Sudan, una rivoluzione popolare tradita

combat-coc.org – 17/05/2023

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Il conflitto tra due bande militari nel riassetto dei rapporti tra le potenze

Lo scorso 15 aprile in Sudan è scoppiata la guerra tra due fazioni militari salite al potere a seguito del golpe del 2021. Da una parte le Forze di Supporto Rapido (FSR), gruppo paramilitare propaggine delle famigerate milizie janjaweed accusate di crimini di guerra nella regione orientale del Darfur capeggiate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (noto come Hemedti), ora vicepresidente del Sudan, e dall’altra le Forze Armate regolari Sudanesi (FAS), sotto il comando del generale Abdel Fattah al-Burhan, attuale presidente de facto, per decidere quale delle due cricche di assassini potrà saccheggiare il paese.

Sudan

I rifugiati dal Sudan, 15 aprile-1° Maggio 2023

Centinaia le vittime e i feriti di questa guerra, quasi 400.000 le persone costrette ad abbandonare le proprie case, rifugiandosi in parte nei paesi confinanti, Ciad, Egitto, Etiopia e Sud Sudan. Esodo che secondo l’Onu è destinato a raddoppiare nei prossimi mesi.

Una catastrofe sociale ed umanitaria che si aggiunge alle condizioni già drammatiche antecedenti la attuale guerra, con circa 15 milioni di persone (un terzo dei sudanesi) che necessitavano di aiuti d’emergenza e quasi 12 milioni che soffrivano la fame. Nel 2021 l’inflazione, già molto alta, raggiunse il 358% a seguito del deprezzamento della valuta e della revoca dei sussidi sui combustibili, condizioni imposte dall’FMI in cambio di “aiuti”; il tasso di povertà giunse al 55,9%.

Quella in corso è una resa dei conti da tempo preannunciata, conseguenza della mancata reale presa del potere da parte delle masse sudanesi con le rivolte del 2018-19, ampie e ben organizzate.

(A riguardo segnaliamo il nostro scritto del 2019, su questo stesso sito: https://www.combat-coc.org/sudan-la-giunta-militare-tenta-di-dividere-il-fronte-di-lotta/)

Non si tratta però di un conflitto limitato alla contesa per il potere tra due fazioni militari sudanesi. Esso potrebbe ridefinire i rapporti di forza nell’intera regione del Grande Corno d’Africa, con il coinvolgimento di attori regionali, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Israele in primis, ciascuno con una serie di interessi specifici, che approfittano del declino del predominio statunitense.

E, dialetticamente, questa lotta di potere tra due corrotti signori della guerra è a sua volta, in parte, il risultato di una lotta di potere regionale e, sempre più, globale, espressione del cambiamento dell’ordine mondiale e dell’intensa lotta per le risorse e le aree critiche tra grandi e medie potenze globali.

Lo scritto che segue riguarda principalmente gli eventi interni del paese a partire dal 2018 alla guerra attuale tra le due fazioni militari.

Una seconda parte riguarderà il paese nel contesto regionale e internazionale.

L’esteso e forte movimento di massa del 2018-19 portò sì al rovesciamento rivoluzionario del generale Omar al-Bashir, ma venne poi cavalcato e deviato da alcune componenti sociali[1] della protesta a favore di un compromesso democraticista con le fazioni militari.[2]

L’accordo siglato il 17 agosto 2019 tra giunta militare (TMC) e movimento di protesta, che conteneva un progetto di riforma istituzionale in senso democratico, tradì le aspettative di milioni di sudanesi che per otto mesi avevano lottato per un futuro migliore. Esso lasciò in realtà intatto il potere dei resti del regime deposto e delle due componenti dei militari. I quali di fatto arraffarono la maggioranza[3] del governo di transizione (Consiglio Sovrano), mentre i leader della rivoluzione avallavano la farsa, come socio di minoranza della controrivoluzione. Sotto la copertura di questo accordo, la Giunta ebbe mano libera per smobilitare il movimento di massa e creare le condizioni per ristabilire “l’ordine”, la sottomissione totale della popolazione al regime, mentre dietro le quinte continuava lo scontro tra esercito e forze speciali.  Così, giunti allo spartiacque della consegna del potere nell’ottobre dello scorso anno, i due generali attuarono, dopo quello dell’ottobre 2021, un secondo colpo di stato estromettendo definitivamente i rappresentanti civili. E da quel momento è tra loro una lotta senza quartiere e con ogni mezzo per il predominio, divenuta guerra armata dallo scorso aprile.

Cade un dittatore, si aprono le lotte di potere nel nuovo governo di transizione

Nella prima fase delle rivolte ad inizio aprile 2019, le FSR si schierarono a difesa del dittatore. Repressero ferocemente, con centinaia di vittime, il sit-in di protesta che da due giorni presidiava a Khartoum il quartier generale delle forze armate, chiedendo le dimissioni di Bashir e del suo governo. Già in quell’occasione emersero fratture politiche tra esercito e forze speciali (Intelligence, servizio di sicurezza e Janjaweed), che Al-Bashir aveva privilegiato rispetto alle truppe regolari, con una tattica di contrapposizione, funzionale al mantenimento del suo controllo.[4]

Nonostante i tentativi delle forze di sicurezza di fermarli, i manifestanti riuscirono a presentare un appello scritto ai soldati chiedendo di schierarsi dalla loro parte. Quando la polizia antisommossa e gli agenti dei servizi segreti caricarono i manifestanti, i militari di grado inferiore a guardia del complesso, compreso un colonnello, presero le loro difese.

Dopo essere stati costretti dalle rivolte popolari a deporre il dittatore, i due generali al comando di esercito e FSR si accordarono per mantenere le redini del potere partecipando ad un governo di transizione misto, formato da una Giunta militare (TMC) e da una coalizione di civili, le Forze per la Libertà e il Cambiamento, FLC.

Le FLC, organizzate dalla Associazione dei Professionisti Sudanesi, comprendono la maggior parte dei partiti di opposizione riconosciuti, organizzazioni sindacali, gruppi della società civile, alcuni movimenti ribelli e “comitati di resistenza” di quartiere, che sono stati la principale forza di mobilitazione della popolazione. Questi ultimi rifiutarono la collaborazione con i militari e, pur coordinandosi con l’FLC, furono molto critici sull’operato dei suoi leader nel governo di transizione. Le proteste popolari continuarono per mesi dopo la rimozione di Bashir – frequenti raduni di massa, disobbedienza civile, scioperi vari, di cui il più rilevante fu quello dei portuali di Port Sudan, due scioperi generali, a maggio e giugno 2019, e la “marcia del milione di uomini” del 14 luglio. Le proteste ebbero una breve pausa a seguito della feroce repressione, il 3 giugno, per opera delle RSF. Oltre 120 vittime, massacrate a colpi di machete e gettate nel Nilo, circa 700 feriti, e decine gli stupri.[5]

I due anni successivi al dopo-Bashir vennero caratterizzati da un continuo attrito nel governo tra la componente militare e quella civile, come pure da divisioni interne a quest’ultima coalizione.

Golpe e inizio della controrivoluzione

Il governo di transizione avrebbe dovuto lasciare il posto ad uno di soli civili dal 25 ottobre 2022, come concordato il 17 agosto 2019 tra Giunta militare e alcune componenti delle FLC.[6]

Il documento costituzionale del 2019 prevedeva, tra l’altro la riforma/ristrutturazione delle forze armate sudanesi, l’integrazione in esse delle RFS, cioè con il loro smantellamento.

L’Accordo di pace di Juba del 2020 tra varie formazioni militari e di ribelli, mentre a parole ribadiva l’obiettivo di riforma dell’apparato di sicurezza sudanese e la consegna di tutte le società e le imprese economiche a un governo di civili, servì di fatto a portare al governo molti dei ribelli che poi appoggeranno il colpo di stato dell’ottobre 2021.

Il 25 ottobre 2021, Burhan e Hemedti attuarono un nuovo colpo di Stato, contro il primo ministro civile, il liberale Abdalla Hamdok, esautorando il governo fantoccio di transizione e ripristinando di fatto il regime militare, anche se a fine novembre Hamdok e il generale golpista al-Burhan giunsero ad un nuovo accordo, sotto egida ONU! L’alleanza con i liberali doveva fare da copertura al regime dei generali.

L’accordo dei due generali per il colpo di stato fu un matrimonio di convenienza per impedire i tentativi in corso di parte del movimento di protesta di smantellare la loro rete di potere. Per questo fine era stato costituito il Comitato per smantellare il regime (Regime Dismantlement Committee – Rdc). Nel suo breve periodo di attività esso emise centinaia di provvedimenti di sequestro dei beni posseduti da affiliati del deposto regime, rimosse centinaia di persone da posti governativi, sciolse organizzazioni non governative ancora gestite da personale del governo destituito, finalizzate a consolidare il consenso popolare.

Il golpe soppresse questo comitato, ne cassò e vanificò le risoluzioni, e al contempo accelerò e acuì la contesa per il potere tra al-Burhan e Hemedti, ognuno dei quali cercò l’appoggio di potenze diverse. In questo modo tutte le prospettive di cambiamento furono cassate.

Le proteste popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita e la violenta repressione

Il golpe innescò una nuova lunga ondata di proteste popolari, quasi quotidiane, in risposta alla violenza politica e al peggioramento delle condizioni di vita da essa causato. Per compensare la perdita delle entrate derivanti dalla sospensione dei vari finanziamenti internazionali,[7] la giunta golpista aumentò il prezzo di molte merci e servizi, tasse e imposte varie, e di conseguenza il prezzo del pane si moltiplicò per dieci, altri beni di prima necessità del 200-300%; benzina e diesel di oltre il 135%.

L’Associazione dei Professionisti Sudanesi e le FLC chiamarono alla disobbedienza civile di massa assieme al Partito Comunista Sudanese, il quale invitò anche i lavoratori a scioperare. Il 17 gennaio 2022 migliaia di manifestanti provenienti da 17 città partecipano alla 14protesta nazionale di massa dopo il colpo di Stato dell’ottobre 2021. Le proteste vennero represse in modo spietato e capillare, con perquisizioni e arresti casa per casa. L’Associazione dei Medici Socialisti denunciò l’“urgente bisogno di sangue” dell’ospedale Royal Care, nei pressi del quartier generale dell’esercito.

Accanto alle mobilitazioni rivoluzionarie di piazza contro i generali, ci sono stati grandi scioperi in alcuni settori per i salari e le condizioni di lavoro. Gli insegnanti di tutto il Sudan hanno scioperato, riuscendo a strappare alcune concessioni su salari e condizioni di lavoro. Hanno scioperato anche i dipendenti pubblici e i quelli del settore bancario. In seguito ai successi ottenuti nello sciopero, gli attivisti del Comitato Sudanese degli Insegnanti (CTS) hanno organizzato assemblee di base in tutto il paese allo scopo di organizzare un nuovo sindacato con una base di massa, non più espressione del partito al potere.

La feroce repressione delle RFS non riuscì, tuttavia, a fermare le rivolte.[8]

Sotto la pressione delle proteste di piazza, il Coordinamento dei Comitati di Resistenza (in rappresentanza dei comitati di resistenza di quartiere), il Partito Comunista e l’Associazione dei Professionisti Sudanesi (SPA) respinsero i negoziati con i militari proposti dall’Onu e dai paesi Arabi, riaffermando i principali slogan della rivoluzione: nessun negoziato, nessun compromesso, nessuna condivisione del potere con i militari.

A fine febbraio 2022, i Comitati di resistenza presentano la loro “Carta per l’istituzione dell’Autorità popolare” che annulla l’accordo del 2019 sulla condivisione del potere con i militari, e chiede la revisione dell’accordo di Juba che aveva portato al potere esponenti delle milizie firmatarie. Le rivendicazioni della Carta ripropongono un percorso di transizione democratica. Ma diventa subito chiaro che  militari e forze di sicurezza non intendono perdere il controllo dell’economia del paese, difendendo interessi corporativi e personali dei vertici militari stessi.

Il carattere socio-economico del regime militare

Deposto Bashir, infatti, permane la base del suo potere, il cosiddetto stato parallelo, “deep state”, basato su una rete di funzionari di medio ed alto grado degli apparati di sicurezza e delle istituzioni governative, che gestiscono le risorse del paese. Sarebbero 408 le imprese controllate direttamente o indirettamente dallo stato, che operano in vari settori, dall’industria civile, all’agricoltura, all’esportazione di carne e all’estrazione mineraria (oro, in particolare), al sistema bancario, all’industria militare.[9]

L’esercito di al-Burhan ha le mani su circa 250 aziende vitali, la ricchezza di Hemedti deriva, invece, soprattutto dal controllo delle miniere d’oro. Tra le società di cui il governo, o meglio lo stato parallelo, è proprietario c’è la Military Industry Corporation’s (Mic) che produce armamenti, anche su licenza, in particolare russa, iraniana e più recentemente cinese, e ne esporta. Grazie a MIC il Sudan è uno dei maggiori produttori africani di armi, terzo dopo Egitto e Sudafrica. Il complesso dell’auto GIAD è controllato direttamente dal governo. Il Sudan si posiziona terzo in Africa anche per la produzione di oro, dopo Ghana e Sudafrica. E la produzione di oro del Darfur è nelle mani di Hemedti e dei fratelli.[10] Hemedti l’ha utilizzato per le sue milizie, e per assicurarsi alleanze. Ogni anno il Sudan esporta 16MD$ di oro negli Emirati, con i quali Hemedti è in stretta relazione, ma ne riceve anche Putin, che lo utilizza per finanziare la guerra in Ucraina bypassando le sanzioni dell’Occidente. Sono di proprietà diretta dell’esercito o delle RFS diverse imprese finanziarie tra cui fondi per interventi caritativi e fondazioni, attraverso cui controllano varie attività finanziarie, comprese diverse banche.

Tra queste la Banca Omdurman, la più importante del paese, proprietà dell’esercito per l’86,9% grazie a giri societari, cosicché essa ha potuto operare sul mercato finanziario internazionale senza problemi, anche durante il periodo delle sanzioni americane.

Khaleej Bank, invece, è controllata principalmente da joint venture che appartengono agli Emirati Arabi Uniti e alle Forze di Supporto Rapido (RSF), che tra loro hanno forti relazioni politiche ed economiche. La famiglia del capo delle RSF Mohamad Hamdan Dagalo (Hemedti) controlla il 28,35% delle sue azioni.

C’è poi Zadna International Company for Investment Ltd, un conglomerato agricolo, in precedenza pubblico poi rilevata dai militari, i quali ne monopolizzano le entrate e non permettono al Ministero delle Finanze di accedervi. Zadna ha gestito numerosi schemi di irrigazione e affittato appezzamenti di terreno a investitori privati. Nel suo consiglio di amministrazione siede il fratello di Hemedti.

Nel 2019 le RSF disponevano di mezzi tali da permettere ad Hemedti di finanziare con oltre 1 miliardo di dollari la Banca centrale sudanese, nel mezzo della crisi economica esplosa dopo la destituzione di Bashir.

Conclusioni

Secondo un gruppo di marxisti britannici[11] ormai i giochi sarebbero fatti in Sudan. Come per le altre rivoluzioni, anche quella del 2019 è stata «tradita dai suoi leader, che si sono sempre rifiutati di sostenere un confronto decisivo armato tra le masse e la classe dominante». Secondo il marxista iraniano, della Tendenza marxista Internazionale, Hamid Alizadeh, nel 2019 «il potere era a portata di mano del movimento. Ma i leader dell’Associazione Professionale Sudanese (APS), che si erano posti alla testa della rivoluzione, esitarono, rifiutandosi di compiere i passi necessari. Nonostante la maggioranza dei soldati fosse contraria alla Giunta militare, l’ASP non volle chiamare i ranghi dell’esercito a rompere con i loro generali controrivoluzionari.»

Se con questo giudizio si vuol sottolineare che la “diarchia di potere” fra le masse in movimento e i militari non poteva durare a lungo, che uno dei due doveva prevalere, possiamo essere d’accordo. Cioè o le masse rovesciavano l’apparato economico-militare che domina il paese o quest’ultimo avrebbe schiacciato la rivolta.

Ma quello che è da valutare è se il movimento, esteso e forte, ma democratico e pacifico che si è sviluppato in Sudan poteva “prendere il potere”. La dirigenza del movimento, evidentemente, ha valutato di no, per mancanza di volontà politica o per la sua valutazione della situazione sul campo.

Una situazione che sia sul terreno militare, che politico e sociale è alquanto complessa, composita e, di certo, molto differente da quella in cui vivono i rivoluzionari dei paesi capitalisticamente avanzati.

Basti riflettere sul fatto che in Sudan il processo di proletarizzazione è ancora molto parziale, che l’agricoltura genera il 35-40% del PIL e impiega il 70-80% della forza lavoro nelle aree rurali. Ed anche che l’intellighenzia costituita dalla Associazione dei Professionisti Sudanesi – che si è formata politicamente nei trent’anni di resistenza clandestina e di piazza alla dittatura di Bashir e che si è posta alla guida del recente  movimento rivoluzionario – è composta da insegnanti, avvocati, medici, tutti al di sotto della soglia di povertà, guadagnando in alcuni casi meno di $ 50 al mese.[12] Questa Intellighenzia è un retaggio del colonialismo britannico, come pure il divario città campagna.

Nelle aree urbane, in particolare a Khartoum, il colonialismo coltivò una classe istruita, (“efendiya”) per riempire i ranghi inferiori della pubblica amministrazione …

La classe degli effendi ha frequentato il college, ma lavora a salari infimi e ha condotto scioperi durissimi per ottenere miglioramenti salariali e di status.

In un articolo del 2019, ancora attuale,[13] sulla rivista londinese Historical Materialism, alcuni intervistati sudanesi della diaspora sottolineavano come la rivoluzione del 2018 sia nata in un contesto urbano e la leadership è stata “maschile, “araba”, urbana, istruita e con sede a Khartoum. È un’élite in opposizione ma comunque un’élite. Mentre la maggior parte dei manifestanti, in particolare i giovani, era sospettosa nei confronti dei partiti politici, l’APS ha goduto della loro fiducia. Infatti i suoi membri erano presenti nelle lotte di strada, sono stati arrestati.

In questa leadership c’è una componente di anziani (medici ingegneri avvocati) che hanno partecipato come studenti alle lotte del 1964 contro la dittatura militare di Ibrahim Abboud e/o alla rivolta del 1985 contro Jafar al-Nimeiri. Ma altri sono giovani operai, spesso senza istruzione, ma da sempre in opposizione al regime e in grado di esprimersi in un modo più diretto, e usano a volte il dialetto e il linguaggio di strada. La componente operaia più importante è data dai ferrovieri. È questo che permette all’APS di dialogare coi movimenti di piazza.

Negli anni precedenti al 2018 l’APS è stata un’organizzazione clandestinapresente con pochi leader visibili e potenzialmente centinaia di membri. L’iscrizione è tuttora per lo più segreta, salvo alcuni portavoce che compaiono di quando in quando in piazza. Molti hanno una lunga esperienza di attività come membri dei sindacati illegali, molti sono comunisti, ma indipendenti dal Partito Comunista sudanese che è stalinista. Hanno fatto tesoro dell’esperienza della rivoluzione egiziana del 2011 acquisendo una sostanziale diffidenza contro l’esercito e contro la democrazia portata dai generali. Nessuno di loro ha tentato di mediare coi militari bypassando i manifestanti.

La coesistenza delle diverse componenti (intellettuali/operai, anziani/giovani) non può avvenire senza contraddizioni. Nell’articolo si sottolinea come la leadership APS, quella più a sinistra dentro l’opposizione, non ha comunque assunto posizioni di classe e ha insistito per mantenere il movimento dentro i confini democratici e pacifici laddove invece nelle campagne i movimenti di rivolta sono stati da subito movimenti armati. D’altro canto il futuro di medici, avvocati e ingegneri in un Sudan “democratico”, non sarebbe lo stesso dei braccianti delle piantagioni o dei minatori e comunque la componente operaia è ancora minoritaria, si sta facendo le ossa in sindacati clandestini.

Sono tutti aspetti da approfondire per dare degli avvenimenti sudanesi una valutazione basata sulla realtà e non su sterili formule stereotipate.

Nei fatti, in mancanza di organismi internazionalisti sovranazionali, il pallino se cogliere o meno le opportunità sta nelle mani delle forze rivoluzionarie presenti sul campo, se esistono.

In ogni caso, se gli eventi a cui stiamo assistendo rappresentano una sconfitta per i lavoratori e le classi oppresse del Sudan, questa sconfitta deve essere fonte di insegnamenti politici per il movimento popolare sudanese, ma anche per tutto il movimento operaio internazionale.[14] A cominciare dalla conoscenza della situazione di classe del proletariato, ma anche degli interessi concreti delle varie frazioni della sua borghesia, armata o democratica che sia, alle modalità con le quali essa li difende, e anche alle ideologie liberal-democratiche che fungono da cavallo di troia, a loro scudo.

La corposa ingerenza in Sudan di potenze regionali (Egitto, Israele, Arabia Saudita, Emirati, Etiopia) e imperialiste influisce certamente sui caratteri e sulle potenzialità della borghesia militare sudanese, un fattore che deve essere preso in considerazione per una valutazione politica degli eventi sudanesi.


[1] Cfr.: https://www.historicalmaterialism.org/news/special-issue-saq-whats-left-left-view-from-sudan

… «In Sudan, i movimenti di resistenza urbana tendono ad essere guidati da professionisti/intellettuali della classe media – anche se questi stessi sono prossimi alla povertà e/o sono spesso disoccupati. Questa è una classe media, che o si è laureata al college, per poi non trovare lavoro, o ha nei suoi ricordi un periodo di esistenza precaria. Appartengono solo culturalmente ma non materialmente alla piccola borghesia. L’Associazione dei Professionisti Sudanesi, prima di organizzare queste proteste, venne alla ribalta con un ampio studio sul salario minimo dei “professionisti” sudanesi (insegnanti, avvocati, dottori), che rilevò che erano tutti al di sotto della soglia di povertà, guadagnando in alcuni casi meno di $ 50 al mese. Ma questa non è da considerare una rivolta della classe piccola borghesia nel suo stesso interesse. Coloro che corrono più rischi, che affrontano a testa alta i lacrimogeni, sono per lo più gli emarginati, classe operaia, artisti affamati, rasta, gioventù controcorrente. È il contesto urbano.» … «Ciò che ha fatto funzionare questa rivoluzione è stata la capacità di coordinamento tra i due gruppi sociali, la “classe media” (piccola borghesia) espropriata, con la classe operaia e gli strati emarginati, hanno fatto pressione sui servizi di sicurezza dei servizi segreti nazionali (NISS) nelle maggiori città».

[2] Cfr. https://www.combat-coc.org/sudan-la-giunta-militare-tenta-di-dividere-il-fronte-di-lotta/

[3] Il Consiglio Sovrano, il governo di transizione, era composto da 11 membri, 5 espressi dai militari e 5 dai civili, + un membro concordato, che si rivelò essere un ufficiale in pensione. Inoltre per i primi 21 mesi il capo del Consiglio doveva venire nominato dalla Giunta militare, e nei seguenti 18 mesi da uno espresso dalle FSC.

[4] https://www.reuters.com/article/us-sudan-protests-idUSKCN1RK0DR

[5] Ibidem.

[6] Sulla composizione del governo di transizione e sulle forze di opposizione che non aderirono all’accordo, vedi https://www.combat-coc.org/sudan-la-giunta-militare-tenta-di-dividere-il-fronte-di-lotta/, Nota V

[7] Vengono persi circa 4,6 MD $, da Banca Mondiale, a vari “donatori” esteri, agli Usa. Il Club di Parigi sospende la riduzione del debito.

[8] Cfr. https://socialist.net/sudanese-revolution-in-danger/ 20.01.2022

Video delle rivolte, gennaio 2022: https://twitter.com/i/status/1483128394216787972

[9] Secondo un rapporto della onlus statunitense Center for Advanced Defense Studies – C4ads.

[10] Sulle fonti finanziarie delle RSF e Hemedti: “La rete finanziaria segreta delle RSF”, 9 dic. 2019: https://www.globalwitness.org/en/campaigns/conflict-minerals/exposing-rsfs-secret-financial-network/ Per l’origine delle corporazioni militari sudanesi, interessante lo studio del 1987 di Jstor.org: THE SUDAN: MILITARY ECONOMIC CORPORATIONS, Henry Bienen, Jonathan Moore; https://www.jstor.org/stable/45305791

[11] Di Marxist.org

[12] Cfr. nota 1.

[13] Cfr.: https://www.historicalmaterialism.org/index.php/blog/uprising-sudan-interview-with-sudanese-comrades

[14] Non a caso nell’articolo già citato di Historical Materialism, l’intervistata Sarah Abbas dichiara “penso che la fame sia ciò che ha dato il via alla rivoluzione, ma l’organizzazione è ciò che ha trasformato quella scintilla in un enorme fuoco in cui tutti hanno gettato le loro rimostranze come un fiammifero: povertà, razzismo, illegalità, espropriazione, oppressione patriarcale. La prima ondata di rivolte arabe ci ha dato anche alcuni ammonimenti, ad esempio: come gli attacchi controrivoluzionari giungano velocemente e in profondità e che non dobbiamo smantellare troppo presto i movimenti di strada perché sono tutto ciò che abbiamo… Ancora più importante, dobbiamo passare dal nazionalismo all’internazionalismo. Questo è un obiettivo elevato per la regione. Ma dobbiamo.”

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