Andrea Zhok – 04/09/2022
Da lettore di Salgari, in giovane età ho sempre amato l’immagine dei pirati malesi che assaltavano con giunche o “prahos” malfermi le poderose cannoniere britanniche. Di solito per finire fatti a pezzi, ma talvolta riuscendo nell’abbordaggio, dove sul ponte, nel corpo a corpo, il vantaggio tecnologico britannico si dissolveva e la partita si apriva.
Era una fascinazione giovanile, istintiva e naturalmente ingenua. Anni dopo, divenuto consapevole di cosa avesse significato l’imperialismo britannico e la “Compagnia delle Indie” (la prima corporation privata che, letteralmente, possedeva delle nazioni), quell’immagine ha acquisito una nuovo significato, non più meramente letterario.
In effetti quella era la forma romanzata di una delle dinamiche di fondo degli ultimi due secoli: la conquista e sottomissione imperiale del mondo da parte di quella parte dell’occidente che, alle soglie di ciò che chiamiamo “modernità”, aveva goduto di un vantaggio tecnologico iniziale. E il mondo conquistato non era solo esterno, in paesi lontani, ma anche interno, con la distruzione sistematica di forme di vita rurali, comunitarie, stratificate.
Si tratta di una storia fondamentalmente di sopraffazione, militare prima, economica poi, infine culturale. Tutte le tinteggiature di nobili intenti civilizzatori, del “fardello dell’uomo bianco” sono propaganda e ideologia autogiustificativa, che cercava di fare un’antica operazione: spiegare che il dominatore era tale per ragioni altissime e nobilissime, che niente avevano a che vedere con il volgare fatto di avere protempore un randello più grosso.
Naturalmente, chi volesse farsi davvero portatore di istanze di civiltà, ritenendole intrinsecamente superiori, dovrebbe recarsi “nudo” e cercare di instaurare relazioni di dono e non di sfruttamento, relazioni tra pari. Lo fecero alcuni missionari, e una parte ebbe anche qualche successo.
L’Occidente ha invece chiesto che la propria superiorità civile e morale venisse ammessa entusiasticamente da tutti con una canna di fucile puntata in faccia.
Quella storia, e così veniamo all’oggi, non è mai finita. È semplicemente continuata dopo il 1945 con il subentrare dei cugini americani all’impero britannico, e con la rimodulazione del potere, da controllo militare diretto a controllo indiretto, economico, culturale, e militare solo quando gli altri due fallivano.
Oggi però una parte dei paesi che allora erano stati sottomessi hanno imparato a difendersi, hanno recuperato il vantaggio tecnologico che inizialmente li metteva in condizioni di inferiorità sul piano della forza (e solo su quello), e si apprestano a rispondere (la Cina, ad esempio, ha una perfetta consapevolezza di quanto accaduto, ne ha sofferto amaramente per due secoli e ora sta reagendo).
Il quadro che si profila, il quadro cui si sta preparando l’impero americano, è quello di un conflitto senza esclusione di colpi per la preservazione del proprio potere. È importante capire che la cultura americana, e questo è un dato storico profondo, è improntata ad un atteggiamento di aggressività predatoria sin dalle origini (gli indiani ne sanno qualcosa). Non è un caso che l’animale simbolo degli USA sia un rapace (l’aquila), mentre quello della Russia e della Cina siano due tipi di orso (uno carnivoro, l’altro vegetariano). Si tratta di autoidentificazioni conformi a miti fondativi, che definiscono e rinforzano un “carattere nazionale”.
Chi oggi si trova ad assaltare le cannoniere con giunche e prahos non sono più i pirati delle ex colonie (o almeno non tutti). Sono soprattutto le minoranze interne ai paesi occidentali, che percepiscono il pericolo di un incombente scontro totale e cercano di scongiurarlo, nel nome di un’idea di convivenza, rispetto, autodeterminazione. E per questo atteggiamento visceralmente antiimperialista queste minoranze vengono attaccate nella neolingua giornalistica come “nazionalisti”, “rossobruni”, “sovranisti”, ecc.
Anche questo è parte del fuoco delle loro cannoniere.
Ma noi aspettiamo il momento di trovarci corpo a corpo sul ponte.