Rassegna 17/11/2024
Carlo Formenti: I popoli africani contro l’imperialismo – 2. Kevin Ochieng Okoth
I popoli africani contro l’imperialismo – 2. Kevin Ochieng Okoth
di Carlo Formenti
Il trittico africano, iniziato con le recensioni a due libri di Said Bouamama; prosegue con questo secondo post che anticipa la mia postfazione al libro Red Africa, di Kevin Ochieng Okoth che sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo 22 Ottobre. Ritroverete qui molti temi trattati nei lavori di Bouamama, come la critica dell’approccio “culturalista” (a partire dai miti della negritudine) al processo di emancipazione dei popoli post coloniali dal dominio imperiale dell’Occidente, e come il rifiuto del tentativo di liquidare il marxismo come “eurocentrico” e quindi inservibile per guidare le nazioni africane sulla via dello sviluppo autonomo. Rispetto a Bouamama, Okoth analizza più estesamente e a fondo il ruolo determinante che le lotte afroamericane hanno svolto nella formazione di uno spirito panafricanista rivoluzionario. Infine, come avrete modo di vedere, il punto di vista di Okoth appare più severo di quello di Bouamama nei confronti degli errori e delle scelte opportuniste delle élite che hanno guidato le lotte di liberazione nazionale (ma su questo tema tornerò in sede di conclusione dopo avere pubblicato la terza e ultima puntata di questo trittico, dedicata al pensiero di Cabral).
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Red Africa. Idee per riportare Marx in Africa
Mezzo secolo fa, una feroce controffensiva dell’imperialismo occidentale, guidata dagli Stati Uniti, stroncava la speranza dei Paesi non allineati, molti dei quali pervenuti da poco all’indipendenza, di imboccare la via dello sviluppo e della transizione al socialismo.
Collettivo Le Gauche: Per un’introduzione al problema delle piattaforme nel capitalismo
Per un’introduzione al problema delle piattaforme nel capitalismo
di Collettivo Le Gauche
1. Introduzione
Il libro di Nick Srnicek Capitalismo digitale. Google, Amazon e la nuova economia del web prova ad analizzare le imprese del settore tech in quanto attori economici organici al modo di produzione capitalistico. Un discorso simile deve fare piazza pulita della loro definizione come attori culturali definiti dall’ideologia californiana per mostrare a tutti come essi siano in realtà attori politici alla ricerca costante di potere e di utili per respingere la concorrenza. Inoltre, quando affrontiamo il tema dell’economia digitale dobbiamo ricordarci che l’argomento va oltre il solo settore tecnologico come definito dalle classificazioni standard. L’economia digitale coinvolge tutte le imprese che fanno affidamento sull’information technology, sui dati e su internet per portare avanti il proprio modello di business. Si tratta, quindi, di un’area trasversale rispetto ai settori tradizionali come l’industria manifatturiera, dei servizi, dei trasporti, delle telecomunicazioni e del settore minerario che sta finendo per diventare essenziale per gran parte della nostra economia. Quindi, la sua importanza va ben oltre la semplice analisi di settore. Inoltre è il settore economico più dinamico che finisce per trainare la crescita in una fase del capitalismo contraddistinta dalla stagnazione. L’economia digitale è l’infrastruttura, sempre più pervasiva, senza la quale l’economia contemporanea crollerebbe. Questo risultato è figlio di alcuni cambiamenti incorsi nel capitalismo che sta affrontando un lungo declino del settore manifatturiero. Ciò ha spinto alla ricerca dei dati come mezzo per mantenere la crescita economica e la vitalità di questo modo di produzione in presenza di un settore produttivo altrimenti pigro. Infatti, grazie alle tecnologie digitali e ai cambiamenti incorsi in esse, i dati hanno finito per assumere un ruolo sempre più rilevante per le aziende e per i loro rapporti con lavoratori, clienti e altre imprese. L’idea della piattaforma è finita per diventare un nuovo modello di business con la capacità di estrarre e controllare immense quantità di dati e di creare il contesto in cui sono emerse grandi imprese monopolistiche. Per comprendere come queste realtà siano nate occorre proporre un’analisi storica del capitalismo.
Aligi Taschera: La demenza senile dell’Europa e le compatibilità nel movimento del dissenso
La demenza senile dell’Europa e le compatibilità nel movimento del dissenso
Approfondimento – di Aligi Taschera
Dopo essersi dilaniata in lotte intestine e altre follie durante la prima metà del XX secolo, l’Europa, che pure, nella seconda metà dello stesso secolo, sembrava dare segni di ripresa e di risveglio, appare con tutta evidenza essere diventata completamente demente in questa prima metà del XXI secolo.
Dopo avere reintrodotto la guerra nel suo stesso territorio (già negli anni ’90 del XX secolo), e aver più o meno completamente, a seconda delle zone, smantellato i pilastri dello stato sociale che le avevano permesso di riprendersi dopo la seconda guerra mondiale, ha pensato bene di costringere, con un allarmismo parossistico, la sua popolazione a iniettarsi un farmaco sperimentale poco testato e dannoso.
Nel contempo ha pensato bene anche di trasferire ai produttori di tale farmaco un’ingente quota delle imposte pagate dagli europei, attraverso contratti semisegreti, esito di trattative private della presidente della commissione dell’Unione Europea condotte attraverso il suo telefonino privato, e delle quali ha fatto perdere le tracce. Non contenta, l’Europa (o per essere più precisi, la sua principale istituzione comune, l’Unione Europea) ha pensato bene di riconfermare questa truffatrice criminale alla guida dell’Unione Europea.
Nel frattempo, ha deciso anche di obbedire senza alcuna resistenza né critica agli Stati Uniti d’America, emettendo sanzioni contro la Russia, che danneggiano l’Europa molto più del grande paese eurasiatico, e di partecipare a una guerra contro la stessa Russia danneggiando la propria economia.
Sembra proprio uno di quei vecchi dementi che si affidano entusiasticamente ai loro truffatori. Ma la cosa non finisce qui. Quando una delle sue più importanti infrastrutture energetiche, il gasdotto North Stream, è stato distrutto, è stata così demente da far finta di credere (o, peggio, credere veramente) che il sabotaggio fosse stato compiuto dai russi, permettendo così, senza proferir parola, che la sua più importante economia (quella tedesca) entrasse in recessione. E nemmeno ora che le responsabilità ucraine (non scindibili da quelle dei loro sponsor americani) vengono a galla, l’Europa dà segno di volersi riprendere dalla sua demenza, chiedendo conto all’Ucraina e ai suoi sponsor americani del loro operato.
Giuseppe Masala: Cosa si nasconde dietro il (finto) “piano di pace” di Trump?
Cosa si nasconde dietro il (finto) “piano di pace” di Trump?
di Giuseppe Masala
Timeo Danaos et dona ferentes
(“temo i Danai anche quando recano doni”)
Eneide, Publio Virgilio Marone
Come era facilmente prevedibile nell’agenda degli affari internazionali, il nuovo presidente americano Donald Trump vede ai primissimi posti la crisi ucraina e la questione europea. Infatti immediatamente dopo la vittoria del Tycoon newyorkese il Washington Post ha fatto filtrare una bozza di piano di pace per l’Ucraina preparato dall’entourage di Trump.
A mio modesto avviso il piano pubblicato gode di forte credibilità perché corrisponde pienamente a quelli che sono gli interessi reali degli Stati Uniti; interessi – sia detto per inciso – che rimangono i medesimi indipendentemente da chi sia l’inquilino della Casa Bianca.
Nella partita ucraina, gli interessi di fondo americani, in questa fase, sono i seguenti: (a) evitare un impegno diretto nella guerra ucraina, (b) evitare che la Russia abbia una vittoria piena, (c) congelare la situazione per evitare il crollo dell’Ucraina e il suo rientro nella sfera di influenza di Mosca.
Infatti il piano lasciato filtrare prevederebbe, (1) il congelamento del conflitto con la concessione de facto (ma forse anche il riconoscimento formale) alla Russia dei territori conquistati, (2) la creazione di una buffer zone controllata da truppe europee ma non americane, (3) la ricostituzione dell’esercito ucraino sfibrato dalla guerra, (4) la promessa solenne della non entrata dell’Ucraina nella Nato per i prossimi venti anni.
Fulvio Grimaldi: Colpi di coda, colpi d’azzardo, colpi a segno
Colpi di coda, colpi d’azzardo, colpi a segno
Trump l’incalcolabile, Putin la certezza
di Fulvio Grimaldi
“Caleido, il mondo da angolazioni diverse”. Francesco Capo intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=q8vD9QyZ1KA
Fulvio Grimaldi in “Mondocane…punto”. Martedì e venerdì alle 20.00.
https://www.quiradiolondra.tv/live/
A parte la posizione sulla pandemia e relativi parafernalia, in cui Trump si ritrova su posizioni negativiste diffuse in gran parte del mondo scientifico e dell’opinione pensante, di buono c’è poco più che la vaga prospettiva della fine del ricatto bellico USA-NATO a Europa e Ucraina, con prospettiva seria di Terza Guerra mondiale, insieme alle lodevoli riserve sul disciplinamento sociale e politica tramite mega-raggiro climatico.
Il disastro vero è il personale di levatura melonian-salviniana di cui si va circondando nella formazione del suo circolo politico intimo, uniformandosi ai livelli etici (perfino estetici, poiché ognuno diventa quello che è) e ai Q.I. delle classi politiche che abbiamo sul gobbo da mezzo secolo, di qua e di là dall’oceano.
Sulla Palestina, che è il nervo scoperto del mondo, sta con quella sezione dei mille miliardari USA che dormono con la kippa in testa e impegnano i loro dollari per collocare la Menora sugli altari di banche e Fondi d’investimento, oltreché sugli altarini dei rispettivi chierichetti mediatici.
Mario Lombardo: Israele, la strategia dello sterminio
Israele, la strategia dello sterminio
di Mario Lombardo
Da settimane, la striscia di Gaza è sotto un intensificato assedio delle forze armate israeliane, che non si limita al controllo delle vie d’accesso e delle risorse, ma che continua a prendere di mira in maniera diretta e deliberata la popolazione civile. L’operazione, spacciata come una risposta alla minaccia di Hamas, rappresenta in realtà il pretesto di cui ha bisogno il governo israeliano, sostenuto dalla coalizione di estrema destra guidata da Benjamin Netanyahu, per portare avanti un piano di conquista che va ben oltre quello ufficiale, ovvero il “contenimento” della minaccia terroristica. A conferma di ciò, recenti rivelazioni della stampa israeliana hanno mostrato come alcuni ministri del governo di Tel Aviv puntino non solo alla sconfitta di Hamas, ma all’annientamento stesso della presenza palestinese nella striscia.
Secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, diversi ministri di destra hanno espresso l’auspicio che la questione dei prigionieri israeliani ancora in mano a Hamas trovi una “soluzione tragica e naturale”, ossia la morte di coloro che ancora sono in vita a Gaza. Una dichiarazione tanto scioccante quanto rivelatrice, anche se tutt’altro che sorprendente, che getta luce su un’agenda politica basata sull’idea che la sofferenza e il lutto generati da questo “sacrificio” possano essere strumentalizzati per giustificare una nuova occupazione permanente di Gaza. Lo schema è quello già ampiamente collaudato dai governi israeliani, dove la presunta minaccia alla sicurezza interna si traduce in una giustificazione per l’espansione degli insediamenti e l’imposizione di un controllo sempre più capillare e brutale.
Thierry Meyssan: La rielezione di Trump ridistribuisce le carte
La rielezione di Trump ridistribuisce le carte
di Thierry Meyssan
Questo è uno dei rari momenti in cui le grandi potenze cambiano politica tutte nello stesso momento. Attenzione a non commettere errori: chi perde il treno dovrà aspettare il successivo
La rielezione di Trump, a disdoro della campagna di quasi tutti gli intellettuali occidentali contro di lui, ridistribuisce le carte.
Le relazioni internazionali stanno cambiando con estrema rapidità e su più fronti contemporaneamente.
Due settimane fa abbiamo mostrato che l’Iran ha abbandonato il proprio ideale rivoluzionario e si è allontanato dagli alleati sunniti di Hamas e della Jihad islamica, e persino dagli alleati sciiti dello Hezbollah libanese, dall’iracheno Hachk al-Chaabi e dallo yemenita Ansar Allah [1]. Lo confermano la riunione in cui Hassan Nasrallah è stato assassinato dalle FDI grazie a informazioni iraniane, indi le dichiarazioni confuse dell’ayatollah Ali Sistani in Iraq, infine le misure adottate per prevenire l’assassinio di Abdel Malek al-Houthi in Yemen [2].
Poi la scorsa settimana abbiamo riferito come, al vertice di Kazan, i BRICS abbiano ribadito di voler difendere il diritto internazionale contro «l’ordine basato su regole» degli anglosassoni [3].
Questa settimana la schiacciante vittoria elettorale di Donald Trump segna il trionfo dei jacksoniani sui Democratici, ma anche sui Repubblicani, nonostante Trump sia stato sostenuto dal loro partito. Dovrebbe conseguirne che gli Stati Uniti cesseranno le loro guerre in Ucraina e in Medio Oriente, a vantaggio di una guerra commerciale generalizzata.
Alessandro Scassellati: I padroni del mondo: il capitalismo controllato dai grandi gestori patrimoniali
I padroni del mondo: il capitalismo controllato dai grandi gestori patrimoniali
di Alessandro Scassellati
Come funziona oggi il capitalismo? Chi sono i suoi protagonisti? Con quali strumenti e logiche operano? Cerchiamo delle risposte con la lettura del libro di Alessandro Volpi, “I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia” (Laterza, Roma-Bari 2024). Sta emergendo una società capitalista finanziarizzata in cui pochi grandi gestori patrimoniali possiedono e controllano sempre di più i nostri sistemi e le nostre strutture fisiche più essenziali, fornendo i mezzi più basilari di funzionamento e riproduzione sociale.
Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Dal film L’Odio di Mathieu Kassovitz
Volendo ragionare sulla struttura e gli attori del capitalismo odierno, a cominciare da quello statunitense che è il centro egemonico di questa formazione sociale ormai globale, credo che si possano identificare due tipologie di soggetti strategici fondamentali. Da un lato, c’è un gruppo formato in modo maggioritario da esponenti di un capitalismo dinastico (dinastie con almeno due o tre generazioni di accumulazione del capitale alle spalle) che è stato via via rinforzato da nuovi arrivi – i Gates, i Bezos, i Musk, e gli Zuckerberg e altri esponenti del “capitalismo delle piattaforme” – nell’ultima generazione. Insieme questi due gruppi di grandi capitalisti costituiscono quell’0,1% o 1% della popolazione mondiale che esercita il controllo sulle global corporations industriali e finanziarie e che secondo il premio 2001 Nobel Joseph Stiglitz “controlla il 90% della ricchezza mondiale”1. Dall’altro lato, ci sono delle strutture finanziarie “corporate” privatizzate di relativa recente formazione – i fondi finanziari -, solo in parte controllate dal primo gruppo, che sono state magistralmente descritte dall’economista e docente di storia contemporanea all’Università di Pisa Alessandro Volpi nel libro “I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia”, Laterza, Roma-Bari 2024.
Non mi dilungo troppo sulla prima tipologia di soggetti – i capitalisti dinastici e gli imprenditori di successo di prima generazione -, rimandando per l’analisi delle loro logiche di comportamento e forme di organizzazione economiche e politiche a una serie di articoli che ho scritto nel recente passato2.
OttolinaTV: Trump ha dato il colpo di grazia a Scholz e alla Germania?
Trump ha dato il colpo di grazia a Scholz e alla Germania?
di OttolinaTV
Finita quella colossale arma di distrazione di massa che è il gigantesco e costosissimo teatrino delle elezioni statunitensi, possiamo finalmente tornare a occuparci della sostanza; in ossequio alle macchinazioni del grande manovratore, per qualche mese è stato messo un tappo alla pentola delle gigantesche contraddizioni scatenate dal declino dell’impero e dalla feroce guerra economica che, inevitabilmente, lo accompagna. Finita la tregua armata è tornato il tempo della resa dei conti, a partire dal fronte più caldo in assoluto: le conseguenze della guerra economica che gli USA hanno dichiarato a quella che abbiamo definito l’anomalia tedesca. Neanche il tempo di terminare lo spoglio ed ecco che in Germania, inevitabilmente, arrivava il terremoto; talmente prevedibile che prima che Scholz stesso annunciasse definitivamente l’uscita dalla coalizione semaforo del liberale ministro delle finanze Lindner, proprio qui su Ottolina avevamo previsto che una crisi del governo tedesco era questione di ore. Nel frattempo, a qualche migliaio di chilometri di distanza, Pechino annunciava un pacchetto da 1.400 miliardi di dollari per ristrutturare il debito delle amministrazioni locali e, nel cuore dell’impero, Jerome Powell, il presidente della FED che nel 2018 era stato nominato proprio da Trump, ma che già a pochi mesi dalla nomina era entrato in collisione col tycoon dal ciuffo arancione, ha preso decisioni e fatto dichiarazioni che, in modo del tutto irrituale, contrastano vistosamente con le principali linee di politica economica annunciate dal neoeletto presidente. Il trionfo di Trump (da parte mia del tutto inatteso, per lo meno nella sua entità), quindi, ha cambiato tutto? Per dirla con un francesismo manco col cazzo: tutti i nodi che, a poche ore dall’elezione di Trump, sono venuti al pettine sono il frutto di processi decisamente più lunghi e strutturali; di fronte alle contraddizioni – spesso irrisolvibili – che questi processi, inevitabilmente, hanno causato e stanno causando, la quota di potere che spetta all’amministrazione USA (che è solo una parte del potere nel suo complesso e, tutto sommato, manco la più rilevante) deve decidere la sua prossima mossa, che (inevitabilmente) causerà altre contraddizioni che obbligheranno l’amministrazione USA a decidere, nei limiti delle sue possibilità, la mossa successiva.
Laura Ruggeri: La strategia del caos
La strategia del caos
di Laura Ruggeri
Le risposte alla prima crisi dell’egemonia statunitense hanno scatenato forze che hanno finito per erodere il potere degli Stati Uniti
Gene Sharp, considerato il padrino delle rivoluzioni colorate, pubblica il suo primo libro, The Politics of Nonviolent Action, nel 1973, in un momento in cui gli Stati Uniti attraversavano una serie di crisi — economiche, politiche, militari — che stavano erodendo la fiducia nel governo e costituivano un serio ostacolo alle ambizioni geopolitiche di Washington. Le risposte a queste crisi — espansione dell’egemonia attraverso guerre convenzionali e ibride spesso affidate ad attori non statali, la finanziarizzazione dell’economia e l’utilizzo del dollaro come arma — segneranno il corso dei decenni successivi. Ma a distanza di cinquant’anni è evidente che queste risposte, pur avendo sconvolto l’ordine globale del dopoguerra per aprire le porte al ‘momento unipolare’ degli Stati Uniti, non hanno fatto nulla per risolvere problemi di natura sistemica e strutturale. Semmai, queste “soluzioni” hanno creato ulteriori e più intrattabili problemi per l’egemone, culminati nella crisi di legittimità che gli Stati Uniti stanno attualmente affrontando.
The Politics of Nonviolent Action si basava su una ricerca, finanziata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che Sharp aveva condotto ad Harvard alla fine degli anni ’60, quando l’università era l’epicentro dell’establishment intellettuale della Guerra Fredda — vi insegnavano infatti Henry Kissinger, Samuel Huntington e Zbigniew Brzezenski. A prima vista potrebbe sembrare contraddittorio che il soggetto della ricerca di Gene Sharp attirasse l’interesse del Pentagono e della CIA. In realtà, non è affatto sorprendente: la sconfitta e le perdite subite in Vietnam avevano lasciato una profonda ferita nella psiche americana e a livello internazionale questa brutale aggressione imperialista aveva alimentato un forte sentimento antiamericano. Inoltre, mentre l’egemonia statunitense iniziava a perdere colpi, crescevano i timori per i costi economici della corsa agli armamenti con Mosca. La ricetta di Sharp prometteva di fornire la soluzione che Washington stava cercando per rafforzare il proprio potere minando quello dell’Unione Sovietica, suo principale rivale geopolitico, ideologico e militare.
Enrico Tomaselli: Sul significato dell’era Trump
Sul significato dell’era Trump
di Enrico Tomaselli
In questi giorni successivi al voto presidenziale negli Stati Uniti, ho ribadito più volte che i possibili aspetti positivi di un’amministrazione Trump venivano decisamente sopravvalutati, negli ambienti – diciamo così – del dissenso, o comunque favorevoli al multipolarismo. Ugualmente ho sottolineato come fosse opportuno attendere le prime nomine, perché dalla formazione della squadra si sarebbe potuto capire assai meglio quale sarebbe stato l’orientamento dei quattro anni a venire.
Ora si comincia ad avere effettivamente un quadro, anche se mancano ancora alcune caselle.
Quello che emerge appare sostanzialmente come una conferma di ciò che ci si poteva ragionevolmente attendere, con alcune osservazioni.
Innanzi tutto, anche se sono stati fatti fuori alcuni dei vecchi neocon che avevano accompagnato la prima presidenza (Pompeo, Bannon, la Haley…), alcune delle posizioni chiave appena definite fanno comunque riferimento all’area neoconservative dei repubblicani e, anche se concordano più o meno tutti sul disimpegno dal fronte ucraino, non per questo si possono definire dei moderati o dei pacifisti. Al contrario, emerge una squadra di ultrà abbastanza bellicista. Solo che il focus si sposta dall’Europa orientale verso il Medio Oriente e, soprattutto, la Cina.
Fabrizio Poggi: Quali piani per l’Ucraina da Washington e da Bruxelles?
Quali piani per l’Ucraina da Washington e da Bruxelles?
di Fabrizio Poggi
In un’Europa alle prese con le incognite economiche, politiche e militari che si preannunciano con la presidenza Trump, a partire dal pantano ucraino, sembra proprio che il tema “Kiev” sia stato al centro dell’incontro, lunedì scorso a Parigi, tra il presidente francese Emmanuel Macron e il premier britannico Keir Starmer.
Detto senza mezzi termini dalla direttrice del Royal United Institute for Defence Studies, Karin von Hippel, con l’elezione di Trump «Gli Stati Uniti non saranno più un partner affidabile per nessun Paese europeo, compreso il Regno Unito, quindi è importante costruire ponti e pianificare il più possibile gli scenari, anche decidendo dove fare pressione sugli americani in caso di disaccordo».
Mettendo in circolazione le più svariate versioni del “piano di pace” Trump-Vance (per dire: The Telegraph scrive che Trump prevederebbe di dislocare truppe britanniche nella prevista “zona smilitarizzata” di 1.200 km), diversi media occidentali – legati a questa o quella compagine politico-affaristica – cercano di alimentare una situazione per cui, osserva Stanislav Stremidlovskij su IARex.ru, verrà riservato all’Ucraina lo stesso trattamento toccato alla Germania guglielmina dopo l’armistizio di Compiègne del 1918 (l’incontro Starmer-Macron si è svolto proprio nell’anniversario del 11 novembre): ne faranno un mostro revanscista cui, però, a differenza della Germania, non concederanno venti anni di tempo prima che diventi nuovamente un veicolo di attacco da volgere a est.
Domenico Moro: La piattaforma di intermediazione commerciale della Cina e la dedollarizzazione
La piattaforma di intermediazione commerciale della Cina e la dedollarizzazione
di Domenico Moro
Sui mass media si è dato molto risalto alle dichiarazioni di Trump secondo le quali gli Usa avrebbero portato i dazi sull’import dalla Cina al 60%. Pochi, però, hanno ricordato che già Biden aveva alzato i dazi per tutta una serie di prodotti, quadruplicandoli per le auto elettriche (102,5%), e aumentandoli notevolmente per le batterie al litio (25%), e per chip e pannelli solari (50%). Di fatto, quindi, siamo in piena guerra commerciale tra Usa e Cina. Ma la guerra commerciale è solo un aspetto della guerra economica che coinvolge non solo Usa e Cina, ma anche altri paesi tra cui quelli che appartengono ai Brics+, a partire dalla Russia e dall’Iran, colpiti dalle sanzioni Usa. Un aspetto di questa guerra, persino più importante dei dazi, ruota attorno alla cosiddetta dedollarizzazione.
La dedollarizzazione è il processo attraverso il quale la valuta statunitense, il dollaro, viene scalzata dal suo ruolo di moneta di riserva e con la quale avvengono gli scambi di merci a livello internazionale. Infatti, fino ad oggi, ogni compratore che voglia acquistare sul mercato internazionale delle merci quotate in dollari deve aprire un conto presso una banca statunitense, la correspondent bank, per procurarsi dollari. Così facendo, però, il compratore in questione si sottomette alla legislazione statunitense e, quindi, al controllo del governo americano. Per questa ragione il dollaro è anche una importante arma di guerra da parte degli Usa che lo impiegano per sanzionare, bloccandone le transazioni commerciali, i paesi con cui hanno contenziosi politici aperti.
Dante Barontini: “Ciao Europa, ti lasciamo l’Ucraina e ti mettiamo pure i dazi”
“Ciao Europa, ti lasciamo l’Ucraina e ti mettiamo pure i dazi”
di Dante Barontini
A sentire Steve Bannon – ex stratega di Donald Trump nella vittoriosa campagna elettorale del 2016 e finito poi in prigione per aver rifiutato di testimoniare contro di lui nel processo per l’assalto al Congresso, intervistato oggi da Il Corriere della Sera – l’Ucraina sarà ben presto mollata al suo destino.
Agli europei la scelta se continuare a sostenerla oppure seguire gli Stati Uniti nel ritiro degli aiuti economici e soprattutto militari.
Bannon attualmente non ricopre incarichi istituzionali (è appena uscito dal carcere…) e probabilmente non ne avrà uno neanche dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Però parla da coordinatore e “guru” del movimento Maga (make America great again), che è poi l’anima militante e militare del suo elettorato.
C’è quindi da tener presente una (piccola) differenza tra gli obiettivi dichiarati ancora adesso, oltre che durante la campagna elettorale, e quel che The Donald potrà concretamente fare una volta insediato.
Per quanto riguarda il rapporto con l’establishment tira davvero una pessima aria: «Non possiamo aspettare l’insediamento di Trump: la battaglia per il controllo del governo avviene in questo momento: alla Camera, al Senato, nello Stato amministrativo, alla Difesa, i giudici…». Peggio ancora, «Dicono che serve unità. Avremo l’unità dopo che abbiamo epurato i traditori».