Rassegna del 18/12/2022
Stefania Consigliere: We shall live again: i fantasmi, la violenza, l’utopia
A proposito dei fantasmi di Avery Gordon
di Stefania Consigliere
Avery Gordon, Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica, DeriveApprodi, Roma 2022,291 pp., 20,00€
La proposta teorica è magnifica e sconvolgente: il fantasma è la traccia di una violenza. Una traccia ben presente e attiva, anche se invisibile. Qualcosa in cui si può andare a sbattere, senza preavviso, perché esiste nel mondo, al di fuori di noi, come segno di un passato che non può passare perché nessuno ancora gli ha dato ciò che gli spetta.
Qualcosa è successo – proprio qui, nel punto dove si affollano i turisti, nella terra di nessuno fra gli ultimi palazzoni e la spiaggia, dietro una malandata fermata di autobus – che ha segnato il luogo con il dolore, il dominio e l’orrore. La ferita non è mai stata curata: forse perché, quando la violenza ha colpito, non si è potuto far altro che fuggire; o forse perché, nel tentativo di sopravvivere a molta altra violenza subentrante, è stata dimenticata. Il tempo è passato e nessuno ha rimediato a quel gesto brutale. Ma potrebbe anche trattarsi di una violenza del presente, quella che incessantemente deve ripetersi, giorno dopo giorno, perché la macchina letale del capitalismo possa continuare a macinare plusvalore. La violenza strutturale, incarnata nel modo stesso in cui “le cose funzionano” è proprio questo: la continua produzione di disumanizzazione, dolore, oppressione, gerarchie; un continuo sparger sale su ferite già aperte; un’infinita produzione di spettri muti e dolenti.
Chi vede i fantasmi della violenza, chi si ostina a pensare che la modernità abbia troppi punti ciechi, chi non riesce mai a ritrovarsi nei resoconti ufficiali troverà in Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica di Avery Gordon, appena uscito per DeriveApprodi, un vero e proprio manuale di sopravvivenza etica ed epistemologica.
Diario di traduzione
Ho incrociato Ghostly matters per la prima volta nel 2015, nella bibliografia di un articolo di Roberto Beneduce. A diciassette anni dalla sua prima uscita, dunque, ma ero già scesa a patti con la mia distrazione culturale e quindi non ci sono rimasta troppo male. L’ho scaricato e letto immediatamente, in preda all’entusiasmo che mi piglia nell’incontro con i libri-chiave, quelli che modificano per sempre il tuo modo di vedere. Come succede in questi casi, ne ho parlato con tutti e, per un certo periodo, non ho parlato d’altro. Ne ho ordinato una copia “vera”, su cui ho diligentemente riportato le sottolineature e le note della versione elettronica. Da allora ci sono tornata ogni volta che ne ho avuto bisogno. Nella primavera del 2021, durante l’occupazione del nostro dipartimento, Federico Rahola mi ha proposto di tradurlo insieme in italiano: era già in amicizia con l’autrice, l’editore era ovvio e le cose sono andate avanti senza problemi, ma con tutta la lentezza e le risacche a cui questi anni di diluvio ci hanno abituati.
Da quel momento, non so più quante volte ho letto e riletto le pagine, i paragrafi, le singole frasi: in inglese, in italiano e a cavallo fra le due lingue, cercando di restituire la prosa flessibile e felice dell’autrice, il suo modo amorevole di parlare a ciò che non dovrebbe esserci, ma c’è. Ci sono stata appiccicata lungo tutta l’estate e l’autunno del 2021, poi nella primavera di quest’anno e di nuovo nell’autunno, in full immersion, per la correzione delle bozze. Dovrei conoscerlo a memoria, o almeno muovermi senza sorpresa fra immagini e capoversi, al riparo da batticuori, spaventi, illuminazioni profane e reazioni emotive.
E invece no. Piango tutte le sante volte.
Il capitolo sui desaparecidos argentini – su cosa significhi vivere all’insegna di «Dio, patria e famiglia» in un regime di colonnelli fascisti – mi porta, ogni volta, lo stesso dolore provato da bambina quando la rai mandò in onda uno sceneggiato (oggi: serie tv) intitolato Olocausto. Era la fine degli anni Settanta e la prima generazione di storici nati dopo gli eventi, e quindi relativamente immuni dalle ferite biografiche, stava cominciando a riaprire i dossier. A lungo in Germania dei campi non si è parlato; la generazione nata dopo la guerra ha dovuto scoprirli da sé, sull’onda del clima rivoluzionario del “decennio Sessantotto”, inseguendo il non detto e gli invisibili della vita sociale. Inseguendo i fantasmi, dunque.
Non vorrei suonare melodrammatica, ma sospetto che i mesi in cui ho tradotto Cose di fantasmi abbiano una parte sostanziale nella mia risposta emotiva al testo. La violenza produce fantasmi, amnesie, scissioni e terrore: in formato mignon, lo vedevo avvenire intorno a me. Il lockdown come dispositivo di rieducazione, la militarizzazione dei territori, l’induzione del terrore come strumento di controllo, il blocco epistemologico, il silenziamento dei saperi critici, la criminalizzazione di ogni forma di dissenso, la caccia alle streghe, la propaganda di guerra, uomini armate alle fermate dei bus per controllare il green pass dei ragazzini, Dostoevskij proibito, la follia sociale che per tre anni abbiamo respirato a pieni polmoni. Tutto quello che oggi cerchiamo disperatamente di rimuovere, a costo di non ricordare più niente della nostra vita recente, e che ci lascia feriti, risentiti, scissi, disperati. Le magnifiche pagine che Avery Gordon aveva scritto un quarto di secolo prima entravano in costellazione con il presente fino a produrre un shock, un arresto.
Will the circle be unbroken?
Le domande giuste
A (ri)leggere oggi i testi prodotti negli ultimi trent’anni del secolo scorso, si avvertono una ricchezza teorica e una generosità che nei decenni seguenti – dopo “Genova”, dopo le torri gemelle, nella prima ondata di guerra al terrore – avrebbero preso un andamento più carsico, vie più lunghe. Apparso per la prima volta nel 1997, Cose di fantasmi naviga in quelle acque, ben sondate dalla bibliografia, dove, oltre ai nomi classici, s’incrociano i nomi di Raymond Williams, Michael Taussig, Cedric Robinson e quelli delle autrici intorno a cui il testo s’intesse: Sabina Spielrein, Luisa Valenzuela, Toni Morrison.
Più ancora delle risposte – che tanto ciascuno deve trovare da sé nel luogo e nel tempo che gli sono toccati in sorte – contano le domande. Una cattiva domanda porta fuori strada rinforzando la disvisione del mondo, la continua rimozione che dobbiamo operare perché l’assurdo di una società in cui perfino l’annientamento degli umani produce plusvalore non disturbi la nostra sopravvivenza quotidiana. La buona domanda rivela ciò che siamo tenuti a non sapere, dà voce all’imparlabile: la si riconosce dallo spavento elettrizzato che si prova quando una domanda coglie nel segno.
Sabina Spielrein non era presente al congresso psicoanalitico di Weimar nel 1911 perché era una giovane donna, perché prima di diventare psicoanalista era stata paziente, o per via della doppia clandestinità della relazione con Jung? Quali connessioni pulsionali hanno legato la classe media argentina e il regime dei colonnelli che la proteggeva dai suoi stessi figli? Quanta fame – di dolci, di umanità, di amore – hanno i fantasmi della tratta atlantica e dello schiavismo su cui la modernità si è edificata? Più vicino a noi: quale rapporto lega le spiagge dei bagnanti estivi alla rotta libica e ai lutti senza cadavere che funestano i villaggi del Magreb? Quanti lavoratori morti giacciono sotto le mura delle città, gli stadi, le vie ad alto scorrimento? Quali parti di noi – ridotte al silenzio da un mix di shot tossici, cinismo e pornografia – ci aspettano all’angolo della solita strada?
Il fantasma sta dalla parte di chi sente il mondo in modo diverso da come esso viene descritto. Qualcosa è successo che dà ragione della dissonanza: non eravamo matti o ipersensibili o paranoici a pensare che quell’angolo di strada fosse inquieto; a sentire odore di cimitero in certi appartamenti di lusso; a vedere zombie nei grattacieli della city. Il fantasma libera dall’oppressione di dover aderire a una verità pubblica che fa a pugni con quel che sentiamo.
Non solo. Proprio perché segnala che qualcosa è andato storto, il fantasma porta con sé la certezza che le cose potevano anche andare altrimenti. Ci dice che è stata la violenza (e non il caso, o la natura) a sbarrare l’accesso a un futuro desiderabile. E ci dice anche che queste possibilità mancate non sono perdute per sempre: come il fantasma, i nostri futuri perduti e felici attendono di essere visti e rivendicati, che qualcuno li accolga e li porti con sé nei futuri che i morti avrebbero voluto – e noi con loro.
Alcuni storceranno il naso: i fantasmi non esistono. Le foreste non parlano. Lari, penati e ninfe dei boschi erano vecchie superstizioni. Il terrore non uccide. I mattatoi non sono luoghi d’orrore. Le danze, le rose e l’incanto sono solo per donne e bambini. E via dicendo. Qui il movimento rivoluzionario ha commesso il suo errore più catastrofico e ancora fa fatica ad avvedersene: l’adesione al disincanto rende solidali a quello stesso sistema di dominio che, sul fronte economico e politico, vorremmo superare. Se c’è qualcosa che dobbiamo togliere rapidamente dalle mani dei nostri avversari (e sono tanti) è il monopolio dell’immaginario: la zona del possibile, del non-ancora, del rimosso, dell’utopico, dell’inaffrontabile; le parole dei fantasmi; il nostro desiderio di una vita decente.
Spettri di Genova
Una donna olandese inseguita dalla polizia. Un salto dal molo sulle pietre che proteggono la caletta. Il rumore di un bacino che si spezza nell’impatto. Quel rumore. Bisogna soccorrerla, non si può lasciar per strada qualcuno col bacino spezzato. Una mano ti afferra e ti porta via perché, se resti, la prossima cosa che si spezzerà sarà il tuo cranio. Un bacino si spezza, bisogna soccorrere, devi andartene. Quel rumore non smetterà più di farsi sentire. Il tuo andartene non ti porterà mai più via da quella spiaggia.
Un pomeriggio di metà agosto, con lo stesso caldo di allora e la città abbastanza vuota, ho accompagnato una reduce del G8 sui luoghi dei nostri fantasmi generazionali: lo stadio Carlini, Boccadasse, corso Italia, piazzale Kennedy. Lei non tornava a Genova da ventun anni, io non l’ho mai davvero lasciata. Insieme ad altri compagni, erano arrivati a Genova nella notte, dagli Appennini, per evitare i posti di blocco autostradali; poi erano ripartiti in ordine sparso e forse, prima di separarsi, erano passati per la Diaz imbrattata di sangue – nessuno di loro, oggi, ne è più sicuro. Nell’autunno di quell’anno, quando mi capitava di passarci, sovrimpresse su piazzale Kennedy vedevo scorrere le immagini dei tre giorni di luglio: la polizia in assetto antisommossa; i banchetti di accoglienza; le montagne di bottiglie d’acqua; gli attivisti di Attac! immobili davanti ai manganelli; l’onda dei manifestanti che bruscamente piega e s’incunea su per la scalinata; il fragore incessante dell’elicottero; il sangue. Mentre camminavo con un compagno dei Paesi Baschi, a un certo punto lui mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha dolcemente spostata mezzo metro in là per evitarmi di calpestare una chiazza di sangue. Camminare sul sangue, le ossa spezzate dei morti. Di chi era quel sangue?
Abbiamo cercato il posto dove la donna olandese è caduta sugli scogli, dove la polizia ha inseguito un bacino fino a spezzarlo, dove non si è potuto prestare soccorso. Alla fine, dopo molti sopralluoghi, non siamo certe di averlo trovato: forse in due decenni la città è troppo cambiata o forse la ricostruzione oggettiva è impossibile. Michael Taussig ha indagato gli spazi del terrore, e cioè i luoghi dove l’uso sistematico e intenzionale della violenza arriva a creare un contesto allucinatorio. Come in quell’iniziazione multigenerazionale alla violenza di stato: lo sgomento nel riconoscere il suono di un osso che si spezza senza averlo mai sentito prima; la consapevolezza stordita di esser finiti in un teatro dell’orrore; la confusione. Il suono delle ossa sulla pietra non ha segnato le mie orecchie, è il fantasma di altri: della compagna che me lo racconta, di quelli che erano con lei. Ma è anche un fantasma mio, uno dei tanti che da allora si affollano, nell’indistinzione perdurante fra ciò che si è vissuto e ciò che è stato raccontato, fra ciò che si è visto e ciò che si è temuto, nella nebbia cognitiva che gli spazi del terrore invariabilmente inducono e che si alza, appena un po’, solo accettando di parlare alle ombre che vi si muovono.
Da sola non avrei mai fatto questa ghost dance. Pigrizia, timore; o forse non mi sarebbe venuto in mente. Cercare quei fantasmi non mi ha dato nessuna risposta, nessuna certezza. Mi ha permesso di sputar fuori un po’ del fango accumulato. E soprattutto, mi ha riconnessa con il senso di quelle lotte, con la parte perduta della storia mia e di tutti, con i futuri abitabili distrutti sotto i miei occhi dalla violenza del capitale. E mi ha mostrato, una volta di più, l’intelligenza dei collettivi che danzano la ghost dance, dove i fantasmi cantano, insieme ai vivi, we shall live again.
Mike Watson: Perchè la sinistra non impara a usare il meme?
Perchè la sinistra non impara a usare il meme?
Adorno, videogiochi e Stranger Things
Prefazione all’edizione italiana di Mike Watson
Mike Watson: Perché la sinistra non impara a usare il meme? Adorno, videogiochi e Stranger Things, Meltemi 2022
Mike Watson attualizza gli strumenti della teoria critica per riflettere sul rapporto odierno tra arte, industria culturale e politica. La principale questione su cui si concentra l’autore è l’incapacità della sinistra di vedere sia i lati positivi sia quelli negativi nello sviluppo di Internet e, di conseguenza, la particolare cultura della produzione e della ricezione delle immagini che lo accompagna. Secondo Watson, quella sinistra che voleva portare l’immaginazione al potere, salvo poi sposare la razionalità dei sistemi astratti e tecnocratici, può trovare nuova linfa vitale proprio nelle odierne tattiche di comunicazione politica. In tal modo, infatti, essa supererebbe tanto la condanna in stile anni Novanta di essere un baluardo della cultura del libro e del sapere alfabetico – dunque radical chic –, quanto quella più recente di essere parte di un’élite che difende la razionalità astratta del sistema – dunque dell’establishment – dimenticando le esigenze e i movimenti che spingono dal basso per rinnovare la società.
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Che i ragazzi appassionati di meme dell’alt-right abbiano potenzialmente aiutato Donald Trump a vincere la presidenza nel 2016 è un fatto ben documentato, anche se non necessariamente comprovato. Quello che sappiamo per certo è che la libertà messa a disposizione da Internet, in quanto piattaforma di pubblicazione, ha permesso a una forma deleteria di immaginario di destra di diffondersi a livello globale, trasformandosi in una chiamata all’azione per gli estremisti di destra, come abbiamo visto a Charlottesville e durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
Piccole Note: Ucraina, nessuno spazio alla diplomazia
Ucraina, nessuno spazio alla diplomazia
di Piccole Note
Pace-cessate il fuoco sono parole ormai bandite dalla narrazione della guerra ucraina. Nessuno ne parla più, almeno tra quanti hanno qualche potere in tal senso, né i media internazionali indugiano più sul tema. Anche i russi, dopo aver ribadito più volte la loro disponibilità al negoziato hanno dovuto arrendersi all’evidenza che l’Occidente non farà pressioni su Zelensky perché abbracci un sano realismo e recepisca l’idea che la pace si ottiene col compromesso, mettendo da parte il massimalismo brandito finora.
La vittoria degli ultra-atlantisti
Infatti, chiedere il ritiro dei russi da tutto il territorio ucraino, Crimea compresa, come fa Zelensky (e i suoi sponsor), equivale a chiedere la resa di Putin, cosa impossibile da accettare dallo zar come anche delle élite russe, le quali sanno bene che una sconfitta secca porterebbe a breve a un collasso della loro nazione.
Il Chimico Scettico: Eseguivo gli ordini con entusiasmo (quanto la pandemia ci ha resi migliori)
Eseguivo gli ordini con entusiasmo (quanto la pandemia ci ha resi migliori)
di Il Chimico Scettico
Mi girano questa roba di un annetto fa (+/- alcuni giorni)
Un “Mi spiace, è il mio lavoro, sono obbligato a seguire le leggi e le direttive” sarebbe stata la risposta neutra. Invece la risposta non fu neutra neutra manco per il “censura”.
Giuseppe Simone, Mario Pianta: Inflazione e salari. Come affrontare cause e conseguenze
Inflazione e salari. Come affrontare cause e conseguenze
di Giuseppe Simone, Mario Pianta
In Italia le politiche per affrontare l’inflazione si sono limitate ai sussidi per famiglie e imprese, senza affrontare le cause profonde nei mercati dell’energia e neanche le conseguenze sulla caduta dei redditi reali, la contrattazione salariale, l’aumento delle disuguaglianze
Di fronte all’inflazione – arrivata a novembre 2022 all’11.8% in Italia – le dimensioni quantitative degli interventi del governo Draghi e ora del governo Meloni sono state rilevanti, pari al 3% del PIL nel 2022, ma sono stati realizzati soprattutto attraverso sussidi a imprese e famiglie, senza affrontare le cause primarie e le conseguenze profonde dell’inflazione sul sistema economico, sulla distribuzione dei redditi e sulle disuguaglianze.
Le cause dell’inflazione
L’inflazione italiana è partita dall’aumento dei prezzi dei beni energetici importati, iniziato a fine 2021 e esploso con la guerra in Ucraina e con la crescente volatilità dei prezzi nei mercati internazionali, che hanno raggiunto a marzo 2022 il picco del 44,3% nell’Area Euro e del 51,5% in Italia. Diverse sono le cause profonde della crisi dei prezzi dell’energia.
Massimo Mazzucco: Le mele marce siamo noi
Le mele marce siamo noi
di Massimo Mazzucco
Stupisce lo stupore con cui è stata accolta dai media la notizia dello “scandalo” di Bruxelles. “Ohibò, proprio nella sede dei diritti comuni – strillano scandalizzati i nostri pennivendoli – là dove dovrebbe regnare la democrazia più cristallina, ecco che si palesano invece storture e corruzione a livello sudamericano” .
Ed ecco partire la solita operazione di “damage control” mediatico, nella quale si cerca immediatamente di archiviare il problema con la solita scappatoia delle “mele marce”.
Quando scoppiò lo scandalo di Abu Grahib, il Pentagono fu velocissimo ad additare “alcune mele marce”, evitando così al mondo di scoprire che invece si trattava di un sistema vero e proprio, basato sulla violenza e la sopraffazione, che era stato addirittura codificato nero su bianco dal ministro della difesa Rumsfeld, nel famigerato documento Copper Green.
Quando negli anni 90’esplose lo scandalo dei preti pedofili in America, si parlò – anche lì – di “alcune mele marce”, e ci si affrettò a nascondere sotto il tappeto tutte le indicazioni che suggerivano che si trattasse invece di un sistema marcio alla radice.
Antonio Pagliarone: La New Recession e l’affaire Ucraina
La New Recession e l’affaire Ucraina
di Antonio Pagliarone
La tradizione di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul cervello dei vivi.(Marx Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte)
Attualmente anche i media e gli osservatori mainstream hanno smesso di esaltare la probabile ripresa economica dopo le condizioni catastrofiche provocate dal terrore per il Covid. Purtroppo viviamo in un epoca costellata da eventi spettacolari che hanno ridotto la gente comune ad essere terrorizzata da qualsiasi fenomeno: dal terrorismo islamico alla pandemia, dai cambiamenti climatici catastrofici alla guerra nucleare. Ora si è aggiunto lo spauracchio dell’inflazione.
Inflazione
E’ da tempo che i media e gli osservatori più comuni puntano il dito sull’ aumento eccezionale dei prezzi che ha portato a livelli di inflazione mai visti negli ultimi decenni. Inoltre la tanto decantata crescita poderosa, inevitabile dopo la pandemia, decantata dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Fed, dalla BCE e da economisti dai facili entusiasmi, si è sgonfiata a tal punto che si paventa una New Recession.
A parte il problema della guerra in Ucraina che vedremo in seguito, possiamo notare dal grafico 1 che l’andamento oscillante dell’inflazione osservabile nell’ultimo decennio, registrato per gli USA e per l’Europa, è stato interrotto da un’impennata che inizia verso la fine del 2020 ben prima della guerra in Ucraina ed in piena pandemia1.
Davide Gionco: Corte incostituzionale o incompetente?
Corte incostituzionale o incompetente?
di Davide Gionco
640 giorni prima di pronunciarsi
Lo scorso 1° dicembre 2022 la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale e della sospensione dal lavoro e dallo stipendio per gli operatori sanitari inadempienti all’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19. Responso: “Le scelte del legislatore sull’obbligo vaccinale del personale sanitario sono non irragionevoli, né sproporzionate”.
Non intendo entrare nel merito dell’imparzialità politica della Corte. I meccanismi di nomina dei membri sono noti e ciascuno è in grado di giudicare se le nomine vengano fatte per garantire i cittadini o altri interessi di parte del mondo della politica.
La Corte si è dovuta pronunciare a seguito del ricorso fatto da uno dei soggetti aventi diritto. Lo aveva fatto il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, in una ordinanza del 22.03.2022, contro il Decreto Legge 44/2021 del 01.03.2021, successivamente convertito in legge il 28.05.2021, dopo che già il Consiglio di Stato si era pronunciato favorevolmente al provvedimento con la sentenza n. 7045 del 20.10.2021.
Per chi non ne fosse al corrente, il D.L. 44/2021 prevedeva la sospensione dal lavoro e dallo stipendio degli operatori del settore sanitario (compresi gli amministrativi), i docenti ed il personale della scuola, i militari e le forze di polizia.
Ora non vogliamo entrare nel merito della correttezza formale della sentenza, in quanto il sottoscritto non ha le competenze.
Alessandro Visalli: L’angelo della storia. Rileggendo Benjamin
L’angelo della storia. Rileggendo Benjamin
di Alessandro Visalli
“9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”[1].
Siamo nel 1940, una data decisiva per comprendere il testo, Walter Benjamin rompe radicalmente, nel manoscritto detto delle “Tesi di filosofia della storia”[2] con tutta l’ideologia del progresso che è tanta parte del marxismo. L’operazione che il grande intellettuale ebreo compie è di ibridare nel corpus rivoluzionario marxista elementi derivanti sia dalla critica romantica della civilizzazione, sia dalla tradizione messianica ebraica. Sono allora sedici anni, da quando ha incontrato il marxismo attraverso la lettura di Lukács e l’incontro caprese con la russa Asja Lacis, e quindici da quando in “Strada a senso unico”[3] riconosce nella rivoluzione un esito non già inevitabile, o naturale, quanto una sorta di estrema difesa davanti al disastro. Un “tagliare la miccia accesa” prima dell’esplosione.
Il lavoro che compie sul marxismo, in particolare a metà degli anni Trenta, è da allora rivolto a dissotterrare le componenti romantiche ed antiborghesi che lo stesso Marx recepisce, ma che sono sepolte abbastanza accuratamente dal marxismo tedesco nella fase della sua affermazione politica.
Andrew Korybko: L’ammissione della Merkel che Minsk era solo uno stratagemma garantisce un conflitto prolungato
L’ammissione della Merkel che Minsk era solo uno stratagemma garantisce un conflitto prolungato
di Andrew Korybko
L’ex Cancelliera finalmente fa chiarezza
Nessuno può affermare con sicurezza di sapere come si concluderà l’ultima fase del conflitto ucraino, che ha avuto origine dall’operazione speciale che la Russia è stata costretta ad avviare per difendere l’integrità delle sue linee rosse di sicurezza nazionale dopo che la NATO le aveva oltrepassate. Dopo tutto, i colpi di scena che si sono verificati finora hanno colto tutti di sorpresa, dalla riunificazione della Novorossia con la Russia ai due attacchi di Kiev con i droni all’inizio di questa settimana nell’entroterra del suo vicino.
Detto questo, si può prevedere con sicurezza che il conflitto quasi certamente si prolungherà negli anni a venire, sulla base della candida ammissione dell’ex cancelliera tedesca Merkel che il processo di pace di Minsk era solo un espediente per rafforzare le capacità militari offensive di Kiev. Le sue parole hanno fatto eco a quelle dell’ex presidente ucraino Poroshenko, che ha detto esattamente la stessa cosa all’inizio dell’anno, con la differenza che lui non è mai stato considerato amico del presidente Putin, a differenza della Merkel.
Redazione: Donbass. La lista completa di tutti i massacri con armi NATO sui civili
Donbass. La lista completa di tutti i massacri con armi NATO sui civili
di Redazione
La NATO ha dato il via libera alla distruzione mirata degli obiettivi civili e degli abitanti delle Repubbliche mediante le sue armi ad alta precisione
Il primo utilizzo dell’Himars MLRS sul territorio del Donbass è stato documentato il 28 giugno nell’insediamento di Pereval’sk (LNR).
Da quel giorno fino al 10 dicembre 2022 (5 mesi), sono stati effettuati un totale di 185 attacchi missilistici dall’Himars MLRS esclusivamente su obiettivi civili:
- 34 attacchi mirati a obiettivi d’infrastrutture sociali, industriali e civili sul territorio della DNR
- 151 attacchi mirati a obiettivi d’infrastrutture sociali, industriali e civili sul territorio della LNR:
L’M-142 “Himars” (High Mobility Artillery Rocket System) è un avanzato sistema di lanciarazzi, dotato di un modulo con sei missili di precisione GMLRS, basato su un camion FMTV da cinque tonnellate dell’esercito americano.
Federico Greco e Mirko Melchiorre: “Giacarta sta arrivando”
“Giacarta sta arrivando”
di Federico Greco e Mirko Melchiorre
E’ con grande entusiasmo che l’AntiDiplomatico annuncia la nascita del blog dei registi Federico Greco e Mirko Melchiorre, in concomitanza con l’uscita del loro attesissimo nuovo film “C’era una volta in Italia: Giacarta sta arrivando”. Di seguito il loro primo articolo
“C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando”. Dopo cinque anni, e con una pandemia in mezzo, siamo finalmente riusciti a portare di nuovo in sala un film-inchiesta che consideriamo il seguito ideale di “PIIGS”, il documentario del 2017 sull’austerità realizzato all’epoca anche con Adriano Cutraro.
Anche in questo caso la genesi del film è stata travagliata e ostinatamente indipendente. Soprattutto siamo riusciti a trovare risorse inaspettate che ci permettessero di essere completamente liberi, nello stile e nei contenuti. Una condizione sempre più difficile, soprattutto se hai l’ambizione di avere una distribuzione ufficiale cinematografica. Doppiamente difficile vista anche la condizione drammatica del cinema in Italia: il pubblico è più che dimezzato rispetto al 2019.
John Holloway: La forma dello Stato e il capitale
La forma dello Stato e il capitale
di John Holloway
Lo Stato non è capitalista per quel che fa e per le funzioni che svolge ma per la sua forma. Le funzioni dipendono dalla forma. La sua stessa esistenza dipende dal fatto che deve fare tutto il possibile per assicurare le condizioni necessarie alla riproduzione del capitale. Non dobbiamo, tuttavia, pensare alla forma come a un’entità statica ma come a una forma-processo, anche perché questo consente di aprirne la categoria. Lo Stato è un processo di formazione di relazioni sociali che deve canalizzare l’attività umana dentro ruoli compatibili con la riproduzione del capitale. Pensare allo Stato come forma-processo significa però anche che c’è un movimento contrario dell’auto-determinazione collettiva: movimenti o modi di fare le cose che non sono compatibili con l’interesse del capitale. Sostenere che l’esistenza stessa dello Stato dipende dal suo successo nel promuoverne l’accumulazione – come fa John Holloway anche qui, nella prefazione a Crítica de las políticas públicas. Propuesta teorica y analisis de casos, uscito di recente per Prometeo Editorial in Argentina – significa, tra le altre cose, che qualsiasi governo di uno Stato, quale che sia il suo colore politico, deve necessariamente promuovere con differenti strategie quell’accumulazione, cioè l’espansione del potere del capitale e di quello del denaro, cosa consentita non in un processo nazionale ma mondiale.