Mark Bernardini – 14/06/2024
Intervento di Putin al vertice del Ministero Esteri russo
traduzione simultanea di Mark Bernardini
Dall’Ambasciata della Federazione Russa in Italia
L’intervento del Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin durante l’incontro con i vertici del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa
14 giugno 2024, Mosca
Cari colleghi, buon giorno!
Sono lieto di dare il benvenuto a tutti voi e, all’inizio del nostro incontro e della nostra conversazione, vorrei ringraziarvi per il duro lavoro che svolgete nell’interesse della Russia e del nostro popolo.
L’ultima volta che ci siamo incontrati in un formato così ampio era la fine del 2021, novembre. Da allora si sono verificati molti eventi cruciali, senza esagerare epocali, sia nel Paese che nel mondo. Pertanto, ritengo sia importante valutare l’attuale situazione degli affari globali e regionali, e quindi fissare i relativi compiti per il Dicastero degli Esteri. Compiti tutti subordinati all’obiettivo principale: creare le condizioni per lo sviluppo sostenibile del Paese, garantirne la sicurezza e migliorare il benessere delle famiglie russe.
Lavorare in questo settore, in una realtà complessa e in rapida evoluzione come quella odierna, richiede da parte di tutti noi una concentrazione ancora maggiore di sforzi, iniziativa e perseveranza, la capacità non solo di rispondere alle sfide attuali, ma anche di formulare un’agenda propria – e a lungo termine – insieme ai nostri partner, proporre e discutere, in un dibattito aperto e costruttivo, le opzioni per la soluzione di quelle questioni fondamentali che riguardano non solo noi, ma anche l’intera comunità mondiale.
Ripeto: il mondo sta cambiando rapidamente. Non sarà più lo stesso nella politica globale, nell’economia o nella competizione tecnologica. Sempre più Stati si sforzano di consolidare la propria sovranità, autosufficienza, identità nazionale e culturale. I Paesi del Sud e dell’Est del mondo stanno salendo alla ribalta e il ruolo dell’Africa e dell’America Latina sta crescendo. Fin dall’epoca sovietica abbiamo sostenuto l’importanza di queste regioni del mondo, ma oggi le dinamiche sono molto diverse e iniziano a farsi sentire. Anche il ritmo della trasformazione in Eurasia, dove sono in fase di dinamica realizzazione numerosi progetti di integrazione su larga scala, ha subito una forte accelerazione.
È proprio sulla base della nuova realtà politica ed economica che oggi si stanno delineando i contorni di un ordine mondiale multipolare e multilaterale, e questo è un processo oggettivo. Riflette la diversità culturale e di civiltà che, nonostante tutti i tentativi di artificiale omologazione, è organicamente insita negli esseri umani.
Tali cambiamenti profondi e sistemici ispirano indubbiamente ottimismo e speranza, perché l’affermazione dei principi del multipolarismo e del multilateralismo negli affari internazionali, tra cui il rispetto del diritto internazionale e l’ampia rappresentatività, consentono di lavorare insieme per risolvere i problemi più complessi per il bene comune, di costruire relazioni reciprocamente vantaggiose e la cooperazione tra Stati sovrani nell’interesse del benessere e della sicurezza dei popoli.
Questa immagine del futuro è in linea con le aspirazioni della maggioranza assoluta dei Paesi del mondo. Lo vediamo, tra l’altro, nel crescente interesse per il lavoro di un’unione universale come i BRICS, che si basa su una cultura speciale di dialogo confidente, uguaglianza sovrana dei partecipanti e rispetto reciproco. Nell’ambito della presidenza russa di quest’anno, faciliteremo l’accesso dei nuovi membri dei BRICS alle strutture operative dell’unione.
Chiedo al Governo e al Ministero degli Affari Esteri di continuare a lavorare e a dialogare con i nostri partner per arrivare al vertice BRICS di Kazan in ottobre con una serie sostanziale di decisioni concordate che definiranno il vettore della nostra cooperazione in politica e sicurezza, economia e finanza, scienza, cultura, sport e legami umanitari.
In generale, credo che il potenziale dei BRICS permetterà all’unione di diventare una delle principali istituzioni regolatrici dell’ordine mondiale multipolare.
A questo proposito, vorrei sottolineare che la discussione internazionale sui parametri della cooperazione tra gli Stati in un mondo multipolare e sulla democratizzazione dell’intero sistema di relazioni internazionali è, ovviamente, già in corso. Con i nostri colleghi della Comunità degli Stati Indipendenti abbiamo concordato e adottato un documento congiunto sulle relazioni internazionali in un mondo multipolare. Abbiamo invitato i nostri partner a parlare di questo tema anche su altre piattaforme internazionali, in primo luogo SCO e BRICS.
Siamo interessati a che questo dialogo venga sviluppato seriamente all’interno delle Nazioni Unite, anche su un argomento fondamentale e di importanza vitale per tutti quale l’istituzione di un sistema di sicurezza indivisibile. In altre parole, l’affermazione negli affari mondiali del principio che la sicurezza di alcuni non può essere garantita a scapito della sicurezza di altri.
A tale proposito, vorrei ricordare che alla fine del XX secolo, dopo la fine di un acceso confronto militare-ideologico, la comunità mondiale ha avuto un’occasione straordinaria per costruire un ordine affidabile e giusto nel campo della sicurezza. Non occorreva molto: semplicemente la capacità di ascoltare le opinioni di tutte le parti interessate e la reciproca disponibilità a tenerne conto. Il nostro Paese era determinato a svolgere proprio questo costruttivo lavoro.
Invece, un approccio diverso è prevalso. Le potenze occidentali, guidate dagli Stati Uniti, ritenevano di aver vinto la Guerra Fredda e di avere il diritto di stabilire da sole come organizzare il mondo. Espressione concreta di questa visione era il progetto di espansione illimitata del blocco nordatlantico nello spazio e nel tempo, anche se c’erano, ovviamente, altre idee su come garantire la sicurezza in Europa.
Alle nostre giuste domande si è risposto con scuse del tipo: “nessuno ha intenzione di attaccare la Russia”, “l’espansione della NATO non è diretta contro la Russia”. Le promesse fatte all’Unione Sovietica e poi alla Russia, alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, di non accogliere nuovi membri nel blocco atlantico, sono state serenamente dimenticate. E anche quando se ne ricordavano, con un sorrisetto affermavano che quelle erano assicurazioni verbali e quindi non vincolanti.
Sia negli anni Novanta che in seguito, abbiamo evidenziato costantemente la rotta errata scelta dalle élite dell’Occidente, non limitandoci a criticare e mettere in guardia, ma offrendo opzioni e soluzioni costruttive e sottolineando l’importanza di sviluppare un meccanismo per la sicurezza europea e mondiale che fosse accettabile per tutti – voglio sottolinearlo – proprio per tutti. Una semplice enumerazione delle iniziative che la Russia ha proposto nel corso degli anni richiederebbe più di un paragrafo.
Ricordiamo almeno l’idea di un trattato sulla sicurezza europea, che abbiamo proposto già nel 2008. Gli stessi temi sono stati sollevati nel memorandum del Ministero degli Affari Esteri russo consegnato agli Stati Uniti e alla NATO nel dicembre 2021.
Ma tutti i nostri tentativi – e ne abbiamo fatti talmente tanti, che non si possono elencare tutti – di far ragionare i nostri interlocutori, le spiegazioni, le esortazioni, gli avvertimenti e le richieste da parte nostra non hanno trovato alcuna risposta. I Paesi occidentali, convinti non tanto della propria giustezza, quanto del proprio potere, della propria capacità di imporre qualsiasi cosa al resto del mondo, hanno semplicemente ignorato le opinioni diverse. Nel migliore dei casi, accettavano di discutere di questioni minori, in realtà ben poco risolutive, o di argomenti favorevoli solo all’Occidente.
Nel frattempo, è risultato rapidamente chiaro che lo schema occidentale proclamato come l’unico corretto per garantire la sicurezza e la prosperità in Europa e nel mondo non funziona davvero. Ricordiamo la tragedia dei Balcani. I problemi interni – che ovviamente c’erano – creatisi nell’ex Jugoslavia sono stati gravemente esacerbati da una rozza interferenza esterna. Già allora si palesò in tutto il suo splendore il principio fondamentale della diplomazia di stampo NATO, un principio profondamente errato e infruttuoso nella risoluzione di complessi conflitti interni: accusare una delle parti, per qualche motivo invisa, di ogni colpa e scatenare su di essa tutta la potenza politica, mediatica e militare, sanzioni economiche e restrizioni.
Successivamente, gli stessi approcci sono stati applicati in diverse parti del mondo, come sappiamo bene: Iraq, Siria, Libia, Afghanistan e così via, e non hanno portato altro che l’aggravamento dei problemi esistenti, il destino spezzato di milioni di persone, la distruzione di interi Stati, la crescita di disastri umanitari e sociali e di enclave terroristiche. In realtà, nessun Paese al mondo è immune dall’essere aggiunto a questa triste lista.
Allo stesso modo, oggi l’Occidente sta cercando di ingerirsi con impudenza negli affari del Medio Oriente. Un tempo aveva il monopolio su questa area e l’esito è oggi chiaro ed evidente a tutti. Caucaso meridionale, Asia centrale. Due anni fa, al vertice NATO di Madrid, è stato annunciato che l’Alleanza si occuperà ora di questioni di sicurezza non solo nell’area euro-atlantica, ma anche nella regione Asia-Pacifico. Insomma, anche lì non si può fare a meno di loro. Ovviamente, dietro c’è il tentativo di aumentare la pressione su quei Paesi della regione di cui hanno deciso di frenare lo sviluppo. Come è noto, il nostro Paese, la Russia, è uno dei Paesi in cima a questa lista.
Vorrei anche ricordare che è stata Washington a minare la stabilità strategica, ritirandosi unilateralmente dai trattati sulla difesa missilistica, sull’eliminazione dei missili a medio e corto raggio e sui cieli aperti e, insieme ai suoi satelliti della NATO, a distruggere il pluridecennale sistema di misure di rafforzamento della fiducia e di controllo degli armamenti in Europa.
In definitiva, sono stati l’egoismo e l’arroganza degli Stati occidentali a creare l’attuale stato di cose estremamente pericoloso. Ci siamo avvicinati in modo inaccettabile al punto di non ritorno. Gli appelli alla sconfitta strategica della Russia, che possiede il più grande arsenale di armi nucleari, dimostrano l’estremo avventurismo dei politici occidentali. O non comprendono la portata della minaccia che essi stessi rappresentano o sono semplicemente ossessionati dalla convinzione della propria impunità e del proprio eccezionalismo. Entrambe le cose possono trasformarsi in tragedia.
È evidente che stiamo assistendo al collasso del sistema di sicurezza euro-atlantico che oggi, semplicemente, non esiste. Deve essere creato ex novo. Tutto ciò richiede che noi, insieme ai nostri partner, a tutti i Paesi interessati, e sono molti, elaboriamo le nostre opzioni per garantire la sicurezza in Eurasia e poi le sottoponiamo a un’ampia discussione internazionale.
Questo è stato il mandato conferito nel Messaggio all’Assemblea Federale. Stiamo parlando di formulare nel prossimo futuro un quadro di sicurezza paritaria e indivisibile, di cooperazione e sviluppo equo e reciprocamente vantaggioso nel continente eurasiatico.
Cosa fare a tale scopo e sulla base di quali principi?
Innanzitutto, dobbiamo instaurare un dialogo con tutti i potenziali partecipanti a questo futuro sistema di sicurezza. Per cominciare, chiedo che si affrontino le questioni necessarie con gli Stati disponibili a una cooperazione costruttiva con la Russia.
Durante la recente visita nella Repubblica Popolare Cinese, abbiamo discusso di questi temi con il Presidente cinese Xi Jinping. Abbiamo notato che la proposta russa non contraddice ma, al contrario, integra ed è pienamente coerente con i principi fondamentali dell’iniziativa cinese per la sicurezza globale.
In secondo luogo, è importante partire dal presupposto che la futura architettura di sicurezza è aperta a tutti i Paesi eurasiatici che desiderano partecipare alla sua creazione. “Per tutti” significa, ovviamente, anche per i Paesi europei e della NATO. Viviamo in un unico continente, qualunque cosa accada, non possiamo cambiare la geografia, dovremo coesistere e lavorare insieme, in un modo o nell’altro.
Sì, le relazioni della Russia con la UE e con alcuni Paesi europei sono deteriorate e, l’ho sottolineato più volte, non per colpa nostra. Una campagna di propaganda antirussa che coinvolge figure europee di alto livello è accompagnata da speculazioni secondo cui la Russia starebbe per attaccare l’Europa. Ne ho parlato più volte, e non c’è bisogno di ripeterlo ancora in questa sala: tutti ci rendiamo conto che si tratta di una totale assurdità, solo un modo per giustificare la corsa agli armamenti.
In merito a ciò, mi permetto di fare una piccola digressione. Non è la Russia a costituire un pericolo per l’Europa. La principale minaccia per gli europei sta nella loro dipendenza critica, in pratica totale e in costante aumento, dagli Stati Uniti sul piano militare, politico, tecnologico, ideologico e dell’informazione. Stanno spingendo sempre di più l’Europa ai margini dello sviluppo economico globale, la stanno affogando nel caos delle ondate migratorie e di altre gravissime piaghe, la stanno privando della sua autonomia sul piano internazionale, nonché della sua identità culturale.
Talvolta si ha l’impressione che i governanti e i burocrati europei abbiano più timore di uscire dalle grazie di Washington di quanto ne abbiano di perdere la fiducia del loro popolo, dei loro stessi cittadini. Anche le recenti elezioni per il Parlamento europeo ne sono una dimostrazione. I politici europei ingoiano umiliazione, villania e scandali riguardanti attività di spionaggio nei confronti dei leader europei, mentre nel frattempo gli USA, semplicemente, li usano per i loro interessi: quando ad esempio li costringono ad acquistare il loro costoso gas (gas che, a proposito, in Europa ha prezzi tre o quattro volte più alti rispetto a quelli applicati negli USA); o quando, come adesso ad esempio, esigono dai Paesi europei che le quote di fornitura delle armi all’Ucraina vengano aumentate. A dire il vero, gli USA rivolgono loro richieste continue su questo o su quell’ambito. E le sanzioni, di fatto, è a loro che le impongono, agli operatori economici in Europa. Le impongono senza pensarci due volte, senza alcuna vergogna.
Ed ecco che adesso stanno imponendo loro un incremento delle forniture militari all’Ucraina, e quindi anche di accrescere il loro potenziale per la produzione di ordigni di artiglieria. Ascoltate, ma a chi serviranno questi ordigni, una volta che il conflitto in Ucraina sarà terminato? Come può questo garantire la sicurezza militare in Europa? Non è chiaro. Gli stessi USA investono in tecnologie militari, e tra l’altro in tecnologie del futuro: investono nello spazio, in droni moderni, in sistemi d’attacco che sfruttano nuovi principi della fisica; e cioè in quegli ambiti che nel futuro andranno a determinare la natura del conflitto armato, e di conseguenza anche il potenziale politico-militare delle varie potenze, così come la posizione da loro occupata nel mondo. E in tal modo affidano loro questo ruolo: investite i vostri soldi dove serve a noi. Ma questo non servirà in alcun modo ad accrescere il potenziale europeo. Facciano pure, che facciano come vogliono. Per noi, forse, potrebbe anche essere una cosa positiva, ma di fatto è così che stanno le cose.
Se l’Europa desidera continuare a rappresentare uno dei fulcri autonomi dello sviluppo mondiale e uno dei poli della cultura e della civiltà del pianeta, allora senza dubbio le sarà necessario trovarsi in buoni, amichevoli rapporti con la Russia; e, fatto importante, noi siamo disponibili in tal senso.
Questo fatto così semplice ed evidente lo hanno compreso perfettamente quei politici che davvero sono di levatura non solo europea, ma anche mondiale, i quali sono patrioti dei loro Paesi e dei loro popoli, il cui pensiero opera per categorie storiche; non gli statisti, coloro che vanno dietro alla volontà e alle istruzioni altrui. Di questo parlò molto Charles de Gaulle negli anni del dopoguerra. Ricordo bene anche che nel 1991, nel corso di una conversazione alla quale ebbi modo di prendere personalmente parte, l’allora Cancelliere della Repubblica Federale di Germania Helmut Kohl sottolineava l’importanza di un partenariato tra l’Europa e la Russia. Conto sul fatto che, presto o tardi, le nuove generazioni di politici europei torneranno a condividere tale eredità ideologica.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti di per sé, i continui tentativi da parte dell’élite liberale e globalista attualmente al potere di diffondere la propria ideologia in tutto il mondo con ogni mezzo, di mantenere la loro posizione di Paese imperialista, il loro dominio, non fanno altro che deteriorare il Paese: lo stanno conducendo al degrado, oltre al fatto che si pongono in evidente contraddizione con gli interessi reali del popolo americano. Se non fosse che hanno voluto infilarsi in questo vicolo senza uscita, e se non fosse per questo loro messianesimo aggressivo, infarcito della convinzione legata al proprio eccezionalismo e al proprio ruolo di Paese “eletto”, le relazioni sul piano internazionale già da tempo si sarebbero stabilizzate.
Terzo: per promuovere l’idea di un sistema di sicurezza eurasiatico vanno rinvigoriti in maniera significativa i processi di dialogo tra le varie organizzazioni multilaterali che già operano in Eurasia. Sto parlando, prima di tutto, di entità quali lo Stato dell’Unione, l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva, l’Unione Economica Eurasiatica, la Comunità degli Stati Indipendenti e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai.
Stiamo osservando che esiste la prospettiva di un’adesione futura a tali processi di integrazione anche da parte di altre unioni eurasiatiche molto influenti, a partire dal Sud-est asiatico fino ad arrivare al Medio Oriente.
Quarto: riteniamo che sia giunto il momento di avviare un’ampia discussione in merito a un nuovo sistema di garanzie bilaterali e multilaterali per la sicurezza collettiva in Eurasia. Allo stesso tempo, in futuro si dovrà giungere inoltre a una graduale riduzione della presenza militare operata da potenze esterne nello spazio eurasiatico.
Comprendiamo, senza dubbio, che nell’attuale stato di cose tale idea può non sembrare realistica; tuttavia, è così adesso. Perché se noi in futuro riuscissimo a realizzare un sistema di sicurezza affidabile, semplicemente non vi sarà la necessità di mantenere nella regione questa presenza di contingenti militari esterni. Sostanzialmente, detto in tutta franchezza, neppure oggi sussiste tale necessità: si tratta soltanto di occupazione, ecco tutto.
In definitiva, noi suggeriamo che debbano essere Stato e organi regionali eurasiatici a definire autonomamente quali debbano essere nello specifico gli ambiti di cooperazione in materia di sicurezza comune. In tal senso, dovrebbero anche costituire loro stessi un sistema fatto di istituzioni, meccanismi e accordi operativi che possano effettivamente concorrere al raggiungimento degli obiettivi comuni in materia di stabilità e sviluppo.
Riguardo a ciò, noi appoggiamo l’iniziativa dei nostri amici bielorussi di elaborare un documento programmatico, e cioè una Carta del Multipolarismo e della Diversità nel XXI secolo. In questo documento sarà possibile formulare non solo i principi quadro dell’architettura eurasiatica la cui base giuridica deve risiedere nelle norme fondamentali del diritto internazionale, ma anche, su un piano più ampio, la concezione strategica dell’essenza e della natura del multipolarismo e del multilateralismo in quanto nuovo sistema alla base delle relazioni internazionali, che andrà a sostituirsi alla visione occidentocentrica del mondo. Ritengo che questo sia importante, e chiedo di studiare nel dettaglio questo documento con i nostri partner e con tutti i Paesi interessati. Aggiungo anche che, in sede di discussione di questioni così delicate e complesse, certamente sarà necessario garantire la massima e più ampia rappresentatività, come anche tenere in considerazione posizioni e approcci diversi.
Quinto: tra le importanti componenti del sistema di sicurezza e di sviluppo eurasiatico vanno senza dubbio annoverate le questioni legate all’economia, al benessere sociale, all’integrazione e a una cooperazione mutuamente proficua; ma anche la risoluzione di problematiche comuni, quali la povertà, la diseguaglianza, le questioni climatiche, gli aspetti ecologici, e quindi l’elaborazione di meccanismi che ci permettano di reagire in maniera adeguata alle minacce rappresentate dalle pandemie e dalle crisi dell’economia globale: tutto questo è importante.
L’Occidente, con le sue azioni, non ha soltanto minato la stabilità politico-militare a livello globale; con le sue sanzioni e le sue guerre commerciali ha fatto in modo di screditare e indebolire i più importanti organismi di mercato.Sfruttando il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, cambiando le carte in tavola in merito all’agenda sul clima, inibisce lo sviluppo del Sud globale. Dato che l’Occidente sta perdendo nel gioco della concorrenza anche stando a quelle regole che esso stesso ha stabilito a proprio beneficio, adesso mette in campo misure commerciali proibitive, nonché ogni tipo di strategia protezionistica. Ecco, negli USA di fatto hanno rinunciato a ricorrere all’Organizzazione Mondiale del Commercio come autorità regolatrice del commercio internazionale. È tutto bloccato. E oltretutto, fanno pressioni non solo sulla concorrenza, ma anche sui loro stessi satelliti. Basti guardare come stanno pompando via risorse dalle economie europee, che si trovano in equilibrio precario sull’orlo della recessione.
I Paesi occidentali hanno congelato parte dei beni e delle riserve valutarie russe. E adesso, stanno pensando a come creare un qualche tipo di base giuridica che permetta loro di appropriarsene definitivamente. Ma, quali che siano le loro cavillazioni, il ladrocinio, senza dubbio, rimarrà sempre ladrocinio e di certo, d’altra parte, non rimarrà impunito.
La questione, però, è anche più profonda di così. Dopo aver rubato i beni russi, compiranno ancora un altro passo verso la distruzione di quel sistema che loro stessi hanno creato e che per molti decenni ha garantito loro prosperità, che ha permesso loro di vivere al di sopra delle loro possibilità attirando denaro da tutto il mondo con l’imposizione di debiti e obblighi. Adesso è ormai chiaro a tutti i Paesi, a tutte le imprese e a tutti i fondi sovrani che i loro beni e le loro riserve sono ben lungi dall’essere in sicurezza, sia nel senso giuridico che in quello economico di tale espressione. E che il prossimo turno nella lista di coloro dei quali gli USA e l’Occidente vogliono espropriare i beni potrebbe toccare a chiunque; ecco, potrebbe anche essere il turno dei fondi appartenenti a Paesi stranieri.
Già adesso sta crescendo la sfiducia nei confronti del sistema finanziario, che si fonda sulle riserve valutarie occidentali. Si è osservato un deflusso di capitali dai titoli e dalle obbligazioni di debito dei Paesi occidentali, ma anche da quelli di alcune banche europee, le quali fino a poco tempo fa erano considerate luoghi assolutamente affidabili dove custodire i propri capitali. Adesso, stanno portando via da lì anche l’oro. E fanno bene.
Ritengo che per noi sia necessario incentivare seriamente la creazione di meccanismi economici per l’estero sia su base bilaterale che multilaterale, i quali siano efficaci e sicuri e che rappresentino un’alternativa a quelli che sono i sistemi controllati dall’Occidente. Ciò presuppone anche che vengano aumentati i regolamenti in valute estere, che vengano creati dei sistemi di pagamento indipendenti e che vengano predisposti circuiti di produzione e distribuzione atti ad aggirare quei canali che sono stati bloccati oppure compromessi dall’Occidente.
Resta sottointeso che è necessario proseguire con i nostri sforzi mirati al predisporre corridoi per i trasporti internazionali in Eurasia, un continente il cui naturale fulcro geografico è rappresentato proprio dalla Russia.
Incarico quindi il Ministero degli Affari Esteri perché proceda alla massima cooperazione al fine di elaborare accordi internazionali in tutte queste direzioni, poiché tali accordi sono estremamente importanti per il rafforzamento della cooperazione economica sia da parte del nostro Paese che dei Paesi che sono nostri partner. Allo stesso modo, è necessario dare nuovo impulso anche all’istituzione di un grande partenariato eurasiatico, il quale, in sostanza, potrà diventare la base socio-economica fondante di un nuovo sistema di sicurezza in Europa, basato sull’indivisibilità della sicurezza stessa.
Cari colleghi,
Il fine delle nostre proposte è quello di costituire un sistema, nell’ambito del quale tutti i Paesi possano sentirsi certi della propria sicurezza. Sarà allora che avremo davvero modo di approcciare la risoluzione dei numerosi conflitti in corso al giorno d’oggi in maniera diversa e veramente costruttiva. I problemi legati alla carenza di sicurezza e di reciproca fiducia, dopotutto, riguardano non soltanto il continente eurasiatico, perché stiamo osservando ovunque tensioni crescenti. E in che misura il mondo sia interconnesso e interdipendente, lo vediamo di continuo. Un tragico esempio di questo per tutti noi è rappresentato proprio dalla crisi ucraina, le cui conseguenze si ripercuotono su tutto il pianeta.
Però voglio dire subito questo: la crisi legata all’Ucraina non è un conflitto tra due Paesi, né tantomeno tra due popoli; non è un conflitto indotto da problematiche esistenti tra loro. Se le cose stessero davvero così, allora non ci sarebbero dubbi sul fatto che i russi e gli ucraini, uniti da una storia e da una cultura comuni, dagli stessi valori spirituali, nonché da milioni di legami familiari, di parentela e umani, saprebbero trovare un modo per risolvere con giustizia qualunque tipo di problema e di controversia.
Il fatto è che le cose stanno diversamente: le radici del conflitto non risiedono nei rapporti bilaterali tra i due Paesi. I fatti in corso in Ucraina sono il risultato diretto degli sviluppi avvenuti a livello globale ed europeo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo; sono il risultato diretto di quella politica aggressiva, presuntuosa e fatta di imprese scellerate che l’Occidente sta mettendo in atto e che ha messo in atto per tutti questi anni, cominciando da ben prima che l’Operazione Militare Speciale avesse inizio.
Le élite dei Paesi occidentali, come ho già detto oggi, dopo la fine della Guerra Fredda hanno intrapreso la strada di un’ulteriore ridefinizione geopolitica del globo, della creazione e imposizione del loro famigerato ordine mondiale basato su regole, al quale però, semplicemente, i Paesi forti, sovrani e autosufficienti non si assoggettano.
Di qui, la politica di contenimento nei confronti del nostro Paese. Gli obiettivi di tale politica ormai vengono proclamati apertamente da diversi attori sia statunitensi che europei. Oggi, parlano della famigerata decolonizzazione della Russia. In sostanza, ciò costituisce un tentativo di addurre motivazioni di natura ideologica per giustificare la loro intenzione di smembrare la nostra Patria su base etnica. In effetti, dello smembramento della Russia si parla da tanto tempo, come a suo tempo si parlava dello smembramento dell’Unione Sovietica. Tutti coloro che siedono in questa sala lo sanno bene.
Nell’attuare questa strategia, i Paesi occidentali hanno adottato una linea di incorporamento e colonizzazione politico-militare dei territori a noi vicini. Si sono già verificate cinque ondate di ampliamento della NATO, e ormai siamo alla sesta. Hanno cercato di trasformare anche l’Ucraina in una loro roccaforte, hanno cercato di renderla “anti-Russia”. E allo scopo di raggiungere questi loro obiettivi, hanno investito denaro e risorse, hanno comprato politici e addirittura interi partiti, hanno riscritto la storia e i programmi scolastici, hanno alimentato e fatto crescere gruppi di estremisti neonazisti e radicali. Hanno fatto di tutto per compromettere i legami tra i nostri due Paesi, per dividere i nostri popoli e metterli l’uno contro l’altro.
Ad ostacolare un’attuazione ancor più spudorata e indelicata di tale politica è stato il sud-est dell’Ucraina, una regione che per secoli ha fatto parte di quelli che erano i territori storici, e più estesi, della Russia. Lì vivevano e tuttora vivono persone che, tra le altre cose, dopo la proclamazione d’indipendenza dell’Ucraina avvenuta nel 1991, si esprimevano comunque a favore del mantenimento dei più stretti rapporti di amicizia con il nostro Paese. Persone, queste, tra le quali troviamo sia russi che ucraini, che rappresentano etnie diverse, ma che sono unite dalla lingua russa e da una cultura, una tradizione e una memoria storica comuni.
La posizione, il sentimento, gli interessi e la voce di queste persone, ossia di milioni di individui che vivono nel sud-est del Paese, dovevano essere prese in considerazione, dovevano essere attenzionate; e quindi, gli allora Presidenti dell’Ucraina, così come i politici che concorrevano per quella carica, si servirono dei voti di questi elettori per i loro fini. Ma essendosi serviti di tali voti, in seguito dovettero svicolare, barcamenarsi; raccontarono molte bugie quando parlavano della cosiddetta “scelta europea”. Non si decidevano a compiere una totale rottura con la Russia, e questo perché il sud-est dell’Ucraina era di tutt’altra opinione, e non sarebbe stato possibile non fare i conti con questo. Tale ambiguità ha sempre caratterizzato il potere in Ucraina nel corso di tutti gli anni trascorsi dal riconoscimento della sua indipendenza.
L’Occidente, e questo è ovvio, lo aveva notato. Lo aveva notato da tempo, come da tempo comprendeva quali fossero le problematiche del Paese e sapeva che tali problematiche potevano essere esacerbate; ma comprendeva quale fosse il potere deterrente dell’elemento rappresentato dal “sud-est ucraino”, come sapeva anche che nessuna propaganda di lungo periodo avrebbe mai potuto cambiare alla radice il modo in cui stavano le cose. Naturalmente, da loro molto è stato fatto, ma era comunque difficile cambiare radicalmente lo stato di cose.
Non si riusciva a distorcere l’identità storica, né a cambiare le coscienze della maggioranza degli abitanti del sud-est dell’Ucraina; non si riuscivano a sradicare i loro buoni sentimenti nei confronti del nostro Paese o la consapevolezza legata alle comuni radici storiche condivise con la Russia, neppure tra le giovani generazioni; ed è per questo che l’Occidente decise di nuovo di usare la forza, e quindi, semplicemente, di piegare gli abitanti del sud-est, di infischiarsene della loro opinione. Per riuscirci hanno preparato, organizzato, finanziato l’intero processo; sicuramente hanno sfruttato le criticità e le difficoltà già presenti in Ucraina sul piano della politica interna, ma comunque hanno anche preparato gradualmente e in maniera del tutto intenzionale un colpo di Stato armato.
Le città ucraine sono state investite da un’ondata di disordini, violenze e uccisioni. Del potere, a Kiev, ormai si erano definitivamente impadroniti gli usurpatori radicali. I loro aggressivi slogan nazionalisti, assieme alla riabilitazione da parte loro delle figure dei collaborazionisti nazisti, furono innalzati a ideologia nazionale. Con la proclamazione delle loro politiche di abolizione della lingua russa in ambito pubblico e statale, aumentarono anche le pressioni ai danni dei fedeli ortodossi e l’ingerenza negli affari della Chiesa, cosa che, alla fine, portò a una spaccatura al suo interno. Sembra che nessuno faccia mai caso a simili ingerenze, quasi come se fossero la cosa giusta da fare. Ma provate a fare qualcosa di simile da qualche altra parte: vi sentirete fischiare contro talmente tanto che vi cadranno le orecchie. Ma lì, invece, questo è concesso, perché ciò che si fa è a danno della Russia.
Milioni di abitanti dell’Ucraina, prime tra tutte le regioni orientali, si opposero al colpo di Stato, come è noto. Ma cominciarono a minacciarli con atti di rappresaglia e di terrorismo. E, per prima cosa, i nuovi vertici del potere di Kiev iniziarono a preparare un attacco alla Crimea, regione russofona, la quale a suo tempo, come sapete, e cioè nel 1954, fu trasferita dalla Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa all’Ucraina in piena violazione di tutte le norme e delle procedure di legge, addirittura anche di quella allora in vigore in Unione Sovietica. In quella situazione, naturalmente, noi non avremmo mai potuto abbandonare i cittadini della Crimea e di Sebastopoli, lasciandoli soli senza alcuna protezione. Loro fecero la loro scelta, e, nel marzo del 2014, come sappiamo, ebbe luogo lo storico ricongiungimento della Crimea e di Sebastopoli con la Russia.
A Kharkov, a Kherson, a Odessa, Zaporozhye, Donetsk, Lugansk e a Mariupol, le manifestazioni pacifiche di protesta contro il colpo di stato iniziarono a essere oggetto di repressione, e il regime di Kiev, assieme ai gruppi di nazionalisti radicali, scatenò il terrore. Non dovrebbe essere necessario ricordarlo, perché rammentiamo tutti molto bene cosa accadde in quelle regioni.
Nel maggio del 2014, ebbero luogo i referendum relativi allo status territoriale delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk, nel corso dei quali la maggioranza assoluta dei cittadini si pronunciò a favore dell’indipendenza e dell’autonomia delle proprie regioni. Viene subito da porsi una domanda: quelle persone avevano veramente il diritto di esprimere in questo modo la loro volontà, e di dichiarare la loro indipendenza? Coloro che siedono in questa sala sanno bene che, naturalmente, potevano farlo, che ne avevano piena ragione e diritto, tra l’altro in conformità con il diritto internazionale, e nello specifico con il principio riguardante il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Non serve ricordarvelo, ma in ogni caso, dato che sono presenti i media, lo ribadirò: tale diritto è garantito dall’Articolo 1, Paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite.
Vorrei ricordare, a questo proposito, il noto precedente del Kosovo. Ne abbiamo già parlato tante volte a suo tempo, ma lo ripeterò ancora. Si tratta di un precedente creato dai Paesi occidentali stessi, nell’ambito del quale però, in una situazione del tutto analoga [a quella delle Repubbliche Popolari autoproclamatesi indipendenti nel 2014], la separazione del Kosovo dalla Serbia avvenuta nel 2008 fu riconosciuta come pienamente legittima. Poi, fece seguito la nota sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, che il 22 luglio del 2010, in base all’Articolo 1, Paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite, stabilì, e cito: “Nessun tipo di divieto generale in merito a una proclamazione unilaterale di indipendenza può scaturire dalla prassi del Consiglio di Sicurezza”. E, di nuovo, cito: “Il diritto internazionale comune non prevede alcun tipo di divieto che sia applicabile a una proclamazione di indipendenza”. Inoltre, nella sentenza si stabiliva altresì che le regioni di un Paese, qualunque esso fosse, che avessero deciso di dichiarare la propria indipendenza, per farlo non avrebbero avuto l’obbligo di rivolgersi agli organi centrali dello Stato al quale appartenevano in precedenza. È tutto scritto lì, hanno messo tutto nero su bianco di loro pugno.
Quindi, avevano o no queste repubbliche, e cioè la Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Lugansk [il diritto] di proclamare la propria indipendenza? Certo che sì. Non è possibile vedere la questione in nessun altro modo.
E che cosa ha fatto il regime di Kiev in quella situazione? Ha completamente ignorato la scelta che quelle persone avevano fatto, ed ha scatenato una vera e propria guerra contro quelle nuove regioni indipendenti, contro le nuove Repubbliche Popolari situate nel Donbass, facendo uso di mezzi d’aviazione, di artiglieria e di carri armati. Ebbero inizio i bombardamenti e gli attacchi missilistici ai danni di pacifici centri urbani, come anche gli atti intimidatori. E poi, che cosa è successo? Gli abitanti del Donbass hanno preso in mano le armi per difendere la propria vita, la famiglia, la casa e i propri legittimi interessi.
Al momento, in Occidente si promuove la tesi secondo cui sarebbe stata la Russia a dare inizio al conflitto nel contesto dell’Operazione Militare Speciale, e che è la Russia il vero aggressore; e questo giustificherebbe, tra le altre cose, la possibilità di condurre attacchi sul suo territorio facendo uso degli armamenti forniti dall’Occidente, perché, a detta di quest’ultimo, l’Ucraina si starebbe solo difendendo, e quindi sarebbe autorizzata a farlo.
Voglio sottolinearlo ancora una volta: non è stata la Russia a dare inizio al conflitto. Lo ripeto: è stato il regime di Kiev che, a seguito della proclamazione di indipendenza giunta dagli abitanti di una parte dell’Ucraina, peraltro in conformità con il diritto internazionale, ha dato inizio alle ostilità, e tuttora sta continuando su questa strada. Si tratta a tutti gli effetti di aggressione se non viene riconosciuto il diritto delle popolazioni che risiedono in quei territori a proclamare la propria indipendenza. Ma come? E allora che cos’è questa [condotta da parte dell’Ucraina]? È un’aggressione. E coloro che in tutti questi anni hanno fornito il loro contributo al funzionamento della macchina bellica del regime di Kiev, sono complici dell’aggressore.
All’epoca, nel 2014, gli abitanti del Donbass non si dettero per vinti. Facevano resistenza ai drappelli di miliziani, respingevano i militari in spedizione punitiva, fino anche a riuscire a respingerli da Donetsk e da Lugansk. Contavamo sul fatto che ciò sarebbe servito a far rinsavire coloro che avevano scatenato il massacro. Per fermare gli spargimenti di sangue, la Russia lanciò gli appelli che si è soliti fare in questi casi, appelli ai negoziati, che quindi ebbero inizio con la partecipazione di Kiev e dei rappresentanti delle Repubbliche del Donbass, coadiuvati da Russia, Germania e Francia.
I negoziati procedevano con difficoltà, ma comunque, a conclusione delle trattative, nel 2015 furono siglati gli Accordi di Minsk. Noi ci approcciammo con la massima serietà all’adempimento di tali accordi, nella speranza che saremmo riusciti a giungere a una risoluzione del conflitto per mezzo di un processo di pace ed entro l’ambito del diritto internazionale. Contavamo sul fatto che ciò avrebbe portato a tenere in considerazione gli interessi legittimi e le rivendicazioni del Donbass, e quindi al riconoscimento all’interno della Costituzione dello status particolare di queste regioni, nonché dei diritti fondamentali di coloro che vi risiedevano, pur preservando l’unità territoriale dell’Ucraina. Noi eravamo disposti a questo, ed eravamo pronti a convincere le persone residenti in quei territori a procedere alla risoluzione dei problemi proprio in quel modo; e più di una volta ci siamo trovati a proporre compromessi o possibili punti di incontro.
Ma, alla fine, hanno rifiutato tutto. Kiev ha semplicemente preso gli Accordi di Minsk e li ha gettati nella spazzatura. Come in seguito, sbottonandosi, hanno rivelato i rappresentanti dei vertici di Kiev, neanche uno degli articoli che erano parte di questi Accordi li soddisfaceva. Avevano soltanto mentito, tergiversando come potevano.
Anche l’ex Cancelliere tedesco e l’ex Presidente francese, che di fatto erano stati coautori, e quindi anche garanti degli Accordi di Minsk, più tardi a un tratto ammisero, senza mezzi termini, che in realtà non avevano davvero intenzione di adempiere a tali accordi; a loro erano serviti soltanto per “parlare un po’ della situazione”, così da guadagnare tempo utile per costituire le formazioni militari ucraine e per poterle dotare di armi ed equipaggiamento tecnico in quantità. Ci avevano semplicemente imbrogliato, ci avevano ingannato per l’ennesima volta.
Invece di condurre un reale processo di pace, invece di scegliere una politica di reintegrazione e di riconciliazione nazionale, questioni delle quali amavano pontificare da Kiev, hanno bombardato il Donbass per otto anni. Hanno organizzato attentati terroristici, uccisioni, hanno messo in piedi un durissimo assedio ai danni della regione. Per tutti questi anni, i cittadini del Donbass, donne, bambini, anziani, sono stati definiti esseri di serie B, subumani, sono stati minacciati per mezzo di rappresaglie, veniva detto loro “adesso arriviamo e la facciamo pagare a ciascuno di voi”. Cos’è questo, se non genocidio in atto nel cuore dell’Europa del XXI secolo? Nel frattempo però, in Europa e negli USA fingevano che non stesse succedendo niente, che nessuno si fosse accorto di niente.
Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, il processo negoziale di Minsk fu definitivamente sepolto, e tra l’altro fu sepolto da Kiev e dai suoi protettori occidentali, mentre di nuovo si pianificava un altro, massiccio attacco ai danni del Donbass. Un imponente raggruppamento delle Forze Armate Ucraine si preparava a dare inizio a una nuova offensiva ai danni delle regioni di Donetsk e Lugansk, che avrebbe previsto atti di pulizia etnica e avrebbe portato a enormi perdite umane, nonché alla fuga di centinaia di migliaia di rifugiati. Noi abbiamo dovuto prevenire una simile catastrofe, abbiamo dovuto difendere queste persone. Non avremmo potuto decidere diversamente.
La Russia, finalmente, riconobbe le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. Per 8 lunghi anni non abbiamo proceduto al loro riconoscimento perché, dopotutto, contavamo sul fatto che saremmo giunti a degli accordi su tutta la linea. Le conseguenze di tutto ciò ormai le conosciamo tutti. Il 21 febbraio del 2022, con queste Repubbliche, che ormai avevamo riconosciuto, siglammo degli accordi di amicizia, [cooperazione] e mutua assistenza. Domanda: le Repubbliche Popolari avevano o no il diritto di rivolgersi a noi chiedendo supporto, visto che noi avevamo riconosciuto la loro indipendenza? E noi, avevamo o no il diritto di riconoscere la loro indipendenza, allo stesso modo in cui loro avevano il diritto di proclamare la propria autonomia in conformità con gli Articoli e le Sentenze emanati dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, da me citati in precedenza? Avevano o no il diritto di proclamare la loro indipendenza? Sì, ce l’avevano. Ma se avevano questo diritto, e se lo hanno esercitato, allora anche noi avevamo il diritto di siglare con loro un accordo; e questo abbiamo fatto. Tra l’altro, ripeto, operando nel pieno rispetto del diritto internazionale e dell’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Allo stesso tempo, noi rivolgemmo un appello alle autorità di Kiev perché ritirassero le loro truppe dal Donbass. Vi posso dire che ci sono stati dei contatti, e che noi abbiamo subito detto loro: portate via di lì i vostri soldati, e finiamola qui. Questa proposta fu immediatamente respinta, anzi direi semplicemente ignorata, sebbene essa rappresentasse una reale possibilità di chiudere la questione proprio ricorrendo a vie pacifiche.
Il 24 febbraio del 2022, la Russia fu costretta ad annunciare l’inizio dell’Operazione Militare Speciale. Nel rivolgermi ai cittadini russi, agli abitanti delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk e all’opinione pubblica ucraina, in quel frangente misi bene in chiaro quali fossero gli obiettivi di questa operazione: difendere la popolazione del Donbass, ripristinare la pace, provvedere alla demilitarizzazione e alla denazificazione dell’Ucraina e, allo stesso tempo, respingere le minacce dirette al nostro Paese e ristabilire un equilibrio per la sicurezza in Europa.
Nel frattempo, noi continuavamo a considerare prioritario il raggiungimento di tali obiettivi con mezzi politici e diplomatici. Voglio ricordare che già nelle primissime fasi dell’Operazione Militare Speciale, il nostro Paese svolse dei negoziati con i rappresentanti del regime di Kiev. Tali negoziati si svolsero inizialmente in Bielorussia e in Turchia. Cercammo di trasmettere quello che era il nostro pensiero principale: rispettate la scelta del Donbass, la volontà di coloro che vivono lì, ritirate le truppe, fermate gli attacchi ai danni di città e centri abitati, non serve nient’altro; le restanti questioni le risolveremo più avanti. In risposta giunse un “no, noi combatteremo”. Evidentemente, era stato proprio quello l’ordine ricevuto dai padroni occidentali, e adesso mi esprimerò anche su questo.
In quel periodo, tra il febbraio e il marzo del 2022, le nostre truppe, come sappiamo, procedettero verso Kiev. A questo proposito sia in Ucraina che in Occidente, allora come adesso, sono state fatte molte speculazioni.
Che cosa voglio dire in merito? Le nostre formazioni si trovavano effettivamente nei pressi di Kiev; i nostri dipartimenti militari e lo Stato Maggiore avevano diverse proposte in merito alle possibili opzioni per le nostre mosse successive, ma non era prevista alcuna decisione politica che implicasse un assalto ai danni di una città di tre milioni di abitanti, e questo a prescindere da che cosa qualcuno abbia immaginato o pensato.
In sostanza, la nostra non fu nient’altro che un’operazione atta a forzare il regime di Kiev alla pace. Le truppe si trovavano lì per spingere la parte ucraina alle trattative, per cercare di trovare delle soluzioni accettabili e, con queste, porre fine alla guerra scatenata da Kiev contro il Donbass già nel 2014; e risolvere quelle questioni che rappresentavano una minaccia per la sicurezza del nostro Paese, per la sicurezza della Russia.
Per quanto strano possa sembrare, la conseguenza di ciò fu che si riuscì davvero ad arrivare a degli accordi che, in linea di principio, erano soddisfacenti sia per Mosca che per Kiev. Tali accordi furono messi per iscritto e siglati a Istanbul dal Capo della delegazione negoziale ucraina. Quindi, evidentemente alle autorità di Kiev stavano bene le condizioni previste da tale proposta di risoluzione della crisi.
Il documento si chiamava “Trattato sulla neutralità permanente e le garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. Tale accordo aveva carattere di compromesso, ma i suoi punti cruciali erano in linea con le nostre esigenze fondamentali, poiché risolvevano quelle che erano state dichiarate come le principali problematiche già al momento dell’inizio dell’Operazione Militare Speciale. E, in particolare, per quanto strano possa sembrare, anche in merito alla questione della demilitarizzazione e della denazificazione dell’Ucraina, ed è lì che voglio richiamare la vostra attenzione. Perché anche su questo aspetto riuscimmo a trovare dei punti di incontro, seppure di una certa complessità. Sì, erano compromessi difficili, ma li avevamo individuati. E, per la precisione: si intendeva approvare una legge in Ucraina sul divieto all’ideologia nazista, in tutte le sue manifestazioni. Negli accordi c’è scritto tutto.
Inoltre, l’Ucraina, in cambio delle garanzie di sicurezza internazionale, avrebbe posto un limite alle dimensioni delle sue forze armate, si assumeva l’obbligo di non aderire ad alleanze militari, di non permettere che sul suo territorio venissero collocate basi militari straniere oppure che venissero schierati lì i relativi contingenti militari, e si impegnava a non condurre esercitazioni militari sul suo territorio. È tutto scritto sulle carte.
Noi, da parte nostra, comprendendo pure la preoccupazione dell’Ucraina legata alla sua sicurezza, acconsentimmo acché l’Ucraina, pur senza aderire formalmente alla NATO, potesse comunque godere di garanzie praticamente analoghe a quelle applicate ai Paesi membri di questa alleanza. Per noi si trattò di una decisione non semplice, ma riconoscevamo la legittimità delle richieste avanzate dall’Ucraina in merito al fatto che la sua sicurezza venisse garantita; e quind essenzialmente non facemmo obiezioni alle formule proposte da Kiev. Si trattava delle formule proposte da Kiev, e noi in generale non obiettammo, perché comprendevamo che la cosa più importante era fermare gli spargimenti di sangue e il conflitto in corso nel Donbass.
Il 29 marzo del 2022, ritirammo le nostre truppe da Kiev in quanto ci assicurarono che era necessario: bisognava creare le condizioni affinché il processo politico dei negoziati potesse concludersi, affinché si potesse portare a termine questo processo. E che, come dissero i nostri colleghi occidentali, la controparte non poteva firmare tali accordi con una pistola puntata alla tempia. Bene, noi acconsentimmo anche a questo.
Tuttavia, il giorno immediatamente successivo al ritiro delle truppe russe da Kiev, i vertici ucraini sospesero la loro partecipazione al processo negoziale dopo aver inscenato i famosi atti di provocazione di Bucha, e si rifiutarono di accettare la versione degli accordi per come era stata preparata. Credo che oggi sia chiaro a che cosa sia servita quella sporca provocazione: per giustificare in qualche modo il loro rifiuto dei risultati raggiunti nel corso dei negoziati. La via per la pace, ancora una volta, fu respinta.
Tutto questo fu fatto, come adesso sappiamo, su istruzione ricevuta dai curatori occidentali di Kiev, incluso l’ex Primo ministro britannico. Nel corso della sua visita a Kiev, fu detto apertamente che non ci sarebbe stato nessun tipo di accordo, che la Russia doveva essere sconfitta sul campo di battaglia, e che si sarebbe dovuti arrivare a infliggerle una sconfitta strategica. E così, continuarono con gran vigore a rifornire l’Ucraina di armamenti in quantità, e iniziarono appunto a parlare della necessità di doverci infliggere, come ho appena ricordato, una sconfitta strategica. Trascorso ancora qualche tempo, come sappiamo tutti molto bene, il Presidente dell’Ucraina emanò un decreto con il quale vietava ai suoi rappresentanti e addirittura a se stesso di condurre un qualsiasi negoziato con Mosca. Ecco che questo nostro nuovo tentativo di risolvere il problema con mezzi pacifici si concludeva ancora con un nulla di fatto.
A proposito, sulla questione dei negoziati. Adesso, mentre intervengo di fronte a voi, vorrei rendere pubblico ancora un altro episodio che si è verificato. Di questo non ho mai parlato pubblicamente prima d’ora, ma alcuni dei presenti ne sono a conoscenza. Dopo che l’esercito russo ebbe preso il controllo di una parte delle regioni di Kherson e di Zaporozhye, molti politici occidentali si proposero come mediatori per la risoluzione pacifica del conflitto. Uno di loro venne a Mosca il 5 marzo del 2022. E noi accettammo i suoi propositi di mediazione, tanto più che egli, nel corso dei nostri colloqui, faceva riferimento al fatto che era riuscito ad assicurarsi l’appoggio da parte dei leader di Germania e Francia, nonché di alcuni alti rappresentanti USA.
Nel corso della conversazione, il nostro ospite straniero, e fu un episodio curioso, chiese: Se state dando supporto al Donbass, allora perché le truppe russe si trovano nel sud dell’Ucraina, tra cui anche nelle regioni di Kherson e di Zaporozhye? La risposta da parte nostra fu che tale era stata la decisione dello Stato Maggiore Generale russo in merito alla pianificazione dell’operazione. E oggi aggiungo che il proposito era quello di aggirare parte delle aree fortificate, in primo luogo al fine di liberare Mariupol; tali fortificazioni, le autorità ucraine al potere avevano provveduto a farle costruire negli 8 anni [di assedio] in Donbass.
A quel punto, da parte del collega straniero seguì una richiesta di precisazione: era un politico molto professionale, questo gli va riconosciuto. Chiese se le nostre truppe sarebbero rimaste nelle regioni di Kherson e Zaporozhye, e che cosa ne sarebbe stato di queste regioni una volta raggiunti gli obiettivi dell’Operazione Militare Speciale. A questo risposi che, in generale, non escludevo che questi territori potessero rimanere sotto la sovranità ucraina, tuttavia alla condizione che la Russia potesse disporre di una via di collegamento stabile via terra con la Crimea.
Ossia, Kiev avrebbe dovuto garantirci la cosiddetta servitù di passaggio, e cioè il diritto, sancito giuridicamente, all’accesso da parte della Russia alla penisola della Crimea passando dalle regioni di Kherson e di Zaporozhye. Si trattava di una decisione politica importantissima. E certamente, com’è naturale, nella sua versione definitiva tale decisione non sarebbe stata certo presa unilateralmente, bensì soltanto a seguito di consultazioni con il Consiglio di Sicurezza e con altri organismi e, naturalmente, dopo averne discusso con i cittadini, con i rappresentanti della società civile del nostro Paese, e, cosa più importante, con i cittadini delle regioni di Kherson e di Zaporozhye.
In fin dei conti, fu proprio così che agimmo: chiedemmo alla gente quale fosse la loro opinione e svolgemmo dei referendum. E agimmo così come le persone avevano stabilito che dovessimo agire, in particolare nelle regioni di Kherson e di Zaporozhye, e nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk.
In quel frangente, nel marzo del 2022, il nostro potenziale mediatore nel processo negoziale ci informò che a breve si sarebbe recato a Kiev per proseguire la discussione, stavolta però con i colleghi che si trovavano nella capitale ucraina. Noi accogliemmo la notizia con favore, come facevamo in generale per i tentativi di trovare un modo per risolvere pacificamente il conflitto, perché ogni giorno in più di combattimenti significava andare incontro a nuove perdite e a nuove vittime. Tuttavia, in Ucraina, come poi abbiamo appreso in seguito, i servizi del nostro potenziale mediatore occidentale non furono accettati, anzi, al contrario; venimmo a sapere che lo avevano accusato di aver assunto una posizione filo-russa, e che lo avevano accusato in maniera piuttosto dura, bisogna aggiungere; ma questi sono dettagli.
Adesso, come ho già detto, lo stato delle cose è radicalmente cambiato. Gli abitanti delle regioni di Kherson e Zaporozhye hanno espresso la loro posizione nel corso dei referendum, quindi sia le regioni di Kherson e Zaporozhye che le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk sono entrate a far parte della Federazione Russa. E non ci può essere qui alcuna discussione su un’eventuale violazione della nostra unità statale. La volontà delle persone di far parte della Russia è un qualcosa di intoccabile. La questione quindi è definitivamente chiusa e non ne parleremo più.
Desidero ripetere nuovamente che è stato proprio l’Occidente a preparare e a scatenare la crisi ucraina; e che adesso sta facendo tutto il possibile affinché questa crisi si protragga all’infinito, così da indebolire i popoli della Russia e dell’Ucraina, e in maniera tale che i loro rapporti continuino a deteriorarsi.
Stanno inviando sempre nuove partite di armamenti e ordigni militari. Alcuni politici europei hanno cominciato a parlare delle possibilità di schierare in Ucraina i loro eserciti regolari. In tutto ciò, come ho già fatto notare, sono proprio gli attuali, veri padroni dell’Ucraina (non certo il popolo ucraino purtroppo, ma bensì l’élite globalista d’oltreoceano) a tentare di caricare il potere esecutivo ucraino dell’onere di dover prendere decisioni impopolari tra i suoi cittadini, tra le quali anche quella di abbassare ulteriormente l’età minima della coscrizione militare.
Attualmente, come sappiamo, l’età minima è quella dei 25 anni, ma la prossima tappa potrà essere quella di portarla a 23, e poi magari a 20, e 18, o anche direttamente a 18. E successivamente, si libereranno di quei personaggi politici che hanno preso tali decisioni impopolari sotto la spinta dell’Occidente, li getteranno via perché ormai non gli serviranno più, ma solo dopo aver scaricato su di loro tutta la responsabilità. E al loro posto piazzeranno altri personaggi, anche loro dipendenti dall’Occidente, ma la cui reputazione non sia ancora stata macchiata fino a quel punto.
Da questo, forse, è nata l’idea di annullare le prossime elezioni presidenziali in Ucraina. Per ora, coloro che sono al potere faranno tutto [quanto viene loro chiesto], e poi verranno gettati nel cestino. E in seguito, [i loro padroni Occidentali] faranno ciò che ritengono più opportuno.
In merito a questo, desidero rammentarvi anche un fatto di cui al momento a Kiev preferiscono non ricordarsi, mentre in Occidente preferiscono proprio non parlarne. A che cosa mi riferisco? Già nel maggio del 2014, la Corte Costituzionale dell’Ucraina emetteva una sentenza nella quale si stabiliva che, e cito, “Il Presidente viene eletto per un mandato di 5 anni, indipendentemente dal fatto che egli venga eletto nel corso di elezioni ordinarie o anticipate”. Inoltre, la Corte Costituzionale dell’Ucraina sottolineava che, e cito ancora, “nel profilo costituzionale del Presidente non è contemplata alcuna norma che possa prevedere l’attribuzione di un mandato la cui durata non sia quella di 5 anni”. Fine della citazione, punto. La sentenza della Corte Costituzionale era definitiva, e non soggetta a possibilità di ricorso. Fine.
Cosa significa tutto ciò, se lo si applica alla situazione attuale? Significa che il mandato presidenziale del già eletto Capo dell’Ucraina è ormai scaduto, assieme alla sua legittimità; una legittimità che nessun tipo di stratagemma potrà ripristinare. Adesso non andrò a parlare nel dettaglio dei retroscena di questa sentenza della Corte Costituzionale dell’Ucraina riguardante il mandato presidenziale. È chiaro che tale sentenza era legata ai tentativi di rendere legittimo il colpo di Stato del 2014. Tuttavia, ciò non toglie che tale verdetto adesso c’è, e che costituisce un fatto giuridico, che mette in discussione tutti i tentativi di giustificare il teatrino a cui stiamo assistendo, legato all’annullamento delle elezioni.
In effetti, questa odierna, tragica pagina nella storia dell’Ucraina ha avuto inizio nel momento in cui il potere è stato preso con la forza, come ho già detto, e cioè nel momento in cui si verificò il colpo di Stato anticostituzionale del 2014.Ripeto: il regime di Kiev attualmente al potere ha avuto origine da un colpo di Stato armato. E adesso, la storia si ripete: il potere esecutivo ucraino, come già nel 2014, è stato di nuovo usurpato, ed è detenuto illegalmente; ed è quindi, di fatto, illegittimo.
Dirò anche di più: la situazione in merito all’annullamento delle elezioni non è che l’espressione del reale carattere, della vera natura dell’attuale regime di Kiev, che è giunto al potere partendo dal colpo di Stato armato del 2014; il regime di Kiev è legato ad esso, e in esso affonda le sue radici. E questo fatto che, una volta annullate le elezioni, stiano rimanendo aggrappati al potere, questo modo di agire viene esplicitamente vietato dall’Articolo 5 della Costituzione dell’Ucraina. Cito: “Il diritto di determinare e modificare l’ordine costituzionale in Ucraina appartiene esclusivamente al popolo, e né lo Stato, né i suoi organi o funzionari possono usurparlo”. Inoltre, tale condotta rientra nella fattispecie descritta dall’Articolo 109 del Codice Penale dell’Ucraina, nel quale, appunto, si fa riferimento al rovesciamento o al sovvertimento forzati dell’ordine costituzionale, all’usurpazione del potere statale, ma anche alla collusione di altri nel compimento di tali azioni.
Nel 2014, tale usurpazione veniva giustificata in nome della Rivoluzione, mentre adesso la giustificano con la scusa delle azioni militari in corso. Ma il senso di tutto ciò non cambia. Nella sostanza, stiamo parlando di collusione tra il potere esecutivo ucraino, i vertici della Verkhovnaya Rada e la maggioranza parlamentare da essi controllata, mirata a usurpare il potere statale: non la si potrebbe definire in altro modo, e in quanto tale essa costituisce un reato penale ai sensi della legge ucraina.
C’è dell’altro: la Costituzione dell’Ucraina non prevede la possibilità di annullare o posticipare le elezioni del Presidente, come non prevede neppure che il suo mandato venga prolungato a seguito dell’introduzione della legge marziale, che è invece il pretesto che stanno invocando in questo momento. Cosa invece che è prevista nella Legge Fondamentale dell’Ucraina, è la possibilità di rimandare le elezioni della Verkhovnaya Rada durante l’imposizione della legge marziale. Troviamo tale disposizione nell’Articolo 83 della Costituzione dell’Ucraina.
Per cui, la legislazione ucraina ha previsto un’unica eccezione, che è quella della possibile estensione temporale dei poteri conferiti a questo organo del potere statale, [la Verkhovnaya Rada] mentre è in corso la legge marziale e quindi non si tengono le relative elezioni. E questa possibilità riguarda soltanto la Verkhovnaya Rada. In questo modo il Parlamento ucraino viene designato come organo operativo permanente, anche in condizioni in cui viga la legge marziale.
In altre parole, è la Verkhovnaya Rada a rappresentare attualmente un organo legittimo, a differenza di quanto si può dire del potere esecutivo. L’Ucraina non è una repubblica presidenziale, bensì una repubblica semipresidenziale. La questione è tutta qui.
Inoltre, al Presidente della Verkhovnaya Rada, che è anche la carica facente funzioni del Presidente dell’Ucraina, in forza degli Articoli 106 e 112 sono conferiti poteri speciali, tra le altre cose nell’ambito della difesa, della sicurezza e del Comando Supremo delle forze armate. È tutto scritto nero su bianco in Costituzione.
A proposito, nella prima metà di quest’anno l’Ucraina ha concluso un pacchetto di accordi bilaterali di cooperazione nell’ambito della sicurezza e per il sostegno a lungo termine con tutta una serie di Paesi europei. Adesso, è comparso un altro documento dagli USA, che contiene accordi analoghi.
A partire dal 21 maggio dell’anno in corso, è legittimamente emersa la questione relativa ai poteri e alla legittimità dei rappresentanti della parte ucraina, che siglano tali documenti. A noi, come si dice, non cambia nulla: che firmino pure quello che vogliono. È però chiaro che qui sussiste una componente politica e propagandistica. Gli Stati Uniti e i loro satelliti desiderano appoggiare i loro protetti in qualche modo, vogliono attribuire loro importanza, conferire loro legittimità.
Ma comunque, se più avanti negli stessi USA dovessero condurre una seria perizia legale su tali accordi, e adesso non sto parlando del loro contenuto, ma degli aspetti giuridici, sorgerebbe immancabilmente un problema: chi ha firmato questi documenti, e con quale autorità? E allora sarebbe chiaro che tutto questo è stato solo una farsa, l’accordo perderebbe di valore, e tutto quanto il disegno crollerebbe; certo, questo solo se ci fosse il desiderio di analizzare la situazione. Si può fingere che sia tutto regolare, ma qui non c’è proprio niente di regolare, e io ho letto tutto. Sta tutto scritto nei documenti, sta tutto scritto nella Costituzione.
Vorrei anche ricordare che, a seguito dell’inizio dell’Operazione Militare Speciale, l’Occidente ha dispiegato con violenza e senza alcun ritegno una campagna finalizzata a isolare la Russia sulla scena internazionale. Oggi è chiaro a tutti, evidentemente, che tale tentativo è fallito; ma comunque, l’Occidente non ha rinunciato al suo intento mirato a costituire una specie di coalizione internazionale antirussa e a dare l’impressione di star facendo pressioni sul nostro Paese. Anche noi ne siamo consapevoli.
Come sapete, l’Occidente ha iniziato a promuovere attivamente l’iniziativa legata allo svolgimento, in Svizzera, della cosiddetta “Conferenza internazionale di alto profilo sulle questioni legate alla pace in Ucraina”. Conferenza, che, tra l’altro, pianificano di svolgere subito dopo il Summit del G7, che coinvolge proprio il gruppo di Paesi che, con le loro politiche, hanno a tutti gli effetti acceso il conflitto in Ucraina. Ciò che propongono gli organizzatori dell’incontro che si terrà in Svizzera non è altro che una nuova tattica, mirata a sviare l’attenzione generale, a scambiare le cause della crisi ucraina con le sue conseguenze, ad avviare la discussione seguendo la strada sbagliata e, in una qualche misura, a dare ancora una volta una parvenza di legittimità all’attuale detentore del potere esecutivo in Ucraina.
Perché è logico che non abbiano alcuna intenzione di discutere, durante la conferenza in Svizzera, di quelle che realmente sono le questioni fondamentali che giacciono alla base dell’attuale crisi che affligge sicurezza e stabilità a livello internazionale, né certamente di quelle che sono le reali cause del conflitto ucraino; e questo, nonostante tutti i tentativi messi in atto per conferire una qualche aura di rispettabilità all’agenda prevista per la conferenza.
Già adesso ci possiamo aspettare che tutto si ridurrà a delle chiacchiere generiche di mero carattere demagogico e a tutta una serie di nuove accuse nei confronti della Russia. Quale sia l’intenzione, è presto detto: coinvolgere il maggior numero di Paesi con ogni mezzo possibile e, quindi, presentare la questione come se le regole e le “ricette” avanzate dall’Occidente fossero condivise dall’intera comunità internazionale, e quindi il nostro Paese non potesse far altro che accettarle senza riserve.
Come sapete, noi naturalmente non siamo stati invitati all’incontro che avrà luogo in Svizzera. Dico “incontro”, perché dopotutto, in sostanza, non si tratta certo di negoziati, bensì del tentativo da parte di questo gruppo di Paesi di continuare a imporre la propria linea di pensiero, e di risolvere a loro discrezione delle questioni che hanno un impatto diretto sui nostri interessi e sulla nostra sicurezza.
In merito a questo, desidero sottolineare che senza la partecipazione della Russia, senza un dialogo sincero e responsabile con il nostro Paese, non sarà possibile giungere a una risoluzione pacifica della questione ucraina, né, in generale, giungere a una risoluzione delle questioni relative alla sicurezza europea nel suo complesso.
Al momento, l’Occidente sta ignorando i nostri interessi, tra l’altro mentre vieta a Kiev di condurre negoziati, ma allo stesso tempo invitando costantemente noi, con grande ipocrisia, ad aprirci a tali negoziati. Sembra un comportamento da idioti: da un lato, impediscono all’Ucraina di svolgere negoziati con noi, mentre dall’altro ci invitano a svolgere negoziati, dando a intendere che siamo noi a rifiutarci di farlo. Questo è semplicemente ridicolo. A quanto pare, viviamo in una specie di universo parallelo dell’assurdo.
Tanto per cominciare, che diano a Kiev l’ordine di rimuovere tale divieto, il divieto autoimposto a condurre negoziati con la Russia; noi in quel caso saremmo disposti a sederci al tavolo dei negoziati già da domani. Noi comprendiamo, in tutto ciò, tutta la particolarità della situazione dal punto di vista giuridico, ma là al momento ci sono delle autorità legittime, anche ai sensi della Costituzione: ne ho parlato giusto poco fa, le legittime autorità con le quali condurre i negoziati ci sarebbero. Prego, noi siamo pronti. Le nostre condizioni per avviare tale dialogo sono molto semplici e si riassumono in quanto segue.
Sapete, ho intenzione di dedicare ancora un poco del nostro tempo per ripercorrere tutta la sequenza degli eventi accaduti ancora una volta, in modo che sia chiaro che per noi ciò che dirò non è temporaneo né provvisorio, ma è da sempre la posizione alla quale aderiamo, una posizione ben precisa, perché noi abbiamo sempre cercato la pace.
Bene, queste condizioni sono molto semplici. Il ritiro totale delle truppe ucraine dalle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, nonché dalle regioni di Kherson e Zaporozhye, è la prima. In più, voglio sottolineare, che le truppe devono essere ritirate dall’intero territorio di queste regioni, ricompreso in quelli che erano i loro confini amministrativi al momento in cui sono entrate a far parte dell’Ucraina.
Non appena da Kiev dichiareranno di essere disposti a prendere questa decisione, e non appena avvieranno a tutti gli effetti il ritiro delle truppe da queste regioni, dando anche ufficialmente nota della loro rinuncia ai progetti di adesione alla NATO, da parte nostra seguirà immediatamente, nel medesimo istante, l’ordine di cessare il fuoco e di avviare i negoziati. Ripeto: noi lo faremo immediatamente. E naturalmente, allo stesso tempo garantiremo che il ritiro delle formazioni e delle unità militari ucraine avvenga senza alcun intralcio e in sicurezza.
Noi ovviamente vorremmo poter contare sul fatto che la decisione relativa al ritiro delle truppe, al non allineamento dell’Ucraina a un determinato blocco e all’apertura di un dialogo con la Russia, decisione dalla quale dipende la futura esistenza dello Stato ucraino, le autorità di Kiev la prenderanno autonomamente, sulla base delle realtà venutesi a determinare e lasciandosi guidare dai reali interessi nazionali della popolazione ucraina; e non dietro istruzioni dell’Occidente, sebbene su questo, ovviamente, nutriamo grossi dubbi.
E comunque, che cosa intendo dire di nuovo a questo proposito, che cosa voglio ricordarvi? Ho detto di voler nuovamente ripercorrere la cronostoria degli eventi. Bene, dedichiamo qualche minuto a questo.
Allora, durante gli eventi di piazza Maidan a Kiev, avvenuti tra il 2013 e il 2014, la Russia si offrì più volte di fornire assistenza per poter risolvere in maniera costituzionalmente legittima una crisi che era stata, in effetti, provocata dall’esterno. Torniamo quindi agli eventi verificatisi alla fine del febbraio 2014.
Il 18 febbraio, a Kiev, iniziarono a verificarsi scontri armati fomentati dall’opposizione. Tutta una serie di edifici, tra cui il Municipio e la Casa dei Sindacati, vennero dati alle fiamme. Il 20 febbraio, dei cecchini la cui identità è ignota aprirono il fuoco sui manifestanti e sulle forze dell’ordine; e cioè, coloro che stavano approntando il colpo di Stato armato, stavano anche facendo di tutto per portare i disordini alla deriva violenta e alla radicalizzazione. Mentre invece, le persone che in quei giorni si trovavano per le strade di Kiev e che esprimevano la loro insoddisfazione nei confronti delle autorità al potere in quel momento, furono usate intenzionalmente per il tornaconto [da chi preparava il colpo di Stato], come fossero carne da macello. E precisamente questo stanno facendo anche oggi, organizzando mobilitazioni, mandando la gente, appunto, al macello. Eppure, all’epoca la possibilità di uscire dalla crisi in maniera civile c’era eccome.
Come sappiamo, il 21 febbraio fu siglato un accordo tra il Presidente dell’Ucraina allora in carica e l’opposizione per una risoluzione della crisi politica. A operare nel ruolo di garanti dell’accordo, come sappiamo, furono le autorità tedesche, polacche e francesi. L’accordo prevedeva il ritorno a una forma di governo semipresidenziale, lo svolgimento di elezioni presidenziali anticipate, la composizione di un governo che godesse della fiducia popolare, ma anche il ritiro delle forze dell’ordine dal centro di Kiev e la consegna delle armi da parte dell’opposizione.
Aggiungo che la Verkhovnaya Rada aveva approvato una legge che escludeva che i partecipanti alle proteste potessero essere perseguiti penalmente. Tale accordo, che avrebbe permesso di porre fine alle violenze e di riportare lo stato di cose entro un piano di costituzionalità, sussisteva. L’accordo fu siglato, anche se sia a Kiev che in Occidente preferiscono non rammentarlo.
Oggi dirò di più anche in merito a un altro fatto, e neppure di questo ho mai parlato prima pubblicamente. E cioè, esattamente in quelle stesse ore del 21 febbraio, su iniziativa della parte americana svolgemmo dei colloqui con il mio omologo americano. Il punto dell’incontro era il seguente: il Presidente americano appoggiava senza mezzi termini l’accordo intercorso a Kiev tra autorità al potere e opposizione. Inoltre, ne parlò come una vera svolta, come la possibilità per il popolo ucraino di evitare che le violenze divampate in quel periodo oltrepassassero ogni limite.
E più avanti, durante il colloquio, insieme elaborammo, di fatto, la seguente formula congiunta: la Russia avrebbe cercato di convincere il Presidente ucraino allora in carica a tenere una condotta il più possibile moderata, senza ricorrere alle armi o alle forze dell’ordine contro i manifestanti. Mentre gli USA, da parte loro, come stabilimmo, avrebbero richiamato, come dire, l’opposizione all’ordine e avrebbero fatto in modo che venissero liberati gli edifici amministrativi occupati, così che le strade tornassero a placarsi.
Tutto questo avrebbe dovuto creare le condizioni perché la vita nel paese tornasse alla normalità, e perché la situazione rientrasse nel normale ordine costituzionale e di legge. In generale quindi noi rimanemmo d’accordo sul fatto che avremmo svolto un lavoro congiunto in nome di un’Ucraina stabile, pacifica, e che potesse seguire un normale percorso di sviluppo. Noi mantenemmo del tutto la parola data. L’allora Presidente ucraino Yanukovich, il quale comunque già in principio non aveva intenzione di ricorrere all’esercito, evitò a maggior ragione di farlo, e, inoltre, fece rimuovere da Kiev anche i reparti di polizia supplementari.
E invece, i colleghi occidentali? Nella notte del 22 febbraio, e poi nel corso di tutta la giornata successiva, quando il Presidente Yanukovich partì per Kharkov, dove si sarebbe tenuto il Congresso dei deputati della Crimea e delle regioni sud-orientali dell’Ucraina, i radicali, nonostante tutti gli accordi presi e le garanzie fornite dall’Occidente (sia dall’Europa che, come ho appena detto, dagli USA), presero con la forza il controllo dell’edificio della Rada, di quello dell’amministrazione del Presidente, e presero il Governo. E non ci fu nessuno tra coloro che erano stati i garanti di tutti questi accordi per la risoluzione della crisi per vie politiche, né gli Stati Uniti, né l’Europa, che abbia alzato un dito per adempiere ai suoi obblighi, e per esortare l’opposizione a liberare gli edifici amministrativi occupati e a rinunciare all’uso della violenza. Evidentemente, non solo tale successione di eventi a loro andava bene; a quanto pare, erano loro stessi i responsabili della piega che la situazione stava prendendo.
Inoltre, il 22 febbraio del 2014, la Verkhovnaya Rada, in violazione della Costituzione ucraina, adottò il decreto riguardante le cosiddette dimissioni del Presidente Yanukovich dalla carica di Presidente, e indisse delle elezioni straordinarie per il 25 maggio. Insomma, il colpo di Stato armato indotto dall’esterno era riuscito. I radicali ucraini, col tacito consenso e l’appoggio diretto dell’Occidente, avevano mandato a monte tutti i tentativi di uscire dalla crisi per vie pacifiche.
In seguito, cercammo di persuadere Kiev e le capitali occidentali ad avviare un dialogo con le persone che vivevano nel sud-est dell’Ucraina, e ad approcciarsi con rispetto ai loro interessi, ai loro diritti e alle loro libertà. Ma no, il regime che era salito al potere grazie al colpo di Stato scelse la guerra. Nella primavera e nell’estate del 2014, dette il via ad azioni punitive contro la popolazione del Donbass. La Russia, di nuovo, fece appello per la pace.
Noi facemmo di tutto per cercare di risolvere le gravi problematiche emerse nell’ambito degli Accordi di Minsk, ma l’Occidente e le autorità di Kiev, come ho già sottolineato, non intendevano adempiere a tali accordi. E questo, nonostante a parole i colleghi occidentali, compreso il Capo della Casa Bianca, ci avessero assicurato dell’importanza degli Accordi di Minsk, e del fatto che loro fossero determinati a fare quanto necessario per attuarli. Che questo, a loro parere, ci avrebbe permesso di uscire dalla situazione di crisi in cui versava l’Ucraina, avrebbe portato a una stabilizzazione, e a tenere di conto degli interessi degli abitanti delle regioni orientali del Paese. Invece di tutto ciò, di fatto misero in atto un assedio nella regione del Donbass. Le Forze Armate Ucraine, inoltre, stavano preparando una vasta operazione mirata ad annientare le Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk.
Così, gli Accordi di Minsk furono definitivamente seppelliti per mano del regime di Kiev e dell’Occidente. Su questo tornerò ancora. Ed è proprio per questo che nel 2022 la Russia fu costretta a dare inizio all’Operazione Militare Speciale: lo fece per fermare il conflitto in Donbass e per impedire che venisse messo in atto un genocidio ai danni dei suoi abitanti.
Eppure, noi sin dai primi giorni della crisi tentammo nuovamente di avanzare delle opzioni per una sua risoluzione diplomatica, e a questo ho già fatto riferimento oggi, per mezzo di negoziati con la Bielorussia e la Turchia, ritirando le truppe da Kiev per creare le condizioni necessarie a siglare gli accordi di Istanbul, che inizialmente sembravano aver messo tutti d’accordo. Ma anche tutti questi nostri tentativi, in fin dei conti, di nuovo, furono respinti. L’Occidente e Kiev presero un’altra strada, quella mirata a infliggerci la sconfitta. Però, come sappiamo, l’intero progetto è fallito.
Oggi, avanziamo nuovamente una proposta di pace reale e concreta. Se anche stavolta, come già in precedenza, da Kiev e dalle capitali occidentali dovesse giungere un rifiuto a tale proposta, dopotutto sarà affar loro; saranno loro a doversi fare carico della responsabilità politica e morale del non aver posto fine a questo spargimento di sangue. È infatti evidente che sul terreno e lungo la linea di contatto sul campo di battaglia ci saranno ulteriori sviluppi, e non saranno certo a favore del regime di Kiev. Come è evidente che, per allora, le condizioni per l’avvio dei negoziati saranno ormai cambiate.
Desidero sottolineare questo: il punto della nostra proposta non consiste in una qualche tregua temporanea o in una mera sospensione delle ostilità, come invece vorrebbe l’Occidente, così da poter guadagnare tempo per ovviare alle perdite subìte, provvedere al riarmo del regime di Kiev e prepararsi a una nuova offensiva. Ripeto: non si tratta di congelare il conflitto, ma di porvi definitivamente fine.
E lo ripeto ancora una volta: Non appena da Kiev accetteranno che gli eventi facciano il loro corso per come proposto da noi oggi, non appena acconsentiranno al ritiro completo delle loro truppe dai territori della Repubblica popolare di Donetsk, della Repubblica Popolare di Lugansk e dalle regioni di Zaporozhye e di Kherson, quando daranno effettivamente inizio a tale processo [di smobilitazione], noi saremo pronti ad avviare immediatamente i negoziati, senza alcun indugio.
Lo ripeto ancora: la nostra posizione, sulla quale non transigiamo, è la seguente: l’Ucraina deve avere status di Paese neutrale, non allineato e denuclearizzato, e deve essere sottoposta a un processo di demilitarizzazione e denazificazione; e ciò a maggior ragione, visto che tutti acconsentirono alla totalità di queste condizioni già nel corso dei negoziati di Istanbul del 2022. Sulla demilitarizzazione, negli accordi era tutto chiaro, era tutto ben stabilito: il numero di questo, il numero di quello, il numero di carri armati… ci eravamo accordati su tutto.
Ovviamente, i diritti, le libertà e gli interessi dei cittadini russofoni residenti in Ucraina dovranno essere pienamente garantiti, e le nuove realtà territoriali dovranno essere riconosciute; la Crimea, Sebastopoli, la Repubblica popolare di Donetsk, la Repubblica Popolare di Lugansk, così come le regioni di Zaporozhye e di Kherson dovranno essere riconosciute come soggetti territoriali della Federazione Russa. In seguito, tali imprescindibili disposizioni dovranno essere ufficializzate nella forma di accordi internazionali fondamentali. Naturalmente, questo presupporrà altresì il ritiro di tutte le sanzioni occidentali imposte alla Russia.
Ritengo che la Russia stia proponendo un’opzione che permetterebbe davvero di porre fine alla guerra in Ucraina; ossia, il nostro è un invito a voltare pagina, a superare questa tragica parentesi storica e, per quanto difficile sia, a iniziare, passo dopo passo, con gradualità, a recuperare i rapporti di fiducia e di buon vicinato che esistevano tra Russia e Ucraina e, in generale, in Europa.
Una volta risolta la crisi ucraina, noi, tra le altre cose, assieme ai nostri partner nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, i cui membri ancora oggi stanno apportando contributi significativi e costruttivi alla ricerca di una via per la risoluzione pacifica della crisi ucraina, ma anche assieme a quei Paesi occidentali, tra i quali anche europei, che sono disposti al dialogo, potremo finalmente approcciarci alla questione fondamentale della quale ho parlato all’inizio del mio intervento: e cioè, alla creazione di un sistema eurasiatico di sicurezza caratterizzato dall’indivisibilità della stessa, un sistema che tenga in considerazione gli interessi di tutti i Paesi del continente, senza alcuna eccezione.
Naturalmente, un ritorno alle nostre proposte iniziali riguardanti l’ambito della sicurezza per come le avanzammo 25, 15, o anche 2 anni fa, sarebbe impossibile; sono accadute troppe cose, le circostanze sono cambiate. Tuttavia, i principi di base e, cosa più importante, l’oggetto stesso del dialogo rimangono invariati. La Russia è ben consapevole del suo ruolo di responsabilità nel mantenere la stabilità globale, e rinnova ancora una volta la sua disponibilità a condurre un dialogo con tutti i Paesi. Ma tale dialogo non dovrà essere mera imitazione di un processo di pace, non dovrà avere come reale obiettivo quello di servire il volere e gli interessi egoistici di alcuni; dovrà essere un dialogo serio, ponderato, che vada a coprire ogni problematica che vada ad affrontare l’intero complesso di questioni riguardanti la sicurezza globale.