Sergio Leoni: “Come finira’ il capitalismo?” Anatomia di un sistema in crisi

Sinistra in Rete – Rassegna del 12/12/2022

Sergio Leoni: “Come finira’ il capitalismo?” Anatomia di un sistema in crisi

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di Sergio Leoni

Nel punto interrogativo del titolo di questo libro è già espresso il senso e il tema che l’autore sviluppa in più di trecento pagine fortemente argomentate, di lettura chiara ma non facile e che dunque richiede una buona dose di volontà di comprendere tesi che oggi, rispetto al “senso comune”, appaiono quantomeno eccentriche se non eretiche.

L’autore, secondo le stringate note nella terza di copertina , è “sociologo ed economista tedesco”. Direttore emerito del Max Planck Institute for the Study of Societes di Colonia. Membro dell’ Accademia delle Scienze di Berlino e Corresponding Fellow della British Academy”.

Qualcosa di più è possibile sapere su questo autore attraverso i soliti canali (wikipedia in questo caso): ha studiato nella Università Goethe di Francoforte, negli anni in cui l’omonima scuola di Horkeimer e Adorno è stata al centro o comunque parte essenziale del dibattito filosofico e politico a cavallo degli anni 60/70.

In ogni caso, questo testo si colloca del tutto al di fuori di quello che è stato, negli ultimi decenni, un mainstream cui si sono adeguati, in maniera più o meno convinta, la gran parte degli storici, dei filosofi, degli economisti. Senso comune, detto in parole povere, secondo cui, con la caduta del muro di Berlino, con la fine, evidentemente più dichiarata che effettivamente realizzata, della guerra fredda, il modello capitalistico, non solo occidentale ma perfino “mondiale”, sarebbe diventato il solo e unico scenario, l’unico modello economico possibile, l’unica forma di strutturazione della società, l’unica e definitiva “visione del mondo”.

Fukuyama arrivò addirittura a parlare, nel suo “La fine della storia e l’ultimo uomo” della fine, appunto, di quel meccanismo complesso, talvolta difficilmente decifrabile, che è rappresentato dalla dialettica costante e senza fine dei rapporti umani che chiamiamo normalmente “lo studio della storia”. Quello stesso meccanismo che gli storici considerano il loro campo di studio specifico, ma che è anche campo di riferimento per altra discipline, a partire dalla filosofia con la sua pretesa, spesso fondata, di saper sintetizzare gli epifenomeni in un quadro leggibile e duraturo.

Gli avvenimenti che si sono susseguiti, intanto, già a ridosso della caduta del muro di Berlino, ma soprattutto negli anni successivi, hanno fatto diventare questa proposizione, a dir poco semplicistica, più un auspicio che una obiettiva analisi, e ha finito per collocarsi nell’ambito di tesi suggestive di autori che godono di una effimera notorietà per un breve periodo e sono poi inesorabilmente consegnati all’oblio; oppure, e forse è un destino ancora peggiore, sono ricordati, in senso negativo, per aver del tutto sbagliato analisi e previsioni.

Streeck, in qualche modo, smonta la struttura di questa vulgata che, Fukuiama a parte, vorrebbe il capitalismo vincente a livello mondiale in una realtà in cui questo stesso capitalismo sarebbe l’unica struttura possibile, destinata ad essere l’unica forma possibile di organizzazione della società.

Ora, non si può certo dire che Streeck ribalti in maniera aprioristica queste improbabili posizioni, con quella che sarebbe, tra l’altro, e a sua volta, una altrettanto rigida e infondata lettura della realtà.

Il suo modo di procedere, al contrario, è del tutto piano e razionale, guarda ai dati, si esprime attraverso proposizioni che hanno nella logica la loro essenza e il loro fondamento.

Alla base del suo pensiero, e comunque ben presente come premessa, pare di cogliere un dato che dovrebbe essere razionale e condiviso e che, al contrario, viene puntualmente ignorato: in tutta la storia dell’umanità che conosciamo (e ne conosciamo la stragrande maggioranza), nessuna struttura politica, sociale, economica, è durata per sempre. Ognuno dei grandi epifenomeni, sociali, economici e politici, hanno invariabilmente avuto un inizio e una fine. E semmai si sono solo potuti distinguere tra loro per il tempo in cui si sono consolidati e poi sono invariabilmente finiti. L’unica distinzione sarebbe dunque la “durata”

La storia, quella che chiunque abbia fatto un minimo di scuole, è piena di esempi che sostengono e rafforzano questa evidente tesi. Citiamo solo un paio di esempi, eclatanti del resto: l’impero romano, della cui fine molti soggetti in anni che si spingono fin dentro all’alto medioevo, ma anche oltre, non si sono potuti rassegnare e hanno coltivato il sogni impossibile di una sua rinascita; le monarchie europee, l’impero Austro Ungarico, l’Impero Ottomano, la Germania di Guglielmo II,tutti crollati all’indomani della sconfitta patita sui campi “dell’inutile strage” della Prima Guerra Mondiale.

Si potrebbero del resto fare altri moltissimi esempi.

Ma qui conviene forse porsi una domanda di non poco conto.

Se tutto è destinato a finire (e vedremo presto che questa idea è quantomeno “imprecisa”), in che modo è possibile conciliare il senso “comune”, che sembra più uno slogan che una reale analisi della realtà, con la percezione vissuta dal singolo individuo come una “impossibilità”, un cambio di orizzonte di cui sente di non poter essere partecipe, che gli sembra appartenere ad una dimensione a cui egli stesso non ha accesso? La realtà, nel senso comune, appare immutabile. La “storia” sembra appartenere ad un ambito che in nessun modo può coinvolgere il singolo individuo, se non nel senso di costringerlo a scelte che forse non avrebbe, nella maggioranza dei casi, voluto affrontare.

Ora, la tentazione di fare paragoni, creare parallelismi tra avvenimenti anche molto lontani nel tempo, continua, non senza ragione in certi casi, a informare una lettura della realtà secondo cui la storia dell’umanità si riprodurrebbe sempre uguale a se stessa, salvo cambiare ogni volta la “forma” con cui si presenta.

Le cose, una avvertita storiografia lo sostiene da tempo, sono un po’ differenti.

Provo a dirlo con un esempio.

Nel 1971 la casa editrice di Bologna, “Il Mulino”, edita un testo uscito nell’allora Unione Sovietica nel 1958: “Popolo e movimenti popolare nell’Italia del ‘300 e ‘400”. L’autore , Victor Rutemberg, era al tempo professore di Storia italiana e di Storia medievale all’ Università di Leningrado.

La tesi di fondo di questo libro, che presto divenne nell’ambiente universitario, e non solo, un testo di riferimento per tutti coloro che volevano “leggere” la storia in un’ottica non conformista ma al contrario attenta a tutti i legami, sotterranei o apertamente espressi, che sembravano diventare evidenti in un momento storico in cui si “rivedeva” in maniera fortemente critica la storia nel suo insieme, appariva in quegli anni decisamente “alternativa”.

Rutemburg sostiene in questo libro, che è diventato a suo modo un classico per una fetta non insignificante di studiosi, come i singoli episodi lotta nel Medioevo italiano, su cui spicca per importanza e a cui giustamente sono dedicate molte pagine del volume quella del “tumulto dei Ciompi” di Firenze, sono altrettanti episodi di quella che si potrebbe considerare già a pieno titolo come esempi di “lotta di classe”. Naturalmente, e non solo per ragioni di spazio, sto semplificando una tesi che ha sfumature molto più sofisticate e un corso logico che apparve ai suoi tempi, e peraltro sembra ancora avere, una sua logica stringente e fortemente motivata.

Sono restio, se non altro per ragioni anagrafiche e di frequentazione di quello che apparve a suo tempo come un libro davvero innovativo rispetto ad una presunta cultura ingessata, a criticare la tesi di fondo del libro. Che è quella, ripeto, secondo cui nella storia universale alcuni episodi appaiono anticipatori, se non prodromici, a quelli che poi saranno i grandi movimenti che si svolgeranno in un futuro più o meno lontano.

E’ decisamente suggestivo credere che il tumulto dei Ciompi sia stato uno dei primi atti rivoluzionari. Lo è altrettanto, con questo criterio, credere che la rivolta di Spartaco ai tempi della repubblica romana, abbia rappresentato una sorta di embrione rivoluzionario.

Qualcuno ha detto che ogni analogia è falsa.

Forse, più semplicemente, le analogie non riescono a decifrare l’attualità. E non converrebbe piegare fatti storici, di cui peraltro l’analisi e la critica non può essere mai univoca, alle esigenze di una attualità che, in qualche modo, è troppo piegata sul presente e manca del “campo lungo” di cui ci sarebbe, viceversa, grande necessità.

La tesi di fondo di Streek, che parte da un’ analisi della grande crisi finanziaria del 2008, è che, brutalmente, il capitalismo ha in sé tutti gli elementi, tutte le condizioni per autodistruggersi. La sua stessa esistenza, in una situazione “normale”, vira inevitabilmente verso “la catastrofe”. L’unico modo per salvare se stesso, l’unica via, è quella della “crisi”. Delle crisi, per essere più precisi, che costellano la storia del capitalismo fin da quando esso si è imposto come un sistema pervasivo e totalizzante.

“Infatti”-scrive Streek- “la storia del capitalismo moderno può essere interpretata come una successione di crisi a cui il capitalismo è sopravvissuto solo al prezzo di profonde trasformazioni delle sue strutture economiche e sociali, che lo hanno salvato dalla bancarotta in modi imprevedibili e spesso involontari”.

Ancora: “Alla luce dell’instabilità intrinseca delle società moderne fondate e plasmate dinamicamente da un’economia capitalista, non c’è da meravigliarsi se le teorie del capitalismo, dal momento in cui il concetto fu adoperato per la prima volta all’inizio del 1800 in Germania e alla metà del medesimo secolo in Inghilterra, si sono sempre prefigurate anche come teorie della crisi. Ciò vale non solo per Marx ed Engels, ma anche per scrittori come Ricardo, Mill, Sombart, Keynes, Hilferdink, Polaniy e Schumpeter, che si aspettavano tutti, in un modo o nell’altro, di assistere, nel corso della loro vita, alla fine del capitalismo”.

Anche perché, occorre aggiungere, il rapporto tra il sistema capitalistico e le strutture politiche degli stati è stata tutt’altro che lineare e costante.

In realtà, nota l’autore, “Il capitalismo, un modo non violento e civilizzato di auto-arricchimento materiale attraverso lo scambio di mercato, ha dovuto districarsi dal feudalesimo in alleanza con l’anti-autoritarismo liberale e con i movimenti popolari per la democrazia. Tuttavia, l’associazione storica tra capitalismo e democrazia è sempre stata un’associazione scomoda segnata, soprattutto nei periodi precedenti, da un forte sospetto reciproco”.

Tesi da cui sembra di poter evincere che il capitalismo in quanto tale può servirsi di diversi sistemi politici, secondo convenienza, secondo le sue esigenze che, evidentemente, non coincidono con quegli stessi sistemi politici e con le leggi che li governano, e verso cui ostentano un totale disprezzo.

E infatti: “Alla fine degli anni 60, divenne chiaro che il capitalismo e la democrazia non potevano operare fianco a fianco senza minarsi più o meno efficacemente a vicenda”.

“Infine- scrive ancora Wolfgang Streek, – studiare il capitalismo contemporaneo significa studiare una stile di vita, nonché un ordine sociale storico, una cultura e una politica”.

Siamo di fronte, mi pare, ad una affermazione che, seppure non possa essere certo considerata una novità, pure va ribadita come estremamente importante. Il capitalismo informa ormai con i suoi “metodi” l’intera società in ogni suo aspetto, sia esse economico, culturale, artistico: insomma “politico” nel senso più nobile del termine.

La consapevolezza di questa pervasività, a parte gli esempi dei grandi rivoluzionari che sono in qualche modo sempre un passo avanti rispetto alla coscienza collettiva, diviene evidente, perché si rende esplicita senza infingimenti, negli anni del secondo dopoguerra e soprattutto, come già accennato, alla fine degli anni sessanta. Ma, una volta di più, non siamo di fronte ad una consapevolezza collettiva e condivisibile, ma più semplicemente, ad una presa di coscienza che ha riguardato soltanto alcune minoranze; significative, ma pur sempre minoranze.

Minoranze, anche oggi, fortemente osteggiate non solo dalla cultura politica mainstream ma anche da tutte quelle sedicenti opposizioni che non sanno o non vogliono scientemente leggere una fase politica che non è certo difficile interpretare per quello che è: un passo indietro rispetto a ogni singola conquista faticosamente ottenuta nei decenni precedenti. In Italia gli esempi sono così eclatanti che non vale neanche la pena di citarli. Nel resto dell’Europa di Maastricht, una critica profonda non è stata mai avviata se non da gruppi fortemente minoritari.

I temi, gli interrogativi, le questioni che questo prezioso libro propongono sono difficilmente esprimibili nell’ambito di un semplice articolo che ha solo la pretesa di essere uno stimolo alla lettura di un libro che, se non mi sbaglio, non ha avuto in nessun modo il rilievo e la risonanza che merita. Se questo sia un segnale ulteriore della capacità del sistema capitalistico di neutralizzare ogni dissidenza, ed eventualmente di banalizzarla, è questione che appare fin troppo chiara e testimonia come una società strutturata sul modello capitalista non ha, per quanto molti pensino in contrario, quella finezza, quella capacità di interpretare la cultura corrente e , eventualmente, di criticarla. Non per nulla le politiche culturali degli stati governati e comunque tenuti sotto tutela dal sistema capitalistico, sono essenzialmente “conservative”, laddove non apertamente “regressive”, facendo il paio, del resto, con le altrettanto politiche repressive riguardanti sfere come la sessualità, maternità e questioni inerenti.

Il libro, infine, dedica poi non poche pagine alla questione dell’introduzione dell’Euro e degli effetti che questa nuova moneta ha creato non solo in ambito finanziario ed economico, ma anche, e soprattutto, in un ambito che l’economia conosce solo tramite le statistiche e che è invece, più prosaicamente ma spesso drammaticamente, la vita reale delle persone.

Scrive infatti Streek: “Nonostante l’idea europea-o meglio l’ideologia-l’euro ha spaccato l’Europa in due. Come motore di un’unione sempre più stretta, il bilancio della moneta è stato disastroso.

E infine, nel capitolo “Come studiare il capitalismo contemporaneo”, l’Autore scrive: “Il fatto che il capitalismo rivoluzioni permanentemente le società in cui vive è ancorato al suo tessuto istituzionale, in particolare alla legittimità che conferisce alla concorrenza-al privare i propri pari dei loro mezzi di sostentamento superandoli- e all’assenza di un tetto al legittimo guadagno economico”.

Privare i propri pari dei loro mezzi di sostentamento: ne vediamo le conseguenze ogni giorno, e ad ogni latitudine.

 

Leo Essen: La Legge del Valore-(Lavoro) in Nietzsche

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La Legge del Valore-(Lavoro) in Nietzsche

di Leo Essen

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Nietzsche(1) non è un pensatore della Differenza. Che Nietzsche non parta dalla Differenza tra Forte e Debole, Aristocratico e Plebeo, Piacere e Dispiacere, eccetera, oppure, tra Causa ed Effetto, Libertà e Necessità, etc, è smentito in Al di là del bene e del male – a partire dal titolo.

Il difetto del pensiero della Differenza, dice Nietzsche, sta in ciò: che si finisce per porre Atomi a sostegno dei Differenti – ovvero delle Sostanze – si finisce nella Metafisica.

Un pensiero – scrive in Aldilà, 17 – viene quando è «lui» a volerlo. [E non quando lo vuole un «io penso», in quanto subjectum, sostrato, sostanza].

Un pensiero viene quando è «lui» a volerlo e non quando «io» lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto «io» è la condizione del predicato «penso». [Le virgolette e i corsivi sono di Nietzsche, e hanno il loro peso, evidenziano la raffinata precauzione di Nietzsche].

Esso pensa [in corsivo. Nemmeno il flebile «esso», l’impersonale «esso» va bene, perché mira sempre a una sostanza, dunque anche «esso» è una falsificazione dello stato dei fatti.

Come cavarsi fuori da questo pasticcio se anche «Esso» rimanda ad una sostanza, falsificando lo stato dei fatti?

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Nucleo comunista internazionalista: Questa guerra mondiale in fieri

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Questa guerra mondiale in fieri

di Nucleo comunista internazionalista

arton132549Una delle domande di fondo se non la domanda a nostro avviso di fondo a cui i rudimentali punti di orientamento qui sotto esposti cercano di rispondere è la seguente: quale è il carattere della presente guerra mondiale in fieri nella quale l’umanità è inesorabilmente trascinata e di cui è parte la guerra al momento localizzata in terra ucraina in quanto scontro armato fra la Nato-braccio armato dell’Occidente collettivo e la Russia-“ariete apripista” di un nuovo assetto “multipolare” del capitalismo mondiale?

Riguardo questo aspetto della guerra che evidentemente appare ed è centrale, la domanda può essere posta più precisamente:

essa ha o può avere un carattere progressivo dal lato delle potenze statali russa e cinese (e dietro ad esse il Sud globale del mondo) in quanto colpo di grazia vibrato all’egemonia imperialista dell’America e dell’Occidente collettivo e quindi guerra anti-imperialista che i rivoluzionari devono appoggiare; oppure essa è una contesa armata fra Stati per una diversa e “più equa” ripartizione del potere capitalistico globale, quindi guerra inter-capitalistica da sabotare da ogni lato statale dei belligeranti?

Può essere utile allo scioglimento del rebus anche prendere in esame lo storico discorso pronunciato il 30 settembre dal presidente Putin (che fa il tris con quelli, altrettanto storici, del 21 e del 24 febbraio su cui abbiamo detto in uno scritto precedente: https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o55248:e1) in occasione dell’annessione alla Russia delle quattro provincie sudorientali di un’Ucraina che non esiste e non esisterà più per come era configurata prima il 24 febbraio.

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Pierluigi Fagan: Dilemmi multipolari

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Dilemmi multipolari

di Pierluigi Fagan

Inizia oggi la tre giorni di Xi Jinping in Arabia Saudita. Raro Xi prenda l’aereo e vada fuori il suo Paese. La visita si articolerà in tre giorni e tre riunioni: bilaterale, Cina e Paesi del Golfo, Cina a Paesi arabi. la composizione di quest’ultimo non è al momento chiara. Vediamo in breve il significato.

Il primo e più importante è il venirsi a formare di due modelli di relazioni internazionali. Da una parte quello centrato sugli USA che di recente sembra propendere per una astiosa contrapposizione contro tutti coloro che non uniformano alle forme del modello lib-dem e dall’altra tutti gli altri. Questi altri procedono condividendo relazioni economiche e finanziarie di mercato, in modalità “doux commerce” à la Montesquieu. La formula delle relazioni bilaterali tra questi Paesi è “il rispetto per la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale e la non interferenza negli affari interni reciproci” che è il focus di IR cinese ma che già lo fu alla fondazione settanta anni fa del forum dei paesi non allineati, una configurazione terza rispetto alla contesa tra i due blocchi della guerra fredda che i più si dimenticano di considerare nelle analisi su gli ultimi settanta anni di storia.

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Claudio Conti: Xi Jinping nel Golfo, cambia l’equilibrio del mondo

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Xi Jinping nel Golfo, cambia l’equilibrio del mondo

di Claudio Conti

Nel silenzio assoluto dei media occidentali – quelli italiani non fanno più informazione da anni – oggi Xi Jinping è in visita di Stato in Arabia Saudita e ci resterà fino al 10 dicembre.

In contemporanea o quasi si sta tenendo il primo vertice tra Cina e Stati Arabi. Per capirne l’importanza l’agenzia Xihnua ricorda che a Doha, capitale del Qatar, lo scintillante Lusail Stadium, dove è in corso la Coppa del Mondo FIFA 2022, è stato progettato e costruito congiuntamente da Cina e Qatar.

Nelle strade del Paese 3.000 autobus ecologici di fabbricazione cinese garantiscono “un trasporto ecologico per l’evento e un’esperienza di viaggio ecologica per i tifosi di tutto il mondo”.

E’ ovviamente inutile e persino un po’ stupido mettersi ad ironizzare sull’”impegno ecologico” di uno Stato (come di altri paesi del Golfo) che vive di esportazione di gas e petrolio. Quel che sta accadendo in queste ore è un passo avanti radicale nella rottura dell’egemonia statunitense e occidentale sul pianeta.

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Michele Paris: UE, il tetto impossibile

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UE, il tetto impossibile

di Michele Paris

Il tetto artificiale al prezzo del petrolio russo, deciso formalmente dall’Unione Europea nel fine settimana, rischia di diventare la più inutile e, forse, dannosa delle misure sanzionatorie dirette contro Mosca e adottate a proprio svantaggio negli ultimi mesi da Bruxelles. Dopo un’accesa disputa interna tra i paesi che intendevano fissare una soglia al livello risibile di 20 o 30 dollari al barile (Polonia, paesi baltici) e altri preoccupati per le conseguenze dell’iniziativa, la quota è stata alla fine fissata a 60 dollari. Qualunque sia il tetto – o “cap” – gli effetti non saranno comunque quelli desiderati dall’UE o da Washington per una serie di ragioni, prima fra tutte l’ovvia indisponibilità della Russia a partecipare a uno schema di manipolazione del mercato del greggio criticato dalla grandissima parte dei produttori globali.

Lo stesso giorno in cui è entrato ufficialmente in vigore il tetto al prezzo del petrolio russo è scattato anche l’embargo europeo delle importazioni via mare di questo stesso prodotto. Il provvedimento verrà adottato anche dai paesi che fanno parte del G-7 e dall’Australia.

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Raffaele De Luca: Studio sui vaccini Covid ai giovani: 18,5 eventi avversi per ogni ricovero evitato

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Studio sui vaccini Covid ai giovani: 18,5 eventi avversi per ogni ricovero evitato

di Raffaele De Luca

“La nostra stima mostra che è probabile gli obblighi vaccinali COVID-19 causino danni netti a giovani adulti sani, fattore che non è controbilanciato da un beneficio proporzionale per la salute pubblica”. È quanto sostiene un articolo scientifico pubblicato sul Journal of Medical Ethics. I ricercatori sono durissimi nelle conclusioni, affermando che “il fatto che tali politiche siano state implementate nonostante le controversie tra esperti e senza aggiornare l’unica analisi rischio-beneficio pubblicamente disponibile alle attuali varianti di Omicron né sottoporre i metodi al controllo pubblico suggerisce una profonda mancanza di trasparenza nel processo decisionale scientifico e normativo”, prima di concludere – riferendosi agli obblighi vaccinali imposti ai giovani – che “queste gravi violazioni della libertà individuale e dei diritti umani si sono rivelate eticamente ingiustificabili.

Sulla base dei dati forniti dal CDC (Centers for Disease Control and Prevention), i ricercatori hanno infatti stimato che per prevenire un singolo ricovero ospedaliero legato alla variante Omicron in un periodo di 6 mesi, tra 31.207 e 42.836 individui rientranti nella fascia d’età 18-29 anni avrebbero dovuto ricevere la terza dose di un vaccino ad mRNA nell’autunno 2022.

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Carlo Freccero: Le élite sono il nuovo Mago di Oz

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Le élite sono il nuovo Mago di Oz

di Carlo Freccero

wef meeting bonoC’è una sorta di paradosso che riguarda i grandi progetti, utopici o distopici, in corso di realizzazione oggi: sono al centro della scena, ma nessuno è in grado di vederli. La pandemia prima ed oggi la guerra, hanno creato all’inizio un certo sconcerto, ben presto riassorbito dalle logiche di una “nuova normalità”. Purtroppo tutto sembra congiurare contro di noi, ma secondo la logica corrente si tratta di un susseguirsi di fortuite coincidenze. Possibile che in un periodo storico così breve si concentrino casualmente una pandemia, una guerra, la carestia, la crisi climatica, l’esaurimento delle risorse alimentari ed energetiche? Certamente, ci risponde il mainstream, perché noi abbiamo abusato delle ricchezze del pianeta moltiplicandoci incessantemente, vivendo al di sopra delle nostre possibilità, consumando le risorse a disposizione delle altre specie e delle generazioni future. Per ogni obiezione c’è una risposta scientifica e filantropica pronta a ribadire che la colpa del disastro è solo nostra, cioè di quel 99% della popolazione del pianeta che deve dividersi le risorse residue dopo che le élites ne hanno privatizzato la parte migliore. Una massa che perde o ha già perso il suo potere contrattuale, perché il lavoro umano non ha più valore, in quanto viene progressivamente sostituito dai robot e dall’intelligenza artificiale. Oggi non solo i lavoratori non vogliono più fare la rivoluzione, ma si cospargono il capo di cenere.

Ma se recuperassimo un po’ di lucidità, dovremmo chiederci se la catastrofe che stiamo attraversando sia semplicemente il frutto della nostra irresponsabilità, oppure faccia parte di un RESET, un azzeramento volontario da parte delle élite, di un sistema economico già fallito, proprio a causa delle élite stesse.

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Raffaele Sciortino: Dove va la globalizzazione?

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Dove va la globalizzazione?

di Raffaele Sciortino

0e99dc e1d62b39b7ae4c09b7929d4439cd2b1amv2Machina ha già pubblicato (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/introduzione-a-stati-uniti-e-cina-allo-scontro-globale) l’Introduzione del nuovo volume di Raffaele Sciortino, «Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze» (Asterios, 2022), che segue di qualche anno il precedente «I dieci anni che sconvolsero il mondo» (Asterios, 2019), testo che inquadrava il «momento populista» del decennio seguito alla crisi del 2008 nella dinamica intrecciata del mercato mondiale, degli assetti geopolitici e dei rapporti di classe. La medesima prospettiva sistemica, che caratterizza i lavori di Sciortino, è qui «applicata» alle trasformazioni del capitalismo globale che ha il suo asse fondante nel rapporto asimmetrico tra Usa e Cina, non visto limitatamente come relazione o scontro tra potenze, ma come perno degli assetti capitalistici dispiegati su scala planetaria degli ultimi decenni.

Transuenze pubblica oggi un secondo estratto di questa pubblicazione, un paragrafo contenuto nella prima parte del volume, intitolato «Dove va la globalizzazione?», a fini espositivi qui proposto (con il consenso dell’autore) in versione lievemente ridotta e con alcune soluzioni editoriali non presenti nell’originale. Fermo restando l’intento prioritario di invito alla lettura integrale del volume, la pubblicazione di questo paragrafo, che nello schema del libro fornisce una descrizione analitica dello scenario, di «servizio» agli argomenti centrali, discende dai temi affrontati, questioni ricorrenti anche di questa sezione della rivista. Sciortino colloca in una prospettiva di medio periodo, attraverso una sintetica ma rigorosa selezione di dati ricavati da fonti pro sistema, lo stato della globalizzazione, da egli intesa anzitutto «come stadio del processo di affermazione del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione internazionalizzate» da cui è dunque difficile tornare indietro, nonostante gli smottamenti in corso. Il mutamento della scena, rispetto alla fase ascendente della globalizzazione (e dei rapporti tra Usa e Cina), è spinto in questa visione dalla crisi dell’accumulazione di capitale, ufficialmente apertasi a ridosso del 2008.

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Piccole Note: Ucraina: dal sabotaggio degli accordi di Minsk alla guerra

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Ucraina: dal sabotaggio degli accordi di Minsk alla guerra

di Piccole Note

Parlando al G-20 di Bali Zelensky ha escluso che possa ripetersi un accordo con i suoi attuali nemici in stile Minsk, un concetto ribadito alcuni giorni dopo da Putin. Pare questa l’unica cosa sulla quale i duellanti concordano, annota Ted Snider in un articolo pubblicato su Responsible Statecraft. E ciò, ovviamente, complica non poco le prospettive di pace. Questo, in sintesi, il contenuto della nota, il cui interesse precipuo risiede, però, nel modo con cui il cronista ripercorre il fallimento di quell’accordo.

 

Da piazza Maidan agli accordi di Minsk

L’accordo di Minsk del 2014 (cui seguì il secondo nell’anno successivo) mise fine alla guerra iniziata quell’anno, quando Kiev, dopo la rivoluzione di Maidan, o colpo di Stato che dir si voglia, decise di riprendersi manu militari le regioni del Donbass che avevano dichiarato la loro autonomia dalla capitale e chiesto trattative sul loro status. Una guerra che vide i russi sostenere i ribelli e la Nato Kiev.

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Fabrizio Marchi: Schlein o Bonaccini? L’eterno ritorno dell’identico

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Schlein o Bonaccini? L’eterno ritorno dell’identico

di Fabrizio Marchi

Con la scesa in campo di Elly Schlein, seguita a quella di Stefano Bonaccini, si è ufficialmente aperto il confronto interno al PD per la successione di Enrico Letta. Di certo nessuno, forse neanche all’interno del Partito Democratico, sentirà la mancanza di uno dei leader più grigi e sbiaditi di tutta la storia della Repubblica. Ciò detto, andiamo a dare un’occhiata ai due candidati alla segreteria.

Elly Schlein è il tipico prodotto dell’intellighenzia liberal e del salotto borghese politically correct. Figlia di un importante accademico e politologo americano e di una professoressa universitaria (più un fratello matematico e una sorella diplomatica), attiva sostenitrice a suo tempo di Barack Obama, cofondatrice del movimento “OccupyPD” (un “movimento” di alcuni giovani del PD in posizione critica rispetto alla decisione dei vertici di dar vita ad un governo delle larghe intese nel 2013), femminista militante, attivista lgbtq, europarlamentare, vicepresidente della Regione Emilia Romagna ed eletta alle scorse elezioni politiche alla Camera dei Deputati.

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Nicoletta Forcheri: Non si gioca in difesa, meglio stare in panchina

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Non si gioca in difesa, meglio stare in panchina

di Nicoletta Forcheri

Sul comunicato stampa della Consulta e la sessione per giudicare della costituzionalità dell’obbligo vaccinale sottoposta all’attenzione della Corte, non mi dilungo più di tanto, già tanto inchiostro è stato versato.

Dal punto di vista del metodo, andare a chiedere conferma a certa magistratura che nel suo insieme sappiamo corrotta non fa altro che rafforzarne il malsano potere: si chiama contestazione rafforzativa. Perché era forse il caso di andare a spendere ore, tempo ed energia, per assistere al pietoso spettacolo di un consesso di sepolcri imbiancati che negheranno l’evidenza criminale fino alla morte, non solo dei diritti calpestati ma dei dati avanzati dalla “scienza”?

E infatti un solo morto per vaccino avrebbe dovuto bastare per fermare una narrativa criminale e applicare quel principio di sana prudenza normalmente sempre addotto a parole e spesso platealmente negato, nonostante di decessi per vaccino attestati dall’ISS nel nostro paese ce ne siano ben 26, cifra che sappiamo tutti enormemente sottovalutata, eppure la Consulta ha perseverato. Diabolicum est.

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Carlo Clericetti: Sei domande ai candidati segretari del Pd

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Sei domande ai candidati segretari del Pd

di Carlo Clericetti

Si dice che il partito debba trovare una sua identità più definita, ma finora il dibattito ha riguardato solo problemi come le alleanze e le correnti. Sarebbe interessante, invece, sapere come la pensano coloro che si propongono per la segreteria su alcuni temi che una cultura di sinistra non può ignorare

Che il Pd debba trovare un’identità lo dicono tutti. Lo ha ripetuto anche Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna che si è candidato alla segreteria, evocando un “partito dei territori”, formula che però non significa niente in termini di linea politica. E di identità definita hanno parlato anche vari altri esponenti di quel partito, che però non hanno poi dato seguito al discorso con qualche indicazione concreta, che permetta di capire in quale direzione questa identità la si stia cercando.

Un’uscita pubblica sui contenuti è venuta invece da un gruppo che si definisce “I laburisti”, che ha pubblicato su Il Foglio (e il mezzo è già un messaggio) due intere paginate per esporre il loro programma. Basterebbe leggere le firme per intuire quale sia.

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