Kosovo, Gen. Fabio Mini: “In ogni caso saremo con la guerra in casa per altri decenni”

Alessandro Bianchi e Chiara Nalli – 02/06/2023

Cosa succede in Kosovo. Generale Fabio Mini a l’AD: “In ogni caso saremo con la guerra in casa per altri decenni” – L’Intervista de l’AntiDiplomatico – L’Antidiplomatico (lantidiplomatico.it)

 

Come l’AntiDiplomatico abbiamo avuto l’onore di intervistarlo più volte sul conflitto in Ucraina. La prima intervista, in particolare, è stata letta da oltre 100 mila italiani, che hanno così trovato un valido antidoto alla propaganda martellante e a senso unico.

Un conflitto che aveva previsto, per le scelte scellerate della Nato, e del quale ne ha da subito indicato rischi, portata e scenari, poi tutti effettivamente realizzati.

Dalle pagine del Fatto Quotidiano e con le sue interviste, il generale Fabio Mini si è imposto come una delle voci più credibili e autorevoli. Con il suo libro “L’Europa in guerra” (Paper First) ha offerto informazioni imprescindibili da cui partire per ogni discussione seria sull’argomento.

L’Europa è in guerra in Ucraina. Ma c’è un altro scenario che inquieta e molto in queste ore. Come ex capo di Stato Maggiore del Comando NATO per il sud Europa, nonché comandante delle operazioni di pace a guida NATO in Kosovo, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, nessuno più del Generale Mini può aiutarci a comprendere quello che sta accadendo in questi giorni in Kosovo. Quante possibilità ci sono che si possa infiammare questo nuovo (vecchio) fronte?

L’INTERVISTA A L’ANTIDIPLOMATICO

Generale in Kosovo, i disordini di lunedì hanno visto il coinvolgimento e il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. Il contingente italiano della KFOR è visto con grande stima dalla popolazione serba di Kosovo. Nella dispersione dei manifestanti nel comune di Zvecani sono stati esposti in prima linea proprio i militari italiani. Ritiene che ci siano specifiche considerazioni dietro questa scelta?

Innanzitutto vorrei esprimere l’apprezzamento per l’analisi sulla situazione fatta per l’AD da Chiara Nalli. Semplicemente perfetta. Il fatto che in prima linea nell’affrontare i disordini ci siano stati gli italiani non è casuale. Gli interventi di quel genere sono pianificati e le forze selezionate in relazione agli scopi da raggiungere. Se lo scopo è reprimere violentemente, individuare gli agitatori, neutralizzarli anche effettuando  arresti di massa, in prima linea si mandano unità d’intervento rapido appositamente addestrate ed equipaggiate per azioni di breve durata sostenute da unità per il controllo del territorio; se lo scopo è dissuadere gli organizzatori dei disordini, le forze da schierare devono essere tante e preparate ad attaccare, ma l’azione principale è la pressione psicologica e politica sulle autorità locali; se lo scopo è limitare e contenere i disordini l’intervento è prettamente difensivo, non passivo, ma freddo, razionale anche a costo di subire qualche  perdita; se lo scopo è reattivo in senso proporzionale alla minaccia le forze devono possedere tutte le capacità citate ma saranno sempre soggette all’iniziativa dei dimostranti e il rischio di escalation della violenza è alto. Kfor ha sempre privilegiato l’approccio della limitazione della violenza e le forze italiane in prima o seconda linea si sono distinte in modo particolare per saggezza, fermezza e imparzialità. Ma Kfor rappresenta la forza della comunità internazionale guidata dalla Nato e se questa non è altrettanto lucida, fredda e imparziale ogni situazione rischia il peggio. Se lo scopo degli interventi non è più chiaro, se mentre si chiacchiera di sicurezza si accendono fuochi che la minacciano, se nei fatti si alimenta l’odio interetnico e si pretende che Kfor intervenga a sostegno delle forze di polizia locali che non hanno né capacità né volontà di essere imparziali, allora non importa quante e come siano le forze d’intervento: saranno sempre strumenti dell’ambiguità e dell’ipocrisia.

Generale in Kosovo, i disordini di lunedì hanno visto il coinvolgimento e il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. Il contingente italiano della KFOR è visto con grande stima dalla popolazione serba di Kosovo. Nella dispersione dei manifestanti nel comune di Zvecani sono stati esposti in prima linea proprio i militari italiani. Ritiene che ci siano specifiche considerazioni dietro questa scelta?

Innanzitutto vorrei esprimere l’apprezzamento per l’analisi sulla situazione fatta per l’AD da Chiara Nalli. Semplicemente perfetta. Il fatto che in prima linea nell’affrontare i disordini ci siano stati gli italiani non è casuale. Gli interventi di quel genere sono pianificati e le forze selezionate in relazione agli scopi da raggiungere. Se lo scopo è reprimere violentemente, individuare gli agitatori, neutralizzarli anche effettuando  arresti di massa, in prima linea si mandano unità d’intervento rapido appositamente addestrate ed equipaggiate per azioni di breve durata sostenute da unità per il controllo del territorio; se lo scopo è dissuadere gli organizzatori dei disordini, le forze da schierare devono essere tante e preparate ad attaccare, ma l’azione principale è la pressione psicologica e politica sulle autorità locali; se lo scopo è limitare e contenere i disordini l’intervento è prettamente difensivo, non passivo, ma freddo, razionale anche a costo di subire qualche  perdita; se lo scopo è reattivo in senso proporzionale alla minaccia le forze devono possedere tutte le capacità citate ma saranno sempre soggette all’iniziativa dei dimostranti e il rischio di escalation della violenza è alto. Kfor ha sempre privilegiato l’approccio della limitazione della violenza e le forze italiane in prima o seconda linea si sono distinte in modo particolare per saggezza, fermezza e imparzialità. Ma Kfor rappresenta la forza della comunità internazionale guidata dalla Nato e se questa non è altrettanto lucida, fredda e imparziale ogni situazione rischia il peggio. Se lo scopo degli interventi non è più chiaro, se mentre si chiacchiera di sicurezza si accendono fuochi che la minacciano, se nei fatti si alimenta l’odio interetnico e si pretende che Kfor intervenga a sostegno delle forze di polizia locali che non hanno né capacità né volontà di essere imparziali, allora non importa quante e come siano le forze d’intervento: saranno sempre strumenti dell’ambiguità e dell’ipocrisia.

Generale in Kosovo, i disordini di lunedì hanno visto il coinvolgimento e il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. Il contingente italiano della KFOR è visto con grande stima dalla popolazione serba di Kosovo. Nella dispersione dei manifestanti nel comune di Zvecani sono stati esposti in prima linea proprio i militari italiani. Ritiene che ci siano specifiche considerazioni dietro questa scelta?

Innanzitutto vorrei esprimere l’apprezzamento per l’analisi sulla situazione fatta per l’AD da Chiara Nalli. Semplicemente perfetta. Il fatto che in prima linea nell’affrontare i disordini ci siano stati gli italiani non è casuale. Gli interventi di quel genere sono pianificati e le forze selezionate in relazione agli scopi da raggiungere. Se lo scopo è reprimere violentemente, individuare gli agitatori, neutralizzarli anche effettuando  arresti di massa, in prima linea si mandano unità d’intervento rapido appositamente addestrate ed equipaggiate per azioni di breve durata sostenute da unità per il controllo del territorio; se lo scopo è dissuadere gli organizzatori dei disordini, le forze da schierare devono essere tante e preparate ad attaccare, ma l’azione principale è la pressione psicologica e politica sulle autorità locali; se lo scopo è limitare e contenere i disordini l’intervento è prettamente difensivo, non passivo, ma freddo, razionale anche a costo di subire qualche  perdita; se lo scopo è reattivo in senso proporzionale alla minaccia le forze devono possedere tutte le capacità citate ma saranno sempre soggette all’iniziativa dei dimostranti e il rischio di escalation della violenza è alto. Kfor ha sempre privilegiato l’approccio della limitazione della violenza e le forze italiane in prima o seconda linea si sono distinte in modo particolare per saggezza, fermezza e imparzialità. Ma Kfor rappresenta la forza della comunità internazionale guidata dalla Nato e se questa non è altrettanto lucida, fredda e imparziale ogni situazione rischia il peggio. Se lo scopo degli interventi non è più chiaro, se mentre si chiacchiera di sicurezza si accendono fuochi che la minacciano, se nei fatti si alimenta l’odio interetnico e si pretende che Kfor intervenga a sostegno delle forze di polizia locali che non hanno né capacità né volontà di essere imparziali, allora non importa quante e come siano le forze d’intervento: saranno sempre strumenti dell’ambiguità e dell’ipocrisia.

Tornando alla missione KFOR. Come lei ci spiega nel suo libro: “il coinvolgimento internazionale della Nazioni Unite e della NATO si è protratto sul piano amministrativo e militare concedendo al territorio conteso (Kosovo) uno status indefinito con la formula che “lo status finale sarà deciso con accordi tra le parti”. Una formula riportata nella risoluzione dell’ONU 1244 che non è servita a nulla e che è stata smentita dalle stesse Nazioni Unite quando hanno avallato la dichiarazione unilaterale di indipendenza dei territori sottratti alla sovranità della Serbia”. Allo stato attuale, le forze ONU e NATO in Kosovo stanno nuovamente avallando una violazione di un accordo internazionale da parte di Pristina, legittimando de facto la creazione di un esercito nazionale? Quale peso potrebbe avere questo elemento negli scenari futuri? 

Allo stato attuale la risoluzione 1244 è carta straccia. Serve ancora per mantenere una missione politico amministrativa ed una militare che hanno perso il valore iniziale: accompagnare il Kosovo e i Balcani interi in un percorso di ricostruzione, sicurezza e stabilità necessari alla sicurezza dell’intera Europa. Dopo vent’anni siamo ai problemi anteguerra. Le missioni militari straniere che garantiscono la sicurezza anche di una piccola parte del territorio estero sono forze di “occupazione”, come chiariscono i Regolamenti dell’Aja del 1907 inclusi nelle Convenzioni di Ginevra. È una situazione “de facto” che prescinde dalle ragioni e fini dell’occupazione. Gli stessi documenti chiariscono i diritti e i doveri delle forze occupanti nei riguardi delle popolazioni civili soggette a occupazione. E sono più doveri che diritti. Ma considerando carta straccia anche queste regole, rimane una constatazione: in Kosovo, con la mania di imporre regole e la linea prettamente ideologica di sfasciare ciò che non si condivide, la presenza amministrativa e militare Onu e Nato ha rallentato e perfino impedito la presa di coscienza kosovara e serba sul fatto che esiste sempre un’alternativa alla guerra e al conflitto. Le forze militari che affermano di basarsi sulla prevenzione del conflitto, sul mantenimento della pace e sulla deterrenza sono destinate a fallire al primo colpo di pistola. La loro successiva utilità consiste soltanto nel condurre la guerra e perseguire la distruzione. Molti stati sono consapevoli di questa fragilità delle cosiddette “buone intenzioni” e si preparano per la guerra senza ambiguità. La Serbia, pur con mezzi limitati, appartiene a questa schiera. Il Kosovo che avrebbe dovuto essere disarmato, perché difeso dalla Nato, è stato indotto dalla stessa Nato a dotarsi di un esercito e di prepararsi alla guerra contro la Serbia con il sostegno della Nato. La creazione di un esercito nazionale impedita dagli accordi è stata realizzata in modo surrettizio con l’aiuto e il sostegno della Nato. Quando gli ex membri dell’UCK dovevano consegnare le armi e, se volevano, operare in un corpo di protezione civile (KPC) sono stati addestrati, riarmati e vestiti da alcuni paesi della Nato per continuare la loro guerra fino all’ultimo serbo. Un collega inglese in Kosovo incaricato di controllare il KPC non aveva dubbi: “Pensa, marcia e spara come un esercito: è un esercito”. Da allora le armi sono aumentate e questo esercito non ha mai avuto in mente un’alternativa alla guerra.

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