Il 6 agosto 1945 alle ore 8:15, un aereo statunitense sganciò la bomba all’uranio Little Boy sulla città giapponese di Hiroshima.
In dieci secondi quella bomba rase al suolo tutto ciò che si trovava nel raggio di 2km, 70 mila persone morirono all’istante. Quella tempesta di fuoco avanzava ad una velocità di 800km/h. Chi morì subito fu tra i fortunati, possiamo dire dei privilegiati. Chi sopravvisse per pochi minuti, scottato da un caldo torrido e colpito da una tempesta radioattiva si gettò nel fiume che però ribolliva come una pentola.
Non c’era alcun motivo per perpetrare questo crimine maledetto, il più grande che la storia abbia mai visto. Hitler e Mussolini non c’erano più, il Giappone era sulla strada della resa, le parole pronunciate da Churchill in quella occasione sono chiare ed inequivocabili: “Sarebbe un errore supporre che il destino del Giappone fu suggellato dalla bomba atomica. La sua sconfitta era certa prima che fosse sganciata la prima bomba”.
In realtà quelle bombe furono sganciate per due motivi:
-Per dimostrare di essere in possesso di quelle armi in virtù dell’antagonismo tra USA e URSS che a Washington stavano già pianificando.
-Per giustificare l’immensa spesa per il progetto Manhattan da cui nacque quella maledetta bomba.
Da quel 6 agosto in poi, gli USA sono diventati un’economia di guerra permanente, sottomettendo il mondo intero a colpi di bombe democratiche pur di mantenere la loro egemonia.
Lo hanno fatto sulla pelle di poveri innocenti, con arroganza e presunzione, continuano ancora oggi a farlo e non prendono in considerazione per un domani l’idea di fermarsi.
Non hanno mai chiesto scusa per i loro crimini, il presidente Obama, premio Nobel per la pace, è stato il primo a visitare Hiroshima qualche anno fa, non ebbe l’umanità di chiedere perdono tantomeno scusa.
Loro sono così, e noi se andremo dietro ai loro capricci diventeremo come loro!
Hot dog, patatine, coca cola e bombe…
Giuseppe Salamone
06/08/2022
“Ho visto un ragazzo di circa dieci anni a piedi. Portava un bambino sulla schiena. In quei giorni in Giappone, spesso abbiamo visto i bambini che giocavano con i loro piccoli fratelli o sorelle sulle loro spalle, ma questo ragazzo era chiaramente diverso. Si vedeva chiaramente che era venuto in questo posto per una ragione seria.
Non indossava scarpe. Il viso era contratto. La piccola testa del bambino (sulle spalle) era piegata come se fosse addormentato. Il ragazzo stette lì per cinque o dieci minuti. Poi gli uomini in maschera bianca gli si avvicinarono e cominciarono tranquillamente a togliere la corda che legava il bambino. Allora ho visto che il bambino era già morto. Gli uomini presero il corpo per le mani e i piedi e lo adagiarono sul fuoco. Il ragazzo era fermo, immobile, fissava le fiamme. Stava mordendo il labbro inferiore così forte che brillava di sangue. La fiamma bruciava bassa come il sole che scendeva. Il ragazzo si voltò e se ne andò in silenzio”.
Con queste parole Joe O’Donnell, fotoreporter americano inviato dall’esercito statunitense a documentare le conseguenze che le due bombe atomiche avevano avuto sulla popolazione e sulle strutture nipponiche, raccontò una delle immagini simbolo della tragedia che colpì il Giappone dopo il 6 e il 9 agosto 1945.
Per sette mesi, a partire da poco dopo la fine delle ostilità, Joe viaggiò documentando macerie, morti, cremazioni, orfani, feriti, menomati. Alla fine della sua esperienza, nella quale raccolse centinaia di immagini durissime, si convinse che usare l’atomica era stata una scelta sbagliata nonostante la resistenza e i crimini compiuti dal Giappone imperiale nel corso di una criminale guerra d’invasione.
Solo una ventina di anni fa O’Donnell decise di rendere pubblici molti degli scatti che aveva conservato per tutta la vita. Più volte prima di morire si espresse contro le bruttezze della guerra.
Difficile tuttora quantificare i morti, i feriti e le conseguenze sul lungo termine dello scoppio dei due ordigni. Le cifre dei decessi variano da un minimo di 150.000 persone ad un massimo di 250.000. Per i feriti si parla di almeno 100.000 persone. Ancora oggi molti pagano sul proprio corpo e su quello dei propri figli o nipoti le conseguenze di quell’esplosione.
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