Rassegna 21/10/2024
Chris Hedges: Come si è estinta la democrazia negli Stati Uniti
Come si è estinta la democrazia negli Stati Uniti
Alessandro Bianchi intervista Chris Hedges
“I mass media si guadagnano da vivere vendendo al pubblico il mito dell’America. Questo è sempre stato vero. Ma ora le cose sono peggiorate. Laddove una volta si riusciva a trovare qualche voce che cercava di parlare onestamente di chi siamo come nazione e dei crimini compiuti in nostro nome, ora è quasi impossibile lottare contro il burlesque che si presenta come notizia.”
Chris Hedges è autore di War Is a Force That Gives Us Meaning (2002), bestseller che è stato finalista dei National Book Critics Circle Award. Ha insegnato giornalismo alle università di Columbia, New York, Princeton e Toronto. Per circa due decenni corrispondente estero in Medio Oriente, America centrale, Africa e nei Balcani. Ha lavorato al New York Times dal 1990 al 2005 e ha vinto nel 2002 il Premio Pulitzer. Dal 2005 continua a fare vero giornalismo ogni settimana su organi di informazione indipendenti statunitensi. È l’autore che più traduciamo ed è per questo motivo di grande onore ed emozione per l’AntiDiplomatico avere avuto il privilegio di poter intervistare Chris Hedges.
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Lei ha recentemente raccontato, in un’intervista a Glenn Greenwald, la sua esperienza con il New York Times e il perché non ha potuto continuare a esercitare la sua professione di giornalista per quello che in Italia viene considerato il giornale “più affidabile” al mondo. Se dovesse descrivere sinteticamente come opera l’informazione in quel giornale che parole userebbe?
Più che fare giornalismo, il New York Times premia ormai solo l’accesso ai potenti e ai ricchi. Negli ultimi anni, questo modo di operare lo ha portato a pubblicare numerose storie che si sono rivelate false. I redattori del giornale sono stati degli autentici propagandisti e Tony Judt li ha definiti “gli utili idioti di Bush” per la guerra in Iraq. Il giornale si è trasformato in un megafono della storia delle armi di distruzione di massa. E ancora: hanno soppresso, su richiesta del governo, una denuncia di James Risen sulle intercettazioni senza mandato degli americani da parte della National Security Agency, finché il giornale non ha saputo che l’inchiesta sarebbe stata pubblicata nel libro di Risen…
OttolinaTV: La “Guerra di Putin” rende felici gli operai russi (e invidiosi quelli europei)
La “Guerra di Putin” rende felici gli operai russi (e invidiosi quelli europei)
di OttolinaTV
Le sanzioni fanno il solletico alla Russia: bilancio pubblico dello Stato di nuovo in attivo titolava ieri Nino Nusneri su La Verità: “Secondo i dati preliminari pubblicati dal ministro delle Finanze, Anton Siluanov, la Russia ha registrato un attivo di bilancio di 0,2 trilioni di rubli (1,88 miliardi di euro) nei primi nove mesi del 2024” si legge nell’articolo; e non è l’unica buona notizia per Putin, tanto che nel 2024, per la prima volta dal 2015, la Russia è stata indicata dalla Banca Mondiale nel gruppo dei Paesi ad alto reddito, con un reddito pro capite superiore ai 14mila dollari l’anno. In fondo le entrate tributarie con cui finanziare la guerra sono assicurate da petrolio e gas che Alexander Dyukov, gran capo di Gazprom, continua a vendere in giro per il mondo in quantità (in barba alle sanzioni occidentali), naturalmente a India, Cina e Turchia, ma anche Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia; non a caso Mosca ha rivisto al rialzo di 17 miliardi di dollari le sue previsioni sugli incassi provenienti dalle esportazioni di petrolio nel 2024: secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, il Cremlino si attende ora di incassare poco meno di 240 miliardi di dollari (13 miliardi in più del 2023), entrate che – oltre a finanziare la guerra – vanno a finire nell’economia reale del paese e, a quanto emerge da numerosi dati, ad aumentare il benessere delle classi popolari russe e, di conseguenza, il consenso per il governo. Insomma: un processo esattamente opposto a quanto stiamo assistendo in Occidente, come mostra anche l’analista Ekaterina Kurbangaleeva in un bell’articolo pubblicato da Carnegie Politika (ripreso poi da Fulvio Scaglione per Insideover): “I redditi reali in Russia” scrive la Kurbangaleeva “sono aumentati del 5,8% nel 2023 e allo stesso ritmo nel primo trimestre del 2024, secondo il Servizio statistico statale russo (Rosstat).
Alessandro Pascale: Ascesa e caratteristiche del totalitarismo liberale
Ascesa e caratteristiche del totalitarismo liberale
di Alessandro Pascale – Resistenza Popolare
La presente relazione è stata tenuta a Roma il 6 ottobre 2024, in occasione della IV sessione del Forum organizzato dalla Rete dei Comunisti dedicato al tema “Elogio del comunismo del Novecento”.
Il tema di cui tratterò riguarda il particolare tipo di regime che si è realizzato in Occidente negli ultimi 30 anni a seguito dell’intreccio tra la crisi del movimento comunista filosovietico, e del parallelo affinamento delle tecniche imperialiste di controllo sociale. Lo definisco un totalitarismo “liberale”, ossia una fase particolare della dittatura della borghesia, in cui questa classe è riuscita ad affermare in maniera pressoché totale non solo le proprie politiche economiche, ma anche il proprio modo di pensare e categorizzare la realtà; ciò ha comportato la piena vittoria della sua ideologia, il liberalismo, riuscendo a emarginare ogni altro paradigma politico alternativo, compreso quella marxista. Il totalitarismo liberale è la consacrazione del TINA (There is no alternative), ossia l’affermazione nel senso comune popolare dell’idea che non ci siano alternative possibili al modo di produzione capitalistico. Uso il termine “totalitarismo” non nel senso pessimistico di un controllo totalizzante, ma per descrivere simbolicamente il livello egemonico inedito raggiunto dalle classi dominanti sulla stragrande maggioranza della popolazione, riducendo all’insignificanza politica le capacità teoriche e pratiche della gran parte del proletariato, che dopo un secolo e mezzo di emancipazione intellettuale e organizzativa, è tornato ad affidarsi alla guida politica di esponenti e organizzazioni borghesi.
Questi temi erano ben presenti a Marx ed Engels, che già negli anni giovanili concludevano che “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” e che il proletariato dovesse dotarsi di proprie organizzazioni di classe, emancipandosi dalla direzione borghese. Le gravi contraddizioni materiali derivanti però dall’industrializzazione nel XIX secolo, e ancora per la gran parte del XX secolo, risultavano in ogni caso ancora prevalenti rispetto alla capacità borghese di operare una “rivoluzione passiva”, ossia di imporre, grazie anche a misurate e contenute concessioni materiali, una certa ideologia, ossia una visione distorta della realtà, sulla maggioranza del proletariato, riuscendo ad attirare piuttosto nei propri ranghi gli strati dell’aristocrazia operaia, quelli che la borghesia chiama “ceti medi”.
Fulvio Grimaldi: “Netaniahu non ha un piano per il dopo?” Ah ah ah ah ah !!!
“Netaniahu non ha un piano per il dopo?” Ah ah ah ah ah !!!
di Fulvio Grimaldi
Quod Deus perdere vult, dementat prius
C’è di tutto e di peggio. A partire dall’amico Volodymyr che vediamo scappare di capitale in capitale gridando “vittoria!” O da quell’altro, ancora più intimo, che ossessionato dal modello Churchill a Dresda, va scagliando bombe USA da 900 kg su tende spesse due centimetri, per il gusto di vedere bimbetti terroristi bruciare vivi (io l’ho visto fare a Gaza col fosforo bianco chiamato “Piombo Fuso”). Quando si dice “amici” si sa che sono quelli dei nostri benestanti politico-mediatico-economici e, in particolare della loro stella-guida “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana”. Noi, che siamo i malestanti, stiamo lì a guardare, a farci picchiare da Pavolini-Piantedosi quando diciamo basta genocidio e … a piangere.
Ci occupiamo anche di quei bastardi dell’Unifil che anziché stare in Libano a ostacolare le razzie di Israele, dovrebbero stare in Israele a bloccare le – eventuali – razzie dei terroristi di Hezbollah. Peccato che Israele ha devastato, sterminato e torturato il Libano tre volte dal 1978, senza riuscire a civilizzarlo come Gaza e la Cisgiordania. A dispetto dell’aiuto che gli hanno sempre fornito (Sabra e Shatila) i patriottici (come Yo soy Giorgia) contractor fascisti della comunità cristiano-maronita.
Michela Arricale: Mondo in guerra e Italia divisa
Mondo in guerra e Italia divisa
a cura di Michela Arricale, su Radio Grad – Yesterday’s Papers
Mentre scriviamo, Israele sta disperatamente cercando di far deflagrare tutto il potenziale esplosivo di questa guerra mondiale “Multidominio” che stiamo vivendo, a quanto pare riuscendoci.
Eh si, io non la vedo più – ormai – come una guerra mondiale a pezzi (locuzione che pure va molto di moda), ma come una guerra mondiale punto.
Ne ha tutte le caratteristiche: coinvolge tutti gli attori principali dell’ordinamento internazionale su almeno quattro continenti, anche se non tutti combattono negli stessi domini, in parallelo.
La Guerra commerciale e dei dazi contro la Cina, la guerra bombardata contro la Russia e in Medio Oriente, la guerra economica contro i Paesi progressisti dell’America Latina senza contare i processi di decolonizzazione nel continente Africano.
E questa guerra, è mondiale, non solo coinvolge direttamente una enorme quantità di Paesi, ma perché le conseguenze economiche politiche e sociali di tale conflitti si fanno sentire in tutto il mondo, anche in quei paesi ancora non direttamente coinvolti. Stanno ridefinendo i confini politici del nostro mondo, e per farlo devono imporre gli idonei aggiustamenti strutturali.
Guglielmo Forges Davanzati: Giorgia Meloni sta “facendo la Storia” dell’incompetenza in Economia
Giorgia Meloni sta “facendo la Storia” dell’incompetenza in Economia
di Guglielmo Forges Davanzati*
Prendiamo sul serio la recente dichiarazione di Giorgia Meloni secondo la quale il Governo da lei presieduto “sta facendo la Storia” e proviamo a verificare se, sul piano della politica economica (ovvero, una parte importante, se non la più importante dell’azione complessiva di un esecutivo), sono stati introdotti elementi di significativa discontinuità e, se sì, con quali risultati.
Questa valutazione è importante anche perché può costituire la base per un bilancio del biennio trascorso da Meloni a Palazzo Chigi.
La legge di bilancio in discussione in questi giorni reitera un mix di misure già sperimentate sia dal centro-sinistra, sia dal centro-destra, a partire dai primi anni Novanta.
Fu, quella, una fase nella quale si decise di accelerare la transizione dal modello di economia mista prevalente negli anni Sessanta-Settanta (con rilevante intervento dello Stato, sia per la fornitura di servizi di welfare, sia come produttore di beni attraverso le imprese pubbliche) al modello di economia di mercato deregolamentata.
Stefano Zecchinelli: Iran, la lotta di classe nella variante sciita: borghesia urbana vs oppressi delle periferie
Iran, la lotta di classe nella variante sciita: borghesia urbana vs oppressi delle periferie
di Stefano Zecchinelli
La Repubblica Islamica dell’Iran, l’establishment e il popolo iraniano (“popolo” inteso come un amalgama di più classi sociali), a differenza di quanto pensa l’opinione pubblica occidentale manipolata dai media, non sono nella loro interezza schierati su posizioni antimperialiste e rivoluzionarie. Non ci stancheremo mai di ricordare come il mondo musulmano non si divida in sciiti e sunniti, ma in Resistenti e Collaborazionisti, essendo questi orientamenti politici trasversali e totalmente indifferenti alle diatribe teologiche. Dall’altra parte, l’Imam Khomeini riprese una dottrina, la dottrina della “Rivoluzione degli Oppressi”, sistematizzata da Ali Shariati, traduttore in persiano delle opere di Ernesto Guevara e Frantz Fanon, adattandola a un Paese capitalista oggigiorno (grazie soprattutto ai rapporti bilaterali con la Cina) in via di sviluppo.
Distrutto il potere assolutistico della dinastia Pahlavi, la cui SAVAK era riorganizzata sul “modello” del Mossad, il proletariato metropolitano di Teheran contribuì a infliggere agli imperialismi statunitense e britannico una umiliante sconfitta; ciononostante l’Iran post-rivoluzionario, rinnegata l’Urss e il contributo del Partito comunista alla lotta anti-coloniale, non ha mai realmente reciso i legami con Israele.
Carlo Formenti: Perché l’occidente perde
Perché l’occidente perde
Il realismo geopolitico di Emmanuel Todd
di Carlo Formenti
A mano a mano che le guerre provocate dal blocco occidentale per puntellare la sua crescente incapacità egemonica si rivelano un rimedio peggiore del male, aumenta il numero degli intellettuali liberal democratici che criticano “dall’interno” le scelte delle élite euro-americane (più americane che euro, vista la totale sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti, anche a costo di risultare la prima vittima del dominus d’oltreoceano). In generale si tratta di eredi dell’approccio “realistico” ai conflitti geopolitici che ha un illustre precursore nell’autore della teoria del “contenimento”: quel George Kennan che invitava gli Stati Uniti e i loro alleati ad affrontare la minaccia sovietica attraverso il confronto diplomatico, evitando lo scontro militare aperto. Tale strategia comportava, in primo luogo, un’attenta e approfondita analisi dell’avversario (interessi economici e geopolitici, cultura e valori ideali, potenzialità industriale, scientifica e tecnologica, potenza militare, ecc.) per poterne prevedere mosse e intenzioni. A questa tradizione si iscrive lo storico, sociologo e antropologo francese Emmanuel Todd, autore di un libro, La sconfitta del’Occidente, appena uscito in edizione italiana per i tipi di Fazi, un testo che sta ottenendo una sorprendente attenzione dai media italiani, di solito solleciti nel silenziare qualsiasi critica, ancorché moderata, nei confronti della politica imperiale a stelle e strisce.
E’ probabile che ciò che ha consentito al libro di Todd di infrangere la “spirale del silenzio” (1), sia, oltre all’andamento della guerra, che rende sempre più insostenibile lo tsunami di balle propagandistiche che ha invaso giornali, televisioni e social negli ultimi due anni, l’impeccabile curriculum occidentalista dell’autore, scevro da sospetti di inclinazioni “putiniane” o, Dio non voglia, socialcomuniste, così come da simpatie “terzomondiste” nei confronti delle nazioni e dei popoli che manifestano la volontà di sganciarsi da un’area imperiale ormai ridotta a Stati Uniti, Ue, Giappone e “anglosfera” (Inghilterra, Canada, Australia e Nuova Zelanda).
coniarerivolta: La variante Draghi
La variante Draghi
di coniarerivolta
Circa tre settimane fa è stato pubblicato l’atteso Rapporto sul futuro della competitività europea, a opera dell’ex Presidente di: Banca d’Italia, Banca Centrale Europea, del Consiglio italiano, Mario Draghi. Presentato da molti come un faro di luce che illumina con lungimiranza il tetro destino di un’Europa bloccata tra le pastoie dei suoi conflitti interni e di un’irragionevole austerità, il rapporto Draghi ci offre spunti molto interessanti per comprendere gli scenari che il capitalismo europeo si trova ad affrontare. In un certo senso il Rapporto rappresenta plasticamente una delle diverse varianti dell’applicazione del neoliberismo nell’Unione europea di oggi.
Il Rapporto prende spunto dal crescente divario nei tassi di crescita dell’Europa e degli Stati uniti, riconducendolo a una progressiva erosione della competitività del tessuto produttivo europeo in favore dei principali concorrenti internazionali, un fenomeno causato, principalmente, da un declino della produttività europea.
Tale declino dipenderebbe da un ritardo delle imprese europee sul fronte tecnologico e da un assetto industriale europeo eccessivamente frammentato: mentre in Europa si scontrano oligopoli nazionali, i mercati americani e cinesi sono dominati da giganteschi monopolisti che, sfruttando l’ampia scala di produzione che deriva da un mercato di sbocco grande quanto un continente, raggiunge livelli produttivi tali da consentire e giustificare spese di investimento che in Europa appaiono impossibili da realizzare.
Il Rapporto Draghi è fitto di numeri ed esempi concreti di questo ritardo del capitalismo europeo rispetto agli Stati Uniti e al cospetto dell’incombente “minaccia cinese”. A fronte delle difficoltà europee, il rapporto invoca “cambiamenti radicali” che dovrebbero riguardare principalmente tre aree: innovazione tecnologica e struttura industriale; gestione della transizione verde; difesa.
Fabrizio Casari: BRICS, cose dell’altro mondo
BRICS, cose dell’altro mondo
di Fabrizio Casari
Sarà la città russa di Kazan a ospitare il prossimo Vertice dei paesi BRICS+ che si terrà dal 22 al 24 Ottobre. Parteciperanno 32 paesi, 24 dei quali saranno rappresentati dai loro rispettivi Capi di Stato, a sancire il valore strategico di un Vertice che sembra tracciare una linea netta che separa il prima dal poi, ovvero l’ordine nascente democratico e multipolare che spinge indietro quello unipolare a rappresentazione imperiale. Dall’Algeria all’Indonesia, dal Nicaragua a Cuba, al Kazakistan, almeno altri 40 paesi hanno fatto richiesta formale di adesione. Significativa ma necessaria di diverse valutazioni quella della Turchia, Paese appartenente alla NATO, della quale è il secondo esercito più potente. A oggi, intanto, il raggruppamento dei BRICS rappresenta il 42% della popolazione mondiale, il 35,6% del PIL globale, il 60% della produzione di idrocarburi, mentre i Paesi del G7 (il 15% della popolazione planetaria) del PIL mondiale ne producono il 30,3%. Entro il 2028, la bilancia si sposterà ulteriormente a favore dei BRICS: 36,6% a fronte del 27,8% dei Paesi del G7. Sembrano piccoli numeri, ma ogni decimale porta con sé centinaia di miliardi di Euro.
Politica e sicurezza, economia e finanza, sviluppo tecnologico e Reti globali. Il Vertice – preceduto da diversi incontri a livelli ministeriali tra i suoi membri – non sarà solo la sede di un confronto politico e strategico sulle prospettive del nuovo blocco che contiene economie emergenti e consolidate.
Paolo Lago: Un viaggio in ucronia
Un viaggio in Ucronia
di Paolo Lago
Emmanuel Carrère, Ucronia, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2024, pp. 160, euro 14,00.
C’è l’utopia, un luogo che non esiste, un “non luogo” in senso etimologico, c’è l’eterotopia (un “luogo altro” e separato) coniata da Michel Foucault e da lui definita come una contestazione al contempo mitica e reale di qualsiasi altro spazio e c’è anche l’ucronia, cioè un “non tempo”, un tempo che non esiste, parola coniata e utilizzata per la prima volta da Charles Renouvier nella sua opera Ucronia del 1876. L’ucronia si rivolge principalmente al passato e mira a ricostruire una sorta di universo parallelo in cui i fatti ormai appurati come ‘storici’ sono avvenuti in un modo diverso portando a diverse conseguenze. Ad esempio, due fra le ucronie più studiate riguardano due figure storiche come Napoleone e Hitler: allora, pensando ucronicamente, se così si può dire, ci potremmo chiedere cosa sarebbe successo se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo o se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale. Emmanuel Carrère, nel suo interessante saggio dal titolo Le Détroit de Behring, edito in Francia nel 1986 e recentemente uscito in italiano nella bella traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco con l’azzeccato titolo Ucronia, ci guida attraverso un vero e proprio viaggio in un’altra dimensione, in un tempo che non c’è.
Piccole Note: L’aggressione all’Unifil e il tentativo di regime-change in Libano
L’aggressione all’Unifil e il tentativo di regime-change in Libano
di Piccole Note
Mentre Israele continua a sparare contro la missione di pace Onu, gli Usa lavorano per un regime-change in Libano. Incombe l’attacco di Tel Aviv contro l’Iran e Putin incontra il presidente iraniano Pezeshkian
Prosegue il tiro a segno dell’esercito israeliano contro le forze dell’Onu al confine libanese, aumentano i feriti tra i soldati inviati in missione di pace. Tel Aviv ha dichiarato guerra al mondo, contando sulla connivenza americana, che non ha espresso il dovuto disappunto verso l’alleato mediorientale.
Gli spari sui bambini e quelli contro l’Unifil
Sulla follia di sparare sulle forze di pace è inutile indugiare. D’altronde, le dinamiche dell’intervento a Gaza sono sotto gli occhi di tutti e la totale impunità delle forze israeliane li spinge giocoforza ad alzare sempre più l’asticella della barbarie.
Per quanto riguarda Gaza, segnaliamo l’articolo-denuncia del New York Times del 9 ottobre, che riportava la testimonianza di 65 medici americani che hanno prestato servizio nella Striscia. Rilanciamo solo una di queste: “Tra le tante cose che mi hanno colpito del lavorare in un ospedale a Gaza, una mi ha colpito più di altre: quasi ogni giorno vedevo un nuovo bambino colpito in testa o al petto, tutti poi morti. Tredici in totale”.
Dante Barontini: Se spari all’Onu vuol dire che…
Se spari all’Onu vuol dire che…
di Dante Barontini
Se il ministro della difesa di una dei governi più genuflessi a quello di Israele arriva a parlare di “crimini di guerra”, oppure “l’Onu e l’Italia non prendono ordini da Israele”, vuole dire che qualcosa di eccessivamente grave è avvenuto.
Stiamo parlando di vecchi marpioni della politica e dell’intermediazione di affari intorno alle armi, abituati a tutti i compromessi in vista di obiettivi tangibili. Non di idealisti che prendono cappello a ogni violazione dei diritti umani.
Ma l’attacco israeliano alle basi Unifil in Libano rappresenta davvero il superamento di una “linea rossa” che illumina, obiettivamente, sul tipo di rapporto che Tel Aviv intende stabilire con il resto del mondo. Sottolineiamo: “con il resto del mondo”, non solo con i propri vicini “arabi”.
La gravità eccezionale dell’attacco non sta ovviamente nelle conseguenze materiali, quasi risibili a fronte di un genocidio in atto a Gaza e in Cisgiordania e all’invasione del Libano, con la sua sequela di massacri indiscriminati, ma nel fatto stesso che sia avvenuto.
Emmanuel Todd: Ucraina, media, euro e nichilismo: le ragioni della sconfitta dell’occidente
Ucraina, media, euro e nichilismo: le ragioni della sconfitta dell’occidente
Alessandro Bianchi intervista Emmanuel Todd
Incontriamo Emmanuel Todd nella sede romana di Fazi, l’editore che ha pubblicato la versione italiana del suo bestseller “La sconfitta dell’Occidente”. Storico, sociologo e antropologo francese di fama internazionale, ci colpisce per la disponibilità, umiltà e generosità con cui ci accoglie e con la quale ci permette di esaudire tutto il nostro fiume di domande e interessi. In Italia per presentare quello che è stato un caso editoriale in Francia e che è in procinto di essere tradotto in tante altre lingue, gli abbiamo esteso i nostri complimenti sinceri per il coraggio in una fase di appiattimento culturale e di chiusura ermetica delle idee nella parte di mondo che si autoproclama libero. Ma per Todd non è coraggio. Ci ricorda come suo nonno “Paul Nizan è stato un grande poeta, giornalista e scrittore che pubblicava con Gallimard. Il suo testimone di nozze era Raymond Aron ed è morto durante la seconda guerra mondiale. Mio padre Olivier era un grande giornalista del “Nouvel Observateur”. L’agire nel portare avanti qualcosa in cui credo l’ho ereditato dalla mia famiglia e non lo vedo come coraggio, ma come il giusto modo di agire”.
Noto per aver previsto per primo, con anni di anticipo, il collasso dell’Unione Sovietica e la crisi finanziaria del 2008, Emmanuel Todd è una preziosa fonte per “Egemonia” per comprendere meglio i tempi in cui viviamo.
Per la lunghezza dell’intervista abbiamo deciso di dividerla in due parti.
Nella prima, che segue, entriamo nel dettaglio delle ragioni che sottendono il suicidio delle classi dirigenti europee nella guerra per procura in Ucraina e nel come si potrebbe materializzare la sconfitta dell’Occidente.
Nella seconda affronteremo nel dettaglio il concetto di nichilismo, perno del libro di Todd; in relazione, in particolare, al ruolo dell’informazione, alla perdita dei tradizionali riferimenti politici, culturali e sociali in occidente e cercheremo, infine, di comprendere se sia all’orizzonte, nel nostro continente, la nascita di qualche formazione politico-aggregativa in grado di offrire una valida alternativa al sistema fallito, fallimentare e che è stato, come brillatemente argomentato dal Prof. Todd, sconfitto.
Scott Ritter: La caduta di Israele
La caduta di Israele
di Scott Ritter
Un anno fa Israele era seduto al posto di comando. Oggi guarda in faccia la sua fine
Avevo scritto dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, definendolo “il raid militare di maggior successo di questo secolo“.
Avevo descritto l’azione di Hamas come un’operazione militare, mentre Israele e i suoi alleati l’avevano definita un’azione terroristica della portata di quella avvenuta contro gli Stati Uniti l’11 settembre 2001.
“La differenza tra i due termini”, avevo osservato, “è come tra la notte e il giorno: etichettando gli eventi del 7 ottobre come atti di terrorismo, Israele trasferisce su Hamas la colpa delle enormi perdite dai suoi servizi militari, di sicurezza e di intelligence. Se Israele, invece, riconoscesse che ciò che Hamas ha fatto è stato, in realtà, un raid – un’operazione militare – allora la competenza dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani sarebbe messa in discussione, così come la leadership politica responsabile della supervisione e della direzione delle loro operazioni”.
Il terrorismo impiega strategie che cercano la vittoria tramite l’indebolimento e l’intimidazione – per logorare e creare un senso di impotenza nel nemico. I terroristi per natura evitano un conflitto esistenziale decisivo e cercano battaglie asimmetriche, che contrappongano i loro punti di forza alle debolezze dei loro nemici.
La guerra che sconvolge il Levante dal 7 ottobre 2023 non è una tradizionale operazione antiterrorismo. Lo scontro Hamas-Israele si è trasformato in un conflitto tra Israele e il cosiddetto Asse della Resistenza che coinvolge Hamas, Hezbollah, Ansarullah (gli Houthi dello Yemen), le Forze di Mobilitazione Popolare, cioè le milizie di Iraq, Siria e Iran. Si tratta di una guerra regionale in tutto e per tutto, che deve essere valutata come tale.
Andrea Pannone: La Borsa, «il comitato d’affari della borghesia» e la guerra
La Borsa, «il comitato d’affari della borghesia» e la guerra
di Andrea Pannone
L’articolo di Andrea Pannone fa il punto su guerra e crisi, oggi. I processi di finanziarizzazione sono tanto al centro dell’articolo, quanto lo sono al cuore del capitale contemporaneo. Questo implica, discute Pannone, che lo Stato non può più essere considerato un campo di battaglia da occupare con riforme politiche più o meno progressiste e che, comunque, possano interrompere o limitare i processi di accumulazione selvaggia. Lo Stato, oggi, è il «comitato di affari della borghesia». Nella seconda parte dell’articolo l’autore lega questo discorso a quello della guerra. Che cos’è la guerra? – già titolo del volume di Pannone edito da DeriveApprodi (2023): «un tragico spazio di compromesso utile alla sopravvivenza delle diverse manifestazioni del potere del capitale, che necessitano continuamente di nuovi equilibri per non fagocitare se stesse».
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Aspettando (forse invano) una nuova crisi finanziaria
La crisi finanziaria del 2007-2008, la seconda del XXI secolo, dopo quella provocata dal crollo delle quotazioni del NASDAQ nel marzo del 2000, sancisce il fatto che le crisi delle economie capitalistiche sono sempre più legate alla finanziarizzazione della produzione piuttosto che alla struttura produttiva stessa. Se nel fordismo le crisi erano originate da sovra-produzione o da sotto-consumo, per poi trasmettersi al credito e alla finanza, ora sembra avvenire il contrario, una volta raggiunto il culmine di una fase di forte sopravvalutazione dei titoli azionari[1].
Fulvio Grimaldi: Val di Susa, l’altra guerra
Val di Susa, l’altra guerra
Trattamento sionista di una valle
di Fulvio Grimaldi
Questa sera, venerdì 19 ottobre, alle 20.00 su https://www.quiradiolondra.tv/live/
Alberto Perino, psichiatra, leader del Movimento No Tav da almeno 6 lustri e, se mi posso permettere, mio amico e, poi, protagonista del mio documentario “Fronte Italia – Partigiani del Duemila”. E’ morto giorni fa. La valle, che ha difeso con tutte le sue forze, tutta la sua intelligenza, tutta la sua vasta e profonda cultura politica, sociale e ambientale, ne è vedova. Le barricate del popolo, dei combattenti per giustizia, libertà, autodeterminazione e per casa, comunità e storia, alle quali Perino era stato in testa per oltre vent’anni, resistono, resisteranno, continuano a vedere ciò che i suoi occhi vedevano, limpida e immancabile: la vittoria.
Nei giorni scorsi c’è stata la centesima, duecentesima, millesima, violenza dello Stato contro i cittadini titolari del territorio, della volontà, del diritto della Valsusa a decidere di sé. Di sé, ma nell’interesse del paese, anzi, dell’umanità tutta. Come l’ha saputo riunire in valle Alberto Perino quando ha raccolto intorno a se i coscienti della vita nostra e loro; i nativi delle Ande, i Sami dell’Artico, i mongoli della steppa, i palestinesi occupati, espropriati e perseguitati come i valsusini. E tanti altri di quelli dotati di coscienza e volontà di resistenza e contrattacco.
Giacomo Casarino: Sparse riflessione ferragostane
Sparse riflessione ferragostane
di Giacomo Casarino
Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede precipitare e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione. Probabilmente gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica a entrare in quest’ordine di idee: a essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della storia, ma semplicemente provo a mettere a fuoco fatti e tendenze difficilmente oppugnabili. Fatti e tendenze che mi paiono vistosamente assenti in quel poco di dibattito pubblico che possiamo riscontrare nel nostro Paese.
Il pessimismo della ragione
“Sentinella, a che punto è la notte?” Una domanda oggi più che mai angosciante, tra il “vecchio” in affanno, ma che non muore, e il “nuovo” (un’alternativa di sistema) che tarda a profilarsi.
Emiliano Brancaccio: Google, l’Antitrust e il socialismo?
Google, l’Antitrust e il socialismo?
di Emiliano Brancaccio
Il Dipartimento di Giustizia statunitense ha annunciato provvedimenti per contrastare il potere strabordante del colosso. Tra le opzioni politiche, contempla anche la possibilità di “spacchettare”: ossia, obbligare Google a vendere Chrome e Android ai concorrenti
Sarà Google l’occasione di una nuova via al socialismo? Il gigante del web gode, come è noto, di un mostruoso monopolio nel settore dei motori di ricerca. Nell’ultimo trimestre le entrate del ramo «Google Search» ammontano a 48 miliardi di dollari. Ossia il 57% dei ricavi totali di Alphabet, la holding a capo del colosso. Si tratta del 90% del mercato dei motori di ricerca.
Questa indiscussa posizione di dominio crea infinite ramificazioni, che non solo plasmano i meccanismi di produzione e consumo ma ormai condizionano persino gli olimpi della produzione scientifica. Il Nobel per la chimica appena assegnato a due scienziati che lavorano per Google è solo una prova fra tante.
Il Dipartimento di Giustizia statunitense ha annunciato provvedimenti per contrastare questo potere strabordante. Tra le opzioni politiche, contempla anche la possibilità di “spacchettare”: ossia, obbligare Google a vendere Chrome e Android ai concorrenti. La linea trova oggi ampio sostegno nelle realtà del populismo cosiddetto democratico, legatissime al principio di concorrenza tra una pluralità di capitali al fine di ridurre i prezzi e favorire i consumatori.
Giorgio Agamben: Popoli che hanno perduto la lingua
Popoli che hanno perduto la lingua
di Giorgio Agamben
Che ne è oggi dei popoli europei? Ciò che non possiamo oggi non vedere è lo spettacolo del loro perdersi e smemorarsi nella lingua in cui si erano un tempo trovati. Le modalità di questo smarrimento variano per ogni popolo: gli anglosassoni hanno già compiuto l’intero cammino verso un linguaggio puramente strumentale e obiettivante – il basic English, in cui ci si possono solo scambiare messaggi sempre più simili ad algoritmi – e i tedeschi sembrano avviati per la stessa via; i francesi, malgrado il loro culto della lingua nazionale e forse anzi per questo, perduti nel rapporto quasi normativo fra il parlante e la grammatica; gli italiani, furbescamente insediati in quel bilinguismo che era la loro ricchezza e che si trasforma ovunque in un gergo insensato. E, se gli ebrei sono o almeno erano parte della cultura europea, è bene ricordare le parole di Scholem di fronte alla secolarizzazione operata dal sionismo di una lingua sacra in una lingua nazionale: «Noi viviamo nella nostra lingua come dei ciechi che camminano sull’orlo di un abisso… Questa lingua è gravida di catastrofi… verrà il giorno in cui essa si rivolterà contro coloro che la parlano».