Tigray le stragi di una guerra “dimenticata”

Combat-COC – 25/01/2023

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Dopo mesi in cui russi ed ucraini hanno usato i numeri dei caduti della guerra in Ucraina come pallottoliere della loro propaganda, esagerando i morti della parte avversa e minimizzando i propri, a metà novembre 2022 il generale Milley, capo di Stato maggiore americano, ha parlato di 100 mila militari morti o feriti per ciascun fronte e di 40 mila civili ucraini uccisi, “morto più, morto meno”!

Ben 240 mila morti, era costata la guerra in Afghanistan, che però è durata vent’anni (2001-2021), mentre per l’Ucraina si tratta di 8 mesi e mezzo di combattimenti.

I morti del conflitto russo ucraino godono, si fa per dire, degli onori delle cronache europee perché parliamo del nostro cortile di casa.

Poco spazio invece, sulla nostra stampa, al conflitto nel Tigray scoppiato il 3 novembre 2020, in pieno Covid. Del numero di morti, in stragrande maggioranza civili, esistono solo stime, tutte terrificanti. Il capo mediatore dell’Unione Africana, l’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo ha parlato di 600 mila morti; di cui almeno 400 mila civili; altri parlano di 800 mila o ridimensionano a 500 mila, una incertezza nei dati che sottolinea ancora di più lo scarso valore attribuito a quelle vite perdute. Ai morti e agli sfollati (almeno 2 milioni) si aggiunge un corollario di abusi e violenze (stupri, massacri di massa) che si sovrappongono a una situazione di perdurante siccità e fame (40% della popolazione è sottonutrita in Etiopia).

Il 2 novembre 2022 a Pretoria (Sudafrica) è stata firmata una pace (cui sono seguite le trattative del 22 dicembre a Nairobi), quanto solida non è dato sapere, visto che i precedenti  accordi sono stati poi disattesi.

Il Tigray (nota 1) è una regione etiope collocata a nord proprio sul confine con l’Eritrea e la cui popolazione costituisce il 6% dei 110 milioni di abitanti dell’Etiopia. L’etnia dominante è costituita da tigrini.

Il pretesto occasionale della guerra è venuto dalla decisione del presidente etiope Abiy Ahmed di sospendere le elezioni nel 2020, prolungando il proprio mandato, con la motivazione del Covid. Il governo regionale del Tigray (guidato dal partito TPLF, Fronte popolare di liberazione del Tigray), disobbedendo, ha rinnovato il proprio parlamento, occupato le caserme e gli arsenali dell’esercito federale nella regione. Il governo etiope ha subito fatto scattare l’invasione nel Tigray.

Molta stampa lo presenta come un conflitto interno all’Etiopia, un braccio di ferro fra una regione “ribelle” e il governo centrale.  Ovviamente è anche questo, ma è una versione che permette di minimizzare il ruolo internazionale, in particolare come fornitori di armi, di grandi e piccole potenze. In più il Tigray è stato attaccato anche da nord dalle truppe eritree.

Oppure lo si definisce un conflitto etnico, banalizzandone la complessità. È vero infatti che le regioni etiopi hanno un’etnia prevalente e che anche i partiti hanno una caratterizzazione etnica, ma le ragioni storiche, economiche e politiche prevalgono anche in questo conflitto. Ad esempio, L’Eritrea è dominata dalla stessa etnia tigrina, eppure combatte dal 2020 in alleanza con il presidente etiope contro il tigrino TPLF, mentre a fianco del TPLF combattono dall’agosto 21 le milizie Oromo, contro il governo etiope che ha un presidente di etnia oromo.

Apparentemente il conflitto fra il piccolo Tigray e la grande Etiopia può far pensare allo scontro fra Davide e Golia. In realtà sul piano militare i tigrini hanno dato molto filo da torcere ad Addis Abeba, avendo da sempre costituito l’élite militare (nota 2),  nonostante l’Etiopia abbia una indiscutibile superiorità demografica e sia stata rifornita di armi, fra cui droni, da Cina, Russia, Iran, Turchia, Emirati  Arabi e anche dall’Italia (nota 3).

Anche se apparentemente il governo etiope ha ridotto i tigrini a più miti consigli, nel frattempo il contagio secessionista si è esteso a piccole e grandi etnie (in Etiopia sono 80) e gli investimenti stranieri sono stati scoraggiati dall’estensione della guerra in varie aree del paese.  Pochi scommettono sulla durata della pace appena firmata fra ribelli ed Addis Abeba; il convitato di pietra è il governo eritreo che occupa con le sue truppe parte del Tigray e che non sembra minimamente intenzionato a ritirarsi. Afwerki ha stretto una solida alleanza con gli Ahmara, che diffidano di Abiy Ahmed Ali, che è un Oromo, ma soprattutto preferirebbero continuare la guerra fino alla  completa eliminazione dell’esercito del Tigray. L’ultimo fattore che minaccia questa pace è la presenza nel nord dell’Etiopia di gruppi militari formati da africani provenienti dai paesi vicini. Essi combatterebbero agli ordini del governo etiope come “coadiuvanti”. Secondo l’Osservatore romano provengono da Somalia, Sudan, Ciad, Niger e Libia, paesi che da tempo forniscono mercenari anche all’Isis, per la disastrosa situazione economica e sociale che li caratterizza.

La prima radice del conflitto sta in realtà nel cambio di governo avvenuto in Etiopia nell’aprile 2018, quando il presidente Desalegn è stato costretto a dimettersi.

Dal 1991 il paese è stato governato dal TPLF tigrino, prima nella persona di Meles Zenawi (morto nel 2012) e poi appunto da Desalegn.

Il TPLF ereditava un’economia statalizzata su modello sovietico. Per prima cosa Zenawi ha allontanato tutti i vertici militari del passato regime, ha realizzato un compromesso con le élite oromo e ahmara con cui ha costruito una coalizione di governo denominata Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF). Lo stato etiopico è stato organizzato come un Federalismo etnico, in cui ogni stato aveva un proprio Parlamento, una propria lingua, una propria polizia. Tuttavia nei posti chiave militari economici e amministrativi sono stati i tigrini a fare la parte del leone (nota 5). Su modello sovietico si è creata una borghesia di funzionari statali che si arricchita e che ha potuto contare, grazie al solido legame con gli Usa, su aiuti e generosi prestiti internazionali.

Ma alle elezioni del 2018 i due partiti Oromo e Ahmara si sono alleati, forti anche di grandi movimenti di piazza e hanno fatto eleggere Abiy Ahmed Ali.

Abiy Ahmed   ha rifiutato il modello di federalismo etnico scelto dal governo precedente e ha cercato di imporre una struttura più centralizzata, un’ideologia, il panetiopismo, che esalta la nazione nei confronti delle regioni. Anche lui ha unificato nel 2019 i partiti esistenti in una coalizione, il Partito della Prosperità, ma il TPLF del Tigray è rimasto all’opposizione. Ha inoltre defenestrato tutti gli uomini di etnia tigrina che occupavano posti chiave a livello governativo, sia politico che amministrativo e militare, accusandoli di terrorismo e corruzione. Gli uomini forti del regime precedente hanno conservato ruoli di potere solo nel Tigray, ma hanno da subito meditato di prendersi la rivincita

Con l’accordo del luglio 2018 il nuovo presidente ha normalizzato i rapporti con l’Eritrea, sapendo che l’eliminazione dell’élite del Tigray  era da tempo un obiettivo del dittatore eritreo Afwerki (nota 4). Ci sono molte buone ragioni per la cooperazione fra i due paesi, fra cui il bisogno dell’Etiopia di utilizzare i porti eritrei, Massaua e Assab, sul Mar Rosso. Per questo accordo Abiy Ahmed è stato insignito del premio Nobel per la pace!

Infine Abiy Ahmed ha impostato un programma liberista, di privatizzazione parziale delle imprese di stato, che per ora è solo all’inizio.

 Le lotte di potere che abbiamo descritto riguardano ovviamente le frazioni dirigenti delle varie etnie, le loro oligarchie affaristiche, quelle appunto che si sono litigate o spartite le cariche pubbliche, il che ha voluto dire automaticamente poter gestire le imprese di stato, le concessioni di sfruttamento delle risorse minerarie e naturali, spesso cedute alle imprese straniere, lucrare sugli investimenti e accedere ai prestiti esteri ecc. Nell’ultimo periodo di governo di Zenawi metà del bilancio dello stato era rappresentato da aiuti internazionali (e non è un segreto che molti aiuti umanitari finiscono nell’acquisto di armi).

Un’altra fonte irrinunciabile di risorse per i governi del Corno d’Africa sono gli immigrati, che con le loro rimesse sostengono i paesi d‘origine e la loro bilancia dei pagamenti.

Un esempio di sfruttamento da parte di pochi delle risorse è quello della terra, nel quale c’è una perfetta continuità fra il passato e il presente.

Menghistu (1977-1991) nazionalizzò i latifondi, una scelta che da alcuni sarebbe definita socialismo. Il problema è che già allora ai contadini senza terra venivano concessi in uso piccoli appezzamenti, ai funzionari statali restava il meglio da sfruttare affittandola o gestendola con manodopera salariata. Dal periodo Zenawi fino ad oggi la terra è diventata un vero e proprio business grazie al land grabbing, cioè l’affitto, di solito per 99 anni, della terra alle grandi multinazionali dell’agro alimentare. I contadini che non possono accampare alcun diritto di proprietà, perdono la possibilità di utilizzare le terre comuni del villaggio come pascolo. Solo una piccola parte trova lavoro come braccianti a basso costo, la maggioranza viene espulsa anche con la forza dai villaggi e confinata in campi profughi. Spesso l’acqua già scarsa viene monopolizzata da queste grandi multinazionali e completamente tolta agli abitanti originari.

Una inchiesta di Human Rights Watch, rivelò che dal 2008  al 2011 il governo etiope aveva affittato 3,6 milioni di ettari di terreno, un’area equivalente alle dimensioni dei Paesi Bassi, a investitori stranieri (nota 6). Ad approfittarne investitori provenienti da India, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cina ed Egitto. Fino ad allora si è trattato di investimenti per la produzione agroalimentare. Ma si sta profilando l’ipotesi dell’utilizzo della terra per la produzione di biocarburante. Circa un milione e mezzo di contadini oromo sono stati così deportati o sono fuggiti dalle loro terre d’origine nel sud del paese. La situazione ha prodotto la rivolta degli Oromo nel 2018.

In questo modo l’Etiopia, in cui l’80% della forza lavoro è concentrato nel settore primario ha visto negli ultimi cinquant’anni  la trasformazione capitalistica dell’agricoltura, con Mengistu giustificata dal modello stalinista delle nazionalizzazioni, con gli altri governi favorita da ideologie liberiste, con il risultato di una progressiva espulsione dalla terra dei contadini, come avvenne con gli Enclosures Acts in Inghilterra a cavallo del XVIII-XIX secolo, creando una massa di proletari a disposizione del capitale, indigeno o straniero.

Questo articolo vuole riportare l’attenzione sul Corno d’Africa e vuole essere una introduzione per ulteriori approfondimenti.

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Breve cronologia del Corno d’Africa

1882 Gibuti protettorato francese

1884 protettorato britannico sul Somaliland

1889 Somalia colonia italiana

1890 Eritrea ufficialmente colonia italiana

1935 conquista italiana dell’Etiopia, esilio di Hailé Selassieh

1941 truppe inglesi espellono italiani dall’Etiopia e dall’Eritrea

1950-60 amministrazione fiduciaria della Somalia da parte dell’Italia

1952 su pressione Usa, l’ONU federa l’Eritrea all’Etiopia, sotto il comando di Haileh Selassieh

1960 indipendenza della Somalia ex italiana ed ex britannica

1962 Hailé Selassieh annette l’Eritrea come provincia dell’impero

1969-1991 regime militare di Siad barre in Somalia

1974 Selassieh esautorato. Regime militare di Bante- Mengistu (DERG)

1977 Gijbuti, ex colonia francese, diventa indipendente

1991 cade il regime di Mengistu. Menes Zelawi leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray (FLPT) prende il potere

1993 Eritrea ottiene l’indipendenza dall’Etiopia. il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (FPLE), guidato da Isaias Afwerki, prende il potere

1998-2000 conflitto di frontiera fra Eritrea e Somalia

2018 in Etiopia eletto presidente Abiy Ahmed Ali

2020-oggi guerra del Tigray

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Nota 1 In molti giornali, ad es. Analisi Difesa, e libri la regione del Tigray o Tigrayan è chiamata Tigré, un termine spregiativo (significa servo) coniato dalle élites dominanti ahmara, che espressero gli imperatori etiopi, un nome quindi rifiutato dai tigrini, che viceversa a volte si definiscono tigragna o tigrayan. Tigrè è anche il nome di una etnia minoritaria presente in Eritrea nell’area ai confini con il Sudan. La lingua tigré è affine al tigrino, cioè appartiene al gruppo semitico, ma ha un uso prevalentemente orale.

Nota 2  Nella prima fase della guerra le truppe federali ed eritrei hanno ricacciato le forze ribelli all’interno del paese, occupando la capitale Maccallé. Poi un’offensiva congiunta di Tigrini e Oromo ha inflitto cocenti sconfitte alle truppe federali, minacciando Addis Abeba , conquistando ampie porzioni delle regioni dell’Ahmara e dell’Afar, nel centro-nord del paese, minacciando la strategica linea ferroviaria  Addis Abeba-Gibuti. Nel corso del ’22, dopo 5 mesi di tregua, l’esercito etiope ha recuperato terreno e per questo si è arrivati alle trattative di pace.

Nota 3  Questi aspetti meritano un approfondimento a parte, che è rimandato ad altri articoli. Basti anticipare che l’Etiopia da fedele alleata degli Usa ha nell’ultimo periodo fatto importanti concessioni a Cina e Russia, che Afwerki passa per un buon amico della Cina e che sul Corno d’Africa continuano a concentrarsi gli appetiti non solo degli imperialismi “storici” europei, ma anche delle petro monarchie del Golfo e di alcuni stati africani, fra cui Nigeria, Sudan Egitto e Sudafrica.

 L’Italia ha buoni rapporti sia col nuovo governo etiope sia col dittatore Afwerki (ripresi durante il governo Renzi). L’Italia ha firmato con Abiy Ahmed un accordo di cooperazione militare con l’Etiopia il 10 aprile 2019 (governo Conte 1), Di Maio lo ha incontrato nel giugno 2022 e Giorgia Meloni ha avuto un incontro bilaterale molto cordiale con lui a margine dei lavori della CoP 27. Anche i rapporti dei governi italiani con il Corno d’Africa merita un approfondimento.

Analisi Difesa si è dedicata con grande entusiasmo agli aspetti militari:
cfr. https://www.analisidifesa.it/2022/02/lo-stallo-abissino-dopo-15-mesi-di-guerra/

Il conflitto non è certo portato avanti coi machete. L’esercito del Tigray punta più su metodi di guerriglia, spesso utilizzando armi sottratte al nemico, contando sul terreno montuoso punteggiato di vecchie roccaforti militari, ma rifugiandosi anche nei santuari forniti dal Sud Sudan. L’Etiopia attacca con droni e bombardamenti a tappeto e questo spiega l’alto numero dei morti. L’Eritrea getta nel conflitto ragazzini di 14-15 anni. Tutti accusano gli avversari di atrocità inaudite e probabilmente hanno tutti ragione.

Nota 4) dalla metà degli anni ‘70   e per tutti gli anni ’80, il Fronte di liberazione del popolo eritreo (Eritrean People’s Liberation Front – EPLF), di dui Afwerki fu un fondatore, il movimento secessionista che voleva l’indipendenza dell’Eritrea, e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF), il gruppo secessionista del Tigray, fondato nel 1975, furono alleati nella lotta contro il governo militare di Menghistu, che aveva rovesciato la monarchia di Hailé Selassieh nel 1974. Un’alleanza allargata a gruppi di opposizione fra cui il Movimento Democratico del Popolo Etiopico (MDPE) di etnia amhara. Alla caduta di Mengistu nel 1991 Issaias Afwerki e Meles Zenawi, entrambi tigrini, entrambi appartenenti alla Chiesa ortodossa etiope, ex compagni di lotta contro il dittatore, si trovano così ad essere l’uno guida del partito indipendentista eritreo, l’altro capo di stato etiope. Scoppiano da subito piccole e grandi tensioni per la definizione dei confini. La separazione ufficiale nel 1993 dell’Eritrea viene accettata da Zenawi, ma fra il 2998 e il 2000 i due paesi si combattono una feroce guerra che costa più di 70 mila vittime. La pace è firmata ad Algeri, è  l’ Organizzazione per l’Unità Africana (OAU) a fornire la mediazione diplomatica e si crea una fascia di 25 KM di interposizione fra i due paesi, garante l’ONU fino al 2007.

Nota 5) questo controllo sulle enormi risorse naturali  ed economiche da parte della borghesia tigrina, ha permesso un accumulo di ricchezze spropositato, ricchezze che hanno permesso la creazione di istituzioni finanziarie di peso. Il TLPF ha perso o rischia di perdere ad es. il controllo della Ethio Telecom, della Ethiopian Sugar Corporation, di alcune società  l settore energetico con un patrimonio di oltre 7 miliardi di dollari, di banche ecc.. Nota 6) Dopo questa inchiesta non sono più stati pubblicati dati aggiornati.

 

Vedi anche http://sicobas.org/2020/12/19/etiopia-land-grabbing-rapina-sulla-pelle-di-milioni-di-etiopi-in-cui-si-insericono-gli-eventi-bellici/

 

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