla quale contrapporsi. Dopo quasi altri dieci anni (1984) un profugo ebreo russo che da sottotenente di complemento aveva partecipato all’esercitazione come capo carro scrisse un libro nel quale spiegava che il superamento del fiume era stato possibile grazie alla costruzione di ponti sommersi in corrispondenza dei vari punti di attraversamento. I carri avevano solo i piloti, i capi carro erano tutti ufficiali o allievi ufficiali. La minaccia non era poi così potente, ma aveva raggiunto lo scopo e ancora dieci anni dopo (1992) la Cia pubblicava l’annuale rapporto sulla strabiliante potenza militare dell’Unione Sovietica. Che nel frattempo era stata sciolta. Fino ad oggi la Russia non ha mai pensato di attraversare il fiume Dniepr e invadere il resto dell’Ucraina: le forze e le tattiche finora usate non lo consentono. Questa eventualità è sempre stata paventata dalla propaganda dei paesi occidentali e dell’Ucraina tesi a mobilitarsi e cercare un pretesto per la guerra contro la Russia, a prescindere dall’Ucraina. Ma non è detto che la Russia continui a pensarla allo stesso modo. Inoltre, non è detto che l’occidente sia pronto o voglia sacrificarsi per l’Ucraina al primo russo che nuota nel Dniepr, magari solo perché fa caldo.

Fabio Mini (da Il Fatto Quotidiano – 2 agosto 2022)

La linea del Dniepr, i ponti abbattuti e la vittoria lontana – Il Fatto Quotidiano

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