[Sinistrainrete] Enrico Tomaselli: L’anno che verrà

Rassegna del 6/12/2022

 

 

Enrico Tomaselli: L’anno che verrà

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L’anno che verrà

di Enrico Tomaselli

Se, al momento del ripiegamento russo sulla riva sinistra del Dniepr, era sembrata aprirsi una finestra di possibilità per un cessate il fuoco, i missili ucraini sulla Polonia l’hanno chiusa. Non solo perché hanno confermato, ancora una volta, l’oltranzismo del governo di Kyev, ma perché la reazione dei paesi occidentali – USA in testa – se pure è stata assai più cauta e ragionevole, ha mostrato con chiarezza che la NATO non intende affatto deflettere dai propri obiettivi bellicisti. Ecco perché l’anno che sta per arrivare potrebbe essere decisivo per la guerra.

Il Generale Inverno

La stagione attuale è probabilmente la peggiore, dal punto di vista dell’impatto meteorologico sulle condizioni di combattimento. Piogge e nevicate sulle pianure ucraine rendono il terreno paludoso, con gravi implicazioni per la mobilità dei mezzi corazzati, mentre i trinceramenti si trasformano in canali di scolo. Non è quindi il momento migliore per aspettarsi grandi battaglie di movimento o fulminee avanzate dall’una o dall’altra parte.

Ciò nonostante, i combattimenti sono assai attivi e sostanzialmente segnalano l’iniziativa russa lungo la linea del fronte del Donetsk e Lugansk. In particolare nel settore centrale si segnalano una serie di successi tattici delle forze armate russe in direzione di Bakhmut, che stanno conquistando uno dopo l’altro alcuni villaggi intorno alla cittadina, al cui interno da alcune settimane si combattono aspramente gli ucraini (con fortissime perdite, nell’ordine di oltre 200 uomini al giorno) ed i militari della PMC Wagner.

L’eventuale caduta di questa città fortificata, aprirebbe la strada ad una spinta in profondità delle forze russe, costringendo probabilmente gli ucraini ad arretrare di alcuni chilometri, sino alla successiva linea difensiva fortificata, lungo la direttrice Slovyansk-Kramatorsk.

Da parte ucraina, benché il ripiegamento russo da Kherson abbia sostanzialmente liberato almeno 50.000 uomini del contingente sud delle forze armate di Kyev, che possono essere spostate su altri settori più caldi (in effetti c’è un continuo affluire di truppe, da lì verso Bakhmut), nonostante numerosi contrattacchi – falliti – in vari settori, non sembra al momento evidenziarsi un serio tentativo di organizzare una offensiva più massiccia ed incisiva.

Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, al fronte aspettano tutti l’arrivo del Generale Inverno. Con l’abbassamento delle temperature, infatti, i pantani ghiacceranno, il terreno si indurirà, restituendo maggiore mobilità alle forze corazzate.

Ma in questa fase il problema maggiore per gli ucraini non è sul fronte, ma nelle retrovie. La campagna sistematica di distruzione delle infrastrutture energetiche sta infatti mettendo in ginocchio il paese. Non si tratta ovviamente solo degli aspetti più appariscenti, come le città al buio, senza riscaldamenti, acqua e telefonia mobile – tutte cose che richiedono energia elettrica per funzionare – né dell’impatto che tutto ciò può avere sulla popolazione, ma delle ricadute dirette sulla capacità di combattimento. Il calo drastico nella distribuzione di energia ha conseguenze importanti anche per le forze in prima linea.

C’è una ridotta capacità operativa delle strutture ospedaliere, dove vengono ricoverati i feriti. C’è una forte incidenza sulla logistica, officine di riparazione e produzione industriale bellica da un lato, capacità di trasporto ferroviario per uomini e mezzi dall’altro. La capacità o meno di fronteggiare gli attacchi missilistici e con droni kamikaze in profondità, diventa dunque cruciale per la capacità di resistenza anche militare.

Inoltre emerge con sempre maggior evidenza che le forze armate ucraine hanno un problema di manpower; che non è tanto quantitativo, ma qualitativo. Pur avendo mobilitato già oltre un milione di uomini (e donne: secondo lo stato maggiore di Kyev sono 50.000 quelle impegnate in servizio attivo), ed anche al netto delle pesantissime perdite subite – nell’ordine di 2/300.000, tra caduti, feriti e prigionieri – pur disponendo di una considerevole forza d’urto, deve fare i conti con la scarsa efficienza di combattimento.

Il problema ha origine da alcune problematiche insormontabili. La prima, più ovvia, è che la stragrande maggioranza degli uomini in servizio ha avuto un addestramento veloce e sommario, ed è arrivata al fronte senza esperienza di combattimento. Inoltre, le forti perdite subite hanno costretto Kyev a rimpinguare le perdite delle unità con i coscritti, cosa che a sua volta ne ha determinato un calo di capacità operativa. La seconda, deriva dall’esaurirsi del materiale bellico ex-sovietico, e dall’incidenza sempre maggiore di quello occidentale – oltretutto assai eterogeneo, provenendo da oltre 30 paesi diversi. Si tratta infatti di armamenti che hanno una diversa concezione, e che spesso richiedono un’elevata capacità tecnica da parte del personale addetto, impossibile da erogare in tempi brevi.

In termini strategici, a questo problema la NATO sta cercando di porre rimedio, da un lato col programma di addestramento da parte dei paesi dell’UE (che però riguarderà 15.000 uomini, una goccia nel mare), e dall’altro col crescente uso di mercenari; dopo la fase iniziale della Legione Internazionale, in cui prevalevano una sorta di idealismo e di voglia d’avventura, adesso siamo in presenza di un ben pianificato flusso di militari esperti, spesso provenienti da forze speciali, che transitano dalle forze armate ad alcune compagnie private operanti in coordinamento con i comandi NATO, e vengono dislocati nei settori più delicati del fronte ucraino. Si tratta prevalentemente di polacchi, statunitensi, inglesi, ma anche rumeni.

Di fatto, la NATO è già in campo con i suoi uomini, oltre che con i suoi mezzi e la sua intelligence, ma non ufficialmente. Anche se le perdite cominciano ad essere elevate, rispetto alla consistenza dei reparti (1.200 caduti polacchi), ad ulteriore riprova che svolgono incarichi di prima linea.

La guerra della NATO

Dal punto di vista dell’Alleanza Atlantica, la guerra sta diventando un problema. Per un verso, sta mettendo in evidenza alcune criticità strutturali – che a loro volta sottolineano dei grossi errori di valutazione precedenti il 24 febbraio – e per un altro la difficoltà di uscirne senza perdere. Se pure per gli USA non perdere è sempre una vittoria (o almeno così amano raccontarsela e raccontarla al mondo intero), in questa fase del conflitto è assai complicato congelare i combattimenti senza che appaia evidente la vittoria russa. Anche perché, appunto, l’interesse americano non è per una chiusura definitiva della partita (che significherebbe affrontare e risolvere, insieme a Mosca, una serie di questioni assai spinose: adesione o meno alla NATO dell’Ucraina e sicurezza in Europa sopra tutto), ma semplicemente sospenderla per il tempo necessario a tirare il fiato, tenendo la brace accesa sotto la cenere, in modo da poterla nuovamente attizzare appena necessario.

A rendere impraticabile questa possibilità, sono essenzialmente due fattori: la situazione sul terreno, troppo sbilanciata in favore della Russia, e la diffidenza russa. Putin ha detto chiaramente che aver a suo tempo accettato gli accordi di Minsk è stato un errore, perché la controparte voleva solo prendere tempo per tornare all’offensiva. In un certo senso, quindi, la NATO è in questa fase incastrata nel conflitto, e non avendo opzioni possibili per procedere nella direzione auspicata, deve per forza di cose insistere sulla via del confronto sul terreno, sperando che si realizzi una congiuntura favorevole che consenta – appunto – di fermare la giostra senza perdere la faccia. Il principale – ma non unico – ostacolo, è però di natura materiale, non politica o strategica.

Anche se l’Alleanza deve fare i conti con i paesi europei, sempre più incerti e sempre meno coesi, in cui le spinte dal basso si sommano alle crescenti preoccupazioni del mondo economico, attualmente il suo problema principale è il livello di consumo di materiali nella guerra. Mentre per un verso la Russia mostra una capacità pressoché intatta della produzione bellica, nonché una considerevole vastità degli arsenali, gli oltre trenta paesi occidentali che stanno supportando Kyev sono ormai quasi tutti arrivati alla canna del gas. Gli arsenali si sono svuotati, spesso le stesse disponibilità operative sono state intaccate, ma il conflitto fagocita armamenti ad una velocità ben superiore alle capacità produttive dei paesi NATO.

In particolare, ad essere pericolosamente carenti sono le forniture di munizionamento per l’artiglieria – nella guerra ucraina, entrambe le parti ne fanno un uso elevatissimo. Anche se l’industria bellica statunitense si è già messa in moto per recuperare il gap, prima che la produzione raggiunga i livelli necessari a ripianare le dotazioni dei vari eserciti, a metterli a loro volta in condizione di poter eventualmente sostenere una simile guerra d’attrito, e continuando al contempo ad alimentare la voragine ucraina, presumibilmente ci vorranno molti mesi, se non più di un anno.

Tra l’altro, va sottolineato che l’industria bellica americana – che è quella destinata ad impegnarsi maggiormente – è completamente privata, e prima di investire in un rilancio produttivo chiede garanzie sui volumi di acquisto, e sulla durata delle commesse. E quindi la lobby delle armi, soprattutto una volta che la produzione sarà a regime, eserciterà la sua influenza affinché il conflitto – quindi il business – si prolunghi il più possibile.

Uno snodo decisivo

Sul breve termine, quindi, dovendo necessariamente tenere aperto il conflitto, la NATO si trova di fronte al problema di come rispondere alle tre esigenze fondamentali dell’Ucraina: una rete di sistemi anti-missile, per difendersi dagli attacchi in profondità delle forze Aerospaziali russe; una crescente quantità di personale combattente qualificato ed esperto; un inesauribile rifornimento di munizioni per l’artiglieria.

Al primo problema, la NATO finirà probabilmente per rispondere fornendo alcuni sistemi anti-missile all’Ucraina. Inevitabilmente, però, saranno pochi (in quanto anche costosissimi) e quindi scarsamente efficaci. Va tenuto presente che la Russia, a parte i droni kamikaze (che hanno un costo bassissimo e vengono utilizzati massivamente), in questa guerra ha già lanciato quasi 5.000 missili a lunga gittata, con una media aritmetica di meno di 500 al mese; se poi consideriamo il fatto che in realtà la campagna massiccia è in atto solo da un paio di mesi, questa media sale di molto. Inoltre, gli attacchi missilistici sono portati sia utilizzando lanciatori mobili, sia dalle navi della flotta del mar Nero, sia dall’aviazione; e generalmente utilizzando una tattica micidiale.

Innanzi tutto, ogni attacco viene portato utilizzando un numero ridondante di vettori, rispetto alla quantità di obiettivi prefissati, in modo da saturare la difesa anti-missile. Ad una prima ondata di missili, segue in genere una seconda di droni. E soprattutto, c’è sempre qualche missile anti-radar. I sistemi anti-missile della difesa, infatti, funzionano in base all’identificazione del vettore per mezzo di un radar, ma appena questo viene acceso il missile anti-radar lo identifica e va a colpirlo. Gli ucraini, infatti, ormai tendono a risparmiare i sistemi rimasti, e li accendono solo quando è conveniente. Quindi, per quanto più efficienti, i sistemi occidentali non potranno che migliorare leggermente la situazione – a pressione russa invariata…

Al secondo problema, quello degli uomini sul terreno, è difficile trovare soluzione, perché da un lato è sempre più difficile ripianare perdite così elevate, e dall’altro aumentare indefinitamente il numero di personale militare non ucraino sul campo rischia di coinvolgere direttamente la NATO nel conflitto – cosa che l’Alleanza non vuole assolutamente.

Il terzo problema, come s’è visto, richiederà del tempo per essere risolto – e la quantità di questo tempo è a sua volta dipendente da svariati fattori (velocità di risposta della produzione industriale, quantità di consumo sul fronte, disponibilità dei vari paesi, etc).

Tutto ciò, mentre la guerra procede. Il che significa che la capacità offensiva di Kyev tendenzialmente diminuirà, mentre quella russa è destinata a crescere esponenzialmente – anche in virtù del declinare di quella ucraina.

Un’opportunità per Mosca

Nel giro di un paio di mesi, la Russia si troverà di fronte un’ampia finestra di opportunità.

Il peso dei danni infrastrutturali inferti al nemico avrà raggiunto una soglia critica. Le condizioni meteo aumenteranno le possibilità di manovra. La capacità di combattimento ucraina sarà strutturalmente calata. L’arrivo delle nuove truppe (sinora addestrate con tutta calma) porterà a disposizione di Surovykin – tra mobilitati e volontari – praticamente il doppio degli uomini.

Sino ad ora, nonostante alcune incertezze ed alcuni errori, le cose sul campo non sono andate molto male per Mosca, anzi. Ha preso stabilmente possesso della parte più ricca e strategicamente più importante dell’Ucraina, ed ha messo in sicurezza il controllo del mar Nero.

Sul piano economico ha tenuto botta, molto meglio di quanto non stia accadendo ai paesi occidentali. Sul piano diplomatico, sta inanellando un successo dopo l’altro.

Ciò nonostante, al Kremlino sono consapevoli che questa guerra ha un costo non indifferente (in senso lato), e soprattutto che il resto del mondo – Cina ed India in testa – preferirebbero che avesse fine.

Il 2023 pertanto potrebbe essere il momento in cui si può produrre il miglior allineamento dei pianeti, e giocando tra predominio sul campo, crisi nei paesi occidentali, ed offensiva diplomatica, Mosca potrebbe condurre le cose verso un cessate il fuoco nell’estate prossima. Anche se una soluzione di questo genere non è per niente facile, ha l’opportunità di giocarsi la combinazione tra due fattori.

Il primo, è che mentre la NATO può anche non vincere, la Russia non può perdere. Per la NATO, per gli USA, questa non è la madre di tutte le battaglie, mentre per la Federazione Russa è una questione esistenziale, di sopravvivenza. E di ciò sono consapevoli entrambe le parti.

Il secondo è che la NATO è disposta a portare avanti questa guerra, solo sinché è e rimane una proxy war. Se dovesse minacciare di coinvolgerla direttamente, soprattutto adesso, dovrebbe rinunciare. Pertanto se dovesse vedere concretizzarsi questo pericolo, tirerebbe il freno.

Dunque il gioco – pericoloso certo – è rendere impossibile il prosieguo della guerra in forma di guerra per procura, ovvero mettere in ginocchio l’Ucraina. Portarla ad un punto in cui proseguire la guerra sia materialmente impossibile, ed offrire una via d’uscita un momento prima che il crollo sia effettivo.

Insomma, in parole povere, mettere la NATO di fronte alla scelta se chiudere la partita o giocarla in prima persona, e farlo nel momento di massima debolezza della NATO. Diversamente, se la guerra si dovesse prolungare, la NATO avrà tempo e modo per riorganizzarsi e recuperare la piena capacità di sostegno a Kyev, mentre le pressioni da parte dei paesi terzi affinché la guerra abbia termine cresceranno sempre più. Col rischio che – domani – Mosca sia costretta ad accettare uno stop in condizioni non più di vantaggio.

Ugo Zamburru: Psicopatologia del sistema neoliberista

volerelaluna

Psicopatologia del sistema neoliberista

di Ugo Zamburru

zaiufghy1. Ho scritto, recentemente, alcune riflessioni sulla connessione ineliminabile tra la psichiatria e il sistema in cui la sua attività si colloca (https://volerelaluna.it/societa/2022/11/21/la-psichiatria-non-e-unisola). Voglio qui approfondire il ragionamento collegandolo con il dibattito in corso nel Paese.

La Società italiana di psichiatria ha dichiarato che la pandemia lascerà un’eredità di 300.000 nuovi casi, a cui le attuali risorse dei Dipartimenti di salute mentale non sono in grado di dare una risposta terapeutica adeguata. I neuropsichiatri infantili e i pediatri parlano dell’aumento esponenziale dei casi di disturbi del comportamento alimentare e di autolesionismo e lamentano l’inadeguatezza del sistema sanitario. Intanto si riaccende il dibattito tra il modello medicocentrico, su base biologica, e quello psicodinamico e sociale. Ancora una volta non ne usciamo se non caliamo l’analisi all’interno del momento politico, storico, economico e culturale.

Nel 1995 il Dipartimento di Social Medicin di Harvard pubblicò un libro (World Mental Health: problems and priorities in low-income Countries) in cui per la prima volta si definivano le malattie mentali non come semplici problemi biologici di competenza medica indipendenti dal contesto, ma come sovradeterminate da variabili sociali, economiche, politiche e culturali. Nel momento in cui le diseguaglianze sociali, la povertà, un’iniqua redistribuzione del reddito, la classe sociale, il genere, le guerre, le catastrofi climatiche sono riconosciuti come determinanti sociali e fattori di rischio importanti per la salute mentale, ci troviamo di fronte a un bivio. Possiamo considerare le malattie mentali come fini a se stesse, l’espressione di una sofferenza di natura biologica, modello riduzionista che lavora solo sul sintomo e non sulle cause, o possiamo mettere in discussione il sistema stesso.

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China Miéville: Odio mosso da amore

jacobin

Odio mosso da amore

di China Miéville

Come rapportarsi al sentimento dell’odio generato dalle crudeltà che ci circondano? Bisogna negarlo o provare a governarlo? Una riflessione, Marx alla mano, dello scrittore di fantascienza radicale China Miéville

011222 1536x560Non c’è ragione di soccombere al conforto complesso della disperazione, un rifugio nel lugubre che ci consegna alla sconfitta. Ma sottolineare i ripetuti fallimenti della sinistra è un rimedio inevitabile, data la sua storia di esaltazioni e cazzate, ed evidenziare quanto siano spaventosi e terribili questi giorni, anche se vi possiamo anche scorgere una speranza. Adottare l’approccio liberale e vedere come deviazioni Boris Johnson, Jair Bolsonaro, Narendra Modi, Rodrigo Duterte, Donald Trump, Silvio Berlusconi e i loro epigoni, il violento e intricato «cospirazionismo», l’ascesa dell’alt right, la crescente volubilità del razzismo e del fascismo, significa estrapolarli dal sistema di cui sono espressione. Trump se n’è andato, ma il trumpismo è ancora forte.

Nonostante tutto ciò, vista la recente sconfitta e lo smacco dei movimenti di sinistra nel Regno Unito e negli Stati uniti, causa di profonda depressione e demoralizzazione, questa è stata anche una fase di insurrezioni senza precedenti nelle città americane (e altrove). La storia e il presente sono oggetto di contesa.

Il capitalismo non può esistere senza una punizione implacabile nei confronti di coloro che trasgrediscono i suoi divieti spesso meschini e spietati, e di coloro la cui punizione è funzionale alla sua sopravvivenza, indipendentemente dalla «trasgressione» immaginaria. Dispiega sempre più la repressione burocratica, ma anche un sadismo appositamente congegnato, sfacciato, sopra le righe. Ci sono innumerevoli orribili esempi di riabilitazione e celebrazione della crudeltà, nella sfera carceraria, nella politica e nella cultura. Spettacoli come questo non sono nuovi, ma non sempre sono stati così «sfacciati», come dice Philip Mirowski, «fatti sembrare non eccezionali» – non sono solo una distrazione ma fanno parte di «tecniche di disciplinamento ottimizzate proprio per rafforzare il neoliberismo».

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Barbara Spinelli: Perché bluffano sulla pace ucraina

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Perché bluffano sulla pace ucraina

di Barbara Spinelli

È abbastanza incomprensibile, perché illogica, l’euforia sprigionata per qualche ora, mercoledì, dai colloqui Biden-Macron a Washington.

Si è parlato di mano tesa a Putin; di una conferenza di pace imminente, fissata per il 13 dicembre a Parigi e destinata in origine al sostegno di Kiev. Si è ipotizzato un allineamento di Biden a Macron, più incline alla diplomazia e portavoce anche se timido dei malumori popolari in un’Europa che paga gli effetti economico-sociali della guerra ben più degli Stati Uniti. Perfino nel governo italiano, che di trattative non discute mai – né con Draghi né con Meloni – si comincia a sussurrare, per tema di figurare come Ultimo Mohicano, che pace o tregua sarebbero auspicabili.

Basta ricordare alcune circostanze per capire che si è trattato, almeno per ora, di un fenomenale bluff. Da mesi esistono sotterranee trattative russo-statunitensi, ed è vero che le guerre si concludono spesso con una finale escalation, come in Vietnam. Ma resta il fatto che nelle stesse ore in cui Macron incontrava Biden, Washington annunciava nuovi invii di armi e ripeteva che Mosca dovrà rispondere di crimini di guerra in tribunali internazionali.

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Mauro Armanino: Lettere dal Sahel II

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Lettere dal Sahel II

di Mauro Armanino

 

Il padre di Cassandra e l’amico calciatore

Niamey, 13 novembre 2022. Era un nome che gli piaceva e allora suo padre l’ha chiamata Cassandra che, nella mitologia greca, era una temibile veggente mai ascoltata. Era nata in Tunisia dove prima il padre e poi la madre, entrambi della Costa d’Avorio, avevano migrato con l’idea di raggiungere l’Italia. Suo padre, cantante di professione, era partito in aereo fino a Tunisi e poi, nell’attesa di imbarcarsi, lavorava cantando da manovale nei cantieri della città. Sua moglie l’ha raggiunto con un amico e assieme, dopo la nascita della bimba, hanno più volte tentato il mare. Una sola volta sono stati riportati a terra dalla guardia costiera tunisina. Avevano speso all’incirca 1. 200 euro a persona mentre il posto per Cassandra era gratis. Le altre volte i ‘passeurs’ sono scomparsi coi soldi o le cose andavano storte. Così, visti i ripetuti fallimenti, hanno scelto di contattare l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, OIM, onde tornare al Paese di partenza, la Costa d’Avorio.

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Antonio Mazzeo: Prove di guerra anti-Iran nei cieli del Mediterraneo

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Prove di guerra anti-Iran nei cieli del Mediterraneo

di Antonio Mazzeo

Prove di guerra nucleare anti-Iran. Ha preso il via martedì 29 novembre nei cieli del Mediterraneo orientale una delle più grandi esercitazioni aeree mai effettuate congiuntamente dalle forze armate di Stati Uniti d’America e Israele. Fino a giovedì 1 dicembre i cacciabombardieri USA e israeliani simuleranno un attacco contro le centrali sospettate di concorrere al programma di riarmo nucleare iraniano.

“Caccia e aerei cisterna per il rifornimento in volo della Israeli Air Force (IAF) e di US Air Force parteciperanno all’esercitazione e simuleranno diversi scenari per far fronte alle minacce regionali”, spiega in una nota l’ufficio stampa dell’Aeronautica militare di Tel Aviv.

E’ The Jerusalem Post a rivelare il vero obiettivo dei war games. “Con le crescenti tensioni per il programma nucleare dell’Iran e le ostilità nella regione, Israele e la Repubblica islamica si minacciano reciprocamente e gli Stati maggiori dei due paesi affermano che le rispettive forze armate sono in grado di colpire gli avversari”, scrive il quotidiano.

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Alberto Giovanni Biuso: Epidemia e caduta

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Epidemia e caduta

di Alberto Giovanni Biuso

Il disastro dell’esistenza e la gloria di dominarla stanno al cuore de La Chute di Albert Camus (Gallimard, 2022; prima edizione 1956): «Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire» (p. 109).

Questa la tonalità, il suono, il significato della conversazione che in varie sere e notti Jean-Baptiste Clamence conduce con il suo interlocutore incontrato in un bar di Amsterdam, il Mexico-City. Ex avvocato del foro parigino, ora Clamence ha dato a se stesso la funzione e l’incarico di essere un «juge-pénitent» (12), un uomo che confessa di continuo di essere un dissoluto, un narcisista, un ipocrita, – un uomo ‘immorale’ insomma – ma lo fa in modo tale da costringere coloro che lo ascoltano ad ammettere la propria colpevolezza.

Questo debosciato sa che la radice di ogni possibile gioia sta nella «chair, la matière, le physique», ogni soddisfazione affonda nella pienezza del corpo (32).

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Carlo Formenti: Rileggere Lukàcs per salvare il marxismo occidentale

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Rileggere Lukàcs per salvare il marxismo occidentale

di Carlo Formenti

Il testo che segue anticipa la mia Prefazione della nuova edizione della “Ontologia dell’essere sociale” di Lukács che l’editore Meltemi manderà in libreria ai primi del 2023

15676231176Se la Ontologia dell’essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l’anno di morte dell’autore) avrebbe certamente influito sulla valutazione della grandezza di Lukács, elevandolo al ruolo di più importante filosofo marxista – e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest’opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce perché l’autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi (1); inoltre perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell’opera prima che fosse resa disponibile ai lettori (2). Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertitesi al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione (3) , e ancor più con Storia e coscienza di classe (4), un libro che lo stesso autore considerava “giovanile” e superato.

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Leonardo Sinigaglia: La crisi della “politica zero Covid” cinese: un confronto con l’Italia (e in generale l’occidente collettivo)

lantidiplomatico

La crisi della “politica zero Covid” cinese: un confronto con l’Italia (e in generale l’occidente collettivo)

di Leonardo Sinigaglia

720x410c50nhuytfgIl semplice fatto che gli stessi figuri che gioirono per i lavoratori sgomberati a colpi di idrante a Trieste e che si impegnarono nella sistematica censura di ogni manifestazione critica rispetto alla gestione pandemica in Italia siano ora impegnati nell’esaltare le proteste cinesi come “lotte per la libertà” e dare risonanza mediatica anche ad assembramenti di poche dozzine di persone avvenuti letteralmente dall’altra parte del mondo dovrebbe essere già un campanello d’allarme. Perché se si vuole comprendere veramente che cosa sta avvenendo in questi giorni in Cina non si può non tenere conto di questo fatto: una certa chiave di lettura proposta ora da media e personaggi pubblici è quantomeno strumentale, se non completamente falsata.

 

La “politica zero Covid” cinese

Prima di tutto per comprendere cosa sta accadendo in diverse città cinesi serve capire in cosa consiste la “politica zero Covid”, ossia la strategia di gestione pandemica applicata nel paese sin dai primi giorni del 2020. Questa si basa sulla constatazione che, per l’altissima densità abitativa e la disparità geografica delle risorse, la Cina non disporrebbe delle risorse sanitarie necessarie a far fronte ad una diffusione incontrollata o prolungata del virus. Ciò appare evidente andando a vedere la disponibilità di posti letto, circa 5 ogni mille abitanti, che nonostante la progressiva crescita di questi ultimi anni risultano complessivamente ancora insufficienti ai bisogni della popolazione, soprattutto nelle zone rurali.

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Dario Bassani: Il canone antioccidentale

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Il canone antioccidentale

Quali storie possono salvarci dalla pulsione ecocida del capitalismo imperialista?

di Dario Bassani

pasted image 0Quando si evoca la cultura occidentale in astratto i casi sono due. Nel primo il tono è quasi religioso. Come nelle agiografie, si compila una Legenda aurea di quelle che si ritengono le maggiori opere dell’ingegno umano, i pilastri che sorreggono la civiltà occidentale: Cartesio, Bacon, Hegel, e i tanti altri nomi che sfilano in quelle grandi parate di pensatori che sono i manuali di storia della filosofia, sono i santi laici che ci schermano da una imprecisata barbarie a venire. Se poi ci spostiamo dalle humanities alle scienze dure, ecco la meraviglia che queste dovrebbero suscitare: siamo tutti polvere di stelle, ci dicono divulgatori e immagini motivazionali. Ma ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie, e nella saggistica contemporanea si accumulano materiali per stilare una Legenda nera dell’Occidente. Secondo l’accusa, la cultura occidentale sarebbe responsabile del maggiore male dei nostri tempi: la crisi climatica.

In quest’ottica, l’estinzione a cui l’umanità sembra condannata non proverrebbe – o meglio, non proverrebbe solo – dallo sfruttamento capitalista della natura o dagli strapazzi della rivoluzione industriale. Troppo facile accusare economia e tecnologia: molto più difficile criticare le idee che hanno fornito alla civiltà occidentale un manuale di istruzioni per sterminare popolazioni, ecosistemi e per minare infine la possibilità stessa della vita umana sul pianeta. Come in una parabola, questo è l’insegnamento di La maledizione della noce moscata, il nuovo libro dello scrittore e antropologo Amitav Ghosh, edito da Neri Pozza. Il libro prosegue il percorso iniziato con La grande cecità, in cui Ghosh si domandava per quale ragione i romanzi non riuscissero a dare conto della crisi climatica senza sconfinare nella fantascienza. La maledizione della noce moscata ripercorre invece la genealogia colonialista, razzista, genocida ed ecocida del mondo contemporaneo e delle catastrofi che lo minacciano.

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Paolo Bartolini: Gli uni degli altri

sinistra

Gli uni degli altri

di Paolo Bartolini

La recente sentenza della Corte Costituzionale, che ha confermato la liceità dell’obbligo vaccinale in Italia, non stupisce. Un risultato diverso avrebbe reso pericolante l’intero assetto ideologico delle politiche emergenziali adottate da una classe di governo totalmente subalterna al pilota automatico neoliberale (tagli alla sanità pubblica e alla medicina territoriale, farmaci hi tech privati prodotti con ingente supporto economico degli Stati, polarizzazione sociale e creazione di nuovi capri espiatori, uso dei mass media funzionale alla ridicolizzazione o criminalizzazione del dissenso, colpevolizzazione paternalistica dei cittadini).

Inevitabile che, dopo due anni di dialogo congelato e di prepotenze insensate da parte delle istituzioni, la società fosse polverizzata. Sono tra quelli che non immagina possibile una rappacificazione a costo zero tra le persone, dopo le divisioni feroci che si sono venute a creare. Al contempo rifuggo nettamente la tentazione – nella quale mi pare sia caduto anche qualche prestigioso filosofo – di immaginare che larga parte dei nostri simili (quelli che non hanno colto la gravità dei fatti in corso) siano ottusi “complici” del regime.

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Redazione: La discriminazione sanitaria è legale: così parlò la Consulta

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La discriminazione sanitaria è legale: così parlò la Consulta

di Redazione

La Corte Costituzionale ha respinto tutte le undici questioni di incostituzionalità sollevate da cinque giudici del tribunale di Brescia, Padova e Catania, oltre che dal TAR della Lombardia e dal Consiglio di giustizia amministrativa siciliano, che avevano ritenuto non infondate le motivazioni dei sanitari, docenti e amministrativi che, essendosi rifiutati di fare da cavie alla sperimentazione criminale dei pericolosissimi farmaci genici sperimentali (e per nulla sperimentati, come la stessa Pfizer ha dovuto ammettere, prima di essere iniettati a milioni di ignari cittadini) denominati ‘vaccini Covid’, sono stati privati del diritto al lavoro e sospesi per mesi senza percepire stipendio. Soltanto per aver fatto valere un proprio elementare diritto.

Così parlò la Consulta presieduta da Silvana Sciarra: «La Corte ha ritenuto inammissibile, per ragioni processuali, la questione relativa alla impossibilità, per gli esercenti le professioni sanitarie che non abbiamo adempiuto all’obbligo vaccinale, di svolgere l’attività lavorativa, quando non implichi contatti interpersonali.

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Franco Romanò: Il rimosso della storia. Violenza di stato e sociale al tempo del patriarcato capitalista

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Il rimosso della storia. Violenza di stato e sociale al tempo del patriarcato capitalista

di Franco Romanò

Il testo che segue è la trasposizione scritta del mio intervento al convegno che si tenne a Barranquilla in Colombia nel 2019 ed è stato pubblicato nel libro bilingue (castigliano e italiano) a cura di Eva Gerace, dal titolo La psicoanalisi e la sua causa nel tempo del non ascolto, pubblicato da Città del Sole edizioni.

L’uso che faccio della parola rimozione o rimosso della storia non ha nulla a che vedere con il concetto analitico, fra l’altro controverso per via della traduzione in italiano del termine freudiano. L’uso che qui faccio della parola rimozione si riferisce alla storia e alla politica e con tale termine intendo nominare quei processi di cancellazione della memoria storica che il potere tende sempre a mettere in atto e a cui resistono le narrazioni altre che cercano invece di porle al centro discussione.

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La categoria del rimosso non appartiene solo alla clinica psicoanalitica ma può essere estesa alla storia. Le diverse forme attuali di violenza, alimentate dalle politiche economiche e di potenza, oppure le manifestazioni più efferate che nascono nel tessuto sociale devastato dalle politiche neoliberiste, non sono spiegabili soltanto con le dinamiche dei conflitti attualmente in corso, ma sono il precipitato di antiche ferite mai risolte che riappaiono improvvisamente.

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Andrew Korybko: Il divieto del Mali di tutte le ONG finanziate dalla Francia difenderà la sua democrazia dall’ingerenza di Parigi

marx xxi

Il divieto del Mali per tutte le ONG finanziate dalla Francia difenderà la sua democrazia dall’ingerenza di Parigi

di Andrew Korybko

Il governo di transizione del Mali ha appena vietato tutte le ONG finanziate dalla Francia come parte della sua ultima mossa di “sicurezza democratica”, questo concetto si riferisce all’ampia gamma di tattiche e strategie di controguerra ibrida per difendere i modelli nazionali di democrazia dalle minacce straniere. In questo caso, Bamako si è finalmente resa conto che i gruppi legati finanziariamente al suo ex colonizzatore funzionano in realtà come quinte colonne per organizzare una Rivoluzione Colorata e addestrare i terroristi a condurre una guerra non convenzionale.

I legami tra Mali e Francia si sono deteriorati da quando l’anno scorso sono saliti al potere elementi antimperialisti e multipolar-patriottici delle forze armate del Paese dell’Africa Occidentale, con una tendenza che si è accelerata nel corso dell’estate, dopo che la leadership militare ha iniziato a respingere con forza tutte le forme di neo-imperialismo. Diventando pionieri regionali, hanno scatenato l’ira dell’egemone in declino, che a sua volta ha cercato di destabilizzarli appoggiando gli stessi gruppi terroristici che Parigi aveva combattuto in precedenza.

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