Rassegna 05/12/2024
Giovanni Di Fronzo: Dialettica dell’economia cinese. Per Cheng Enfu i cinesi ricostruiscono il loro percorso
Dialettica dell’economia cinese. Per Cheng Enfu i cinesi ricostruiscono il loro percorso
di Giovanni Di Fronzo
Il testo “Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale della riforma”, edito in Italia da Marx XXI, è una raccolta di saggi scritti dal professor Cheng Enfu e da alcuni suoi collaboratori nell’arco di molti anni, dall’inizio degli anni ‘90, fino alla fine degli anni ‘10 del 2000. Cheng Enfu fa parte della prestigiosissima Accademia Cinese delle Scienze Sociali, molto ascoltata ai piani alti del Partito Comunista Cinese, ed è membro dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
Il Volume, non sempre di facilissima lettura e fruizione, mira a dare una sistematizzazione teorica, basata sul marxismo, all’economia “socialista di mercato” inaugurata dal Partito Comunista Cinese con la politica di “Riforme e Apertura” del 1978, e proseguita successivamente con la “Nuova Era”, a partire dal 2012.
Quando si parla di marxismo, nel caso dei teorici cinesi, bisogna entrare nell’ottica di quella che loro chiamano “concezione olistica del marxismo”, ovvero una visione del corpus teorico marxista in termini di “sviluppo organico”, come si diceva da noi in Occidente, da Marx in poi. In pratica, fra Marx, Engels, Lenin e chi li ha seguiti, compresi i leader cinesi, non vi è distinzione fra coloro che hanno teorizzato il marxismo e coloro che lo hanno applicato, come siamo abituati a pensare in occidente negli ultimi 40 anni: fa parte tutto di un corpus unico in continuo sviluppo.
Così, ad esempio, s’invita a non considerare dogmaticamente le affermazioni di Marx secondo cui nuovi e più avanzati rapporti di produzione non emergono mai finché le condizioni non saranno maturate all’interno della vecchia società, altrimenti non si può concepire l’emergere e l’affermarsi della rivoluzione in Cina, avvenuta in un paese arretrato e che vede tutt’oggi la compresenza di forme di produzione e distribuzione diverse.
Inoltre, in luogo della classica definizione della contraddizione fra la natura privata della proprietà dei mezzi di produzione e la natura sociale dello delle forze produttive, viene data la seguente definizione della contraddizione che attanaglia i paesi a capitalismo maturo:
Giulio Maria Bonali: Sul libro di Sahra Wagenknecht
Sul libro di Sahra Wagenknecht
di Giulio Maria Bonali
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Ho finalmente letto il libro di Sara Wagenknecht e provo a esporre il più brevemente possibile le mie critiche, argomentandole piuttosto sommariamente, dati i limiti di tempo e di spazio inevitabili in un articolo che è comunque diventato, contro le mie intenzioni, fin troppo lungo; soprattutto ci tengo a segnalare alcuni aspetti importanti (e secondo me per lo più preoccupanti) delle sue affermazioni, un po’ a mo’ di “sottolineature”, cioè enfatizzandoli e sperando di contribuire alla riflessione in corso su L’ Interferenza (e altrove).
Dalla lettura emerge immediatamente un atteggiamento sostanzialmente riformistico, socialdemocratico “vecchio stampo”, con grande enfasi e preoccupazione per la mobilità sociale in via di avanzato e vieppiù ingravescente impedimento e forte interesse per la possibilità di accesso individuale a buoni posti di lavoro ed elevate condizioni di “prestigio” sociale per i figli dei modesti lavoratori e della piccola borghesia (accesso che oggi destra e “””sinistra””” alla moda ostacolano); e invece sostanziale disinteresse per una lotta collettiva volta all’ indebolimento e auspicabile estromissione dal potere delle classi dominanti e smodatamente privilegiate. Ma a mio parere oggi di terreno per il riformismo non ne esiste più, essendo stato spazzato via da due fatti che hanno completamente eliminato le indispensabili conditiones sine qua non che consentivano di praticarlo, almeno in una certa misura, nella seconda metà del XX° secolo. E cioè la terribile sconfitta del “socialismo reale” e la correlata riduzione ai minimi termini dei Comunisti (per quanto molto limitatamente e incoerentemente tali siano stati) anche in quasi tutto il mondo occidentale capitalistico; e inoltre il tendenziale mutamento in corso nei rapporti di forza politici, economici e militari e fra “centri” e “periferie” del sistema imperialistico mondiale che tende a ostacolare oggettivamente sempre di più la possibile concessione ai lavoratori di elementi di relativo benessere, fino alla creazione di aristocrazie operaie e di “ceti medi benestanti”, nei centri del sistema stesso; sistema imperialistico mondiale che trova scarsissima attenzione, se non proprio nulla, da parte della Wagenknecht.
Fulvio Grimaldi: Bye bye Grande Israele. Libano, inizio della fine per chi?
Bye bye Grande Israele. Libano, inizio della fine per chi?
di Fulvio Grimaldi
Byoblu, Arianna Graziato intervista Fulvio Grimaldi
Avete presente quel pugile, Tyson, a 58 anni vecchio come il cucco, ma con una carriera di sfracelli alle spalle? Ci riprova, è chiuso all’angolo, mena colpi all’impazzata senza cogliere il bersaglio, barcolla, si aggrappa alle corde, crollerà. Qualcuno getta l’asciugamano, si chiama Amos Hochstein, israelo-americano dell’IDF.
E’ andata così a Beirut nei giorni scorsi, ma, a dispetto della complicità delle varie mafiosità predatrici dell’Occidente politico, neanche la tregua di 60 giorni salverà Israele dall’abominio universale con cui lo vede e tratta la parte migliore dell’umanità.
Contro il Libano, obiettivo da distruggere per far spazio alla Grande Israele, colpo fallito nel 2000 e nel 2006 col naso rotto da Hezbollah, Israele, che già non riesce a domare Hamas in una striscia di 60km x 10 bombardata e genocidata da 14 mesi, doveva:
- – mettere in sicurezza 150.000 esasperati cittadini cacciati dalle loro colonie nel Nord e nel Sud della Palestina occupata e che ora arrivano a prendere a pugni i propri soldati, in gran parte riservisti che non gliela fanno più.
- – Sollecitare al ritorno i 700.000 occupanti della Palestina che, a causa dei casini in corso, dentro Israele e tutt’intorno, hanno abbandonato Israele e da paese dell’immigrazione (indispensabile per contenere la prolificità palestinese) lo hanno ridotto a paese della gente in fuga.
Leonardo Sinigaglia: Aleppo, in corso “un’operazione imperial-sionista”
Aleppo, in corso “un’operazione imperial-sionista”
di Leonardo Sinigaglia
Appare chiaro come ciò che sta accadendo ad Aleppo debba essere visto non solo alla luce delle operazioni sioniste, ma dal conflitto in corso tra le forze dell’unipolarismo statunitense e i promotori di un ordine multipolare e democratico nella sua globalità
Nemmeno un giorno dopo le minacce di Netanyahu[1] contro il presidente Assad, le milizie terroriste finanziate dall’Occidente da anni asseragliate a Idlib hanno attaccato in forze Aleppo, città già teatro di una violentissima battaglia terminata nel dicembre 2016 con la piena liberazione di essa da parte dell’Esercito Arabo Siriano. Le forze dei qaedisti di al-Nusra, del cosiddetto “Esercito Libero Siriano” e di Tahrir al-Sham, oltre a numerose milizie estremiste minori, hanno condotto un potente attacco a sorpresa contro le linee siriane, riuscendo, nonostante i grandi bombardamenti condotti dagli aerei militari di Mosca e Damasco, a giungere sino all’interno dei quartieri più occidentali della città. L’esercito siriano è stato preso alla sprovvista, e in attesa di rinforzi è stato costretto a cedere terreno. La situazione è tuttora confusa anche a causa del gran numero di notizie false diffuse in rete dai gruppi di miliziani filo-occidentali.
L’attacco avviene a seguito di un incremento dei bombardamenti russo-siriani sulla provincia di Idlib, occupata dai terroristi, ma soprattutto in un momento di crisi per Israele e per il potere statunitense nel Levante. L’insuccesso militare sionista sul fronte libanese ha evidentemente obbligato Tel Aviv ha cambiare strategia, passando dall’aggressione terroristica diretta del Libano a manovre indirette volte a mettere pressione sulle linee di comunicazione che collegano l’Iran a Hezbollah, passando per Iraq e Siria.
Fabrizio Marchi: Grave scivolone (tattico o strategico?) del neonato partito di Sahra Wagenknecht
Grave scivolone (tattico o strategico?) del neonato partito di Sahra Wagenknecht
di Fabrizio Marchi
La scelta di andare al governo con la CDU e la SPD in Turingia e con la SPD in Brandeburgo da parte del BSW, il neonato partito fondato da Sahra Wagenknecht è, a mio parere, un grave errore sia tattico che strategico che, fra le altre cose, aprirà una vera e propria autostrada all’AFD, il partito di estrema destra tedesco con forti venature neonaziste.
Pur non essendo un partito marxista né rivoluzionario – del resto non credo ci siano le condizioni oggettive, al momento e a mio avviso, per un simile partito, in un paese capitalista europeo “avanzato” come la Germania – il BSW è comunque nato come una forza di radicale rottura rispetto all’attuale ordine politico, e proprio questo spiega il notevole successo che ha avuto alle scorse elezioni amministrative, le prime a cui partecipava data, appunto, la sua giovanissima età. Una rottura non solo politica ma anche e soprattutto ideologica e chi ha letto il libro di Sahra Wagenknecht – che è sostanzialmente un manifesto politico – lo sa perfettamente. Wagenknecht ha infatti scritto con molta chiarezza, nero su bianco, che per combattere efficacemente le destre, sia quelle liberal-liberiste (la CDU) che quelle radicali (l’AFD) e riconquistare i ceti popolari è innanzitutto necessario operare una cesura netta con l’attuale “sinistra” neoliberale (in Germania la SPD e i Verdi), da lei stessa definita “sinistra alla moda”.
Ora, scegliere di andare al governo, sia pure a livello locale, con quelle stesse forze politiche liberali e liberiste, di destra o di “sinistra”, (neo)conservatrici o “progressiste” per combattere le quali è stato meritoriamente costruito un partito, è un errore sia tattico che strategico, se non un vero e proprio suicidio.
Emiliano Brancaccio: Gli scioperi sono troppi? No, troppo pochi
Gli scioperi sono troppi? No, troppo pochi
di Emiliano Brancaccio
Fotografia di un crollo C’è stata convergenza internazionale al ribasso, nel senso che i paesi dove in passato si tendeva a scioperare maggiormente hanno finito per somigliare sempre più a quelli in cui gli scioperi sono rari
Sugli scioperi il governo Meloni e i suoi cantori portano avanti una propaganda ben rodata: le astensioni dal lavoro sono troppe, condotte da una minoranza di sindacalisti irresponsabili contro una maggioranza di cittadini danneggiati, e vengono organizzate solo quando c’è la destra al potere. Come invocano le associazioni padronali, bisogna dunque disciplinare, irreggimentare, comprimere ulteriormente il già limitato esercizio del diritto costituzionale a scioperare.
Questa posizione, in effetti, non caratterizza solo l’attuale governo italiano. Anche all’estero, varie forze di governo hanno manifestato aperta ostilità verso le astensioni dal lavoro. Dalla Gran Bretagna alla Francia, dall’Austria all’Olanda, passando per vari stati americani, la tendenza degli esecutivi a ritenere che gli scioperi siano troppi e vadano repressi è un tratto distintivo dell’epoca in cui viviamo.
Eppure, per quanto diffusa, la tesi che gli scioperi siano «troppi» è smaccatamente falsa. Se prendiamo i dati ufficiali della International Labour Organization (ILO) sulle ore di mobilitazione per scioperi nei paesi relativamente “sviluppati” – dagli Stati uniti alla Corea del Sud, dai membri dell’Unione europea alla Turchia, e così via – scopriamo che dal 1992 ai giorni nostri si è verificata una mastodontica caduta delle astensioni dal lavoro: in media, gli scioperi sono crollati di oltre il 40 percento, con punte negative di oltre l’80 percento nel Regno unito.
Michele Paris: Romania, il terremoto della pace
Romania, il terremoto della pace
di Michele Paris
I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali nella giornata di domenica in Romania hanno mandato letteralmente in corto circuito politici, stampa e commentatori indigeni e occidentali, tutti colti di sorpresa dal primo posto ottenuto dal candidato indipendente di estrema destra, Calin Georgescu. Già frequentatore ai margini della politica romena, quest’ultimo ha smentito completamente le previsioni della vigilia e i primi exit poll, accedendo comodamente al secondo turno di ballottaggio grazie a una serie di fattori, tra cui la decisione di impostare la sua campagna elettorale sulla denuncia delle politiche guerrafondaie e ultra-liberiste dettate da Bruxelles e sull’apertura alla possibile normalizzazione dei rapporti con la Russia.
La parola “shock” è senza dubbio la più ricorrente in queste ore sui media ufficiali per descrivere il successo di Georgescu. Lo shock riguarda però solo coloro che si illudevano in una facile affermazione dei candidati dell’establishment totalmente allineato alle posizioni NATO e UE sulle questioni economiche e, soprattutto, sulla guerra in Ucraina. Come in molte altre occasioni è accaduto in un anno con numerosi appuntamenti elettorali, a risultare vincente è stata invece l’opposizione alle politiche promosse da un’élites ultra-screditata e lontana anni luce dagli interessi dei singoli paesi europei e delle rispettive popolazioni.
Eros Barone: Il fondamentale contributo di Mao al pensiero comunista
Il fondamentale contributo di Mao al pensiero comunista
di Eros Barone
1. Una carenza della cultura politica italiana
L’anno scorso ricorreva il centotrentesimo anniversario della nascita di Mao Zedong, noto alla mia generazione come Mao Tse-tung (1893-1976). Era facile prevedere che su quell’anniversario sarebbe calato, come infatti è calato, il totale silenzio non solo dei ‘mass media’ borghesi, ma anche, tranne poche eccezioni, delle stesse organizzazioni della sinistra comunista. Sennonché, tralasciando i primi che, in quanto ‘armi di distrazione di massa’, si limitano a fare il loro mestiere, sarebbe invece opportuno interrogarsi sul comportamento delle seconde per capire le ragioni della debolezza manifestata dalla cultura politica italiana (e dalla cultura ‘tout court’) nei confronti dell’esponente di una delle maggiori esperienze, sia politiche che filosofiche, del Novecento. In effetti, nonostante per alcuni versi la Cina sia ormai così vicina all’Italia da poter essere considerata (che si aderisca alla “Via della Seta” o che se ne esca) una delle componenti più rilevanti dell’economia del nostro paese, per altri versi, come dimostra la debolezza or ora menzionata, la Cina resta lontana.
Eppure, è difficile negare che se il pensiero di Mao non ha influito a sufficienza sulla cultura politica del nostro paese e non è stato a sufficienza assimilato e discusso dal fragile marxismo italiano, ciò si è risolto in un danno per quest’ultimo. È infatti sorprendente che le pagine, pur verbalmente celebrate, del magistrale saggio di Mao Sulla contraddizione 1 non abbiano trovato l’attenzione e l’approfondimento che ancor oggi esse attendono. Gli stessi comunisti di orientamento marxista avrebbero tutto l’interesse a condurre un’analisi delle classi della società italiana che fosse altrettanto rigorosa e perspicua quanto l’Analisi delle classi nella società cinese, che, quasi un secolo fa (e nello stesso anno in cui in Italia apparivano le Tesi di Lione del Partito comunista d’Italia), fu in grado di sviluppare Mao.2 Né serve come alibi, essendo un simile postulato del tutto falso, affermare, come spesso si sente dire da parte dei sociologi, che la nostra società è più complessa e articolata, poiché chi reitera questo ‘mantra’ adopera in realtà la complessità, cui si appella, non come un concetto teorico ma come una strategia politica, e quindi mente sapendo di mentire.
Tony Norfield: BITCOIN. Un’alternativa digitale?
BITCOIN. Un’alternativa digitale?
di Tony Norfield[1]
All’inizio ho prestato poca attenzione ai Bitcoin, pensando che probabilmente ci fossero più imitatori di Elvis Presley di quante persone al mondo lo abbiano scambiato o posseduto. Ma visto che le banche centrali hanno rilasciato dichiarazioni politiche sui Bitcoin, che l’FBI ha sequestrato asset Bitcoin utilizzati dagli spacciatori di droga e che le autorità fiscali hanno fornito indicazioni sulle passività per plusvalenze, mentre i gruppi finanziari stanno progettando di offrire fondi negoziati in borsa denominati in Bitcoin, ho deciso di dargli una seconda occhiata. Questo articolo fornisce la mia valutazione di questa valuta digitale alternativa. Il Bitcoin è emerso dalle macerie del sistema monetario internazionale nel 2008, quando numerose banche hanno avuto un’esperienza di pre-morte e alcune sono state effettivamente sepolte. È stato ideato da un team di specialisti del software, guidati da un certo Satoshi Nakamoto. A marzo, Newsweek ha affermato di aver smascherato questo misterioso uomo internazionale come un modesto ingegnere giapponese-americano in pensione, ma quest’ultimo lo nega e sono in corso cause legali. Tuttavia, è possibile analizzare i Bitcoin senza entrare nei dettagli delle personalità coinvolte. Ci sono due aspetti chiave dei Bitcoin: un sistema di pagamenti basato su Internet e un’unità di valuta speciale per il pagamento tra diversi account Internet. Il primo è ragionevolmente innovativo; il secondo è bizzarro. Sebbene siano strettamente collegati, è utile considerarli separatamente.
Il sistema
Con i Bitcoin puoi effettuare pagamenti tra singoli conti su Internet in un modo che non utilizza il sistema bancario. Ciò solleva una serie di domande sull’accesso all’account, l’identità e la sicurezza che gli sviluppatori di software hanno cercato di risolvere e, per lo più, hanno risolto (vedi Wikipedia su Bitcoin per una discussione estesa su aspetti tecnici, insidie e truffe).
Algamica: Qualche appunto sul 30 novembre di questo 2024 e dintorni
Qualche appunto sul 30 novembre di questo 2024 e dintorni
di Algamica*
Come sempre cerchiamo di essere chiari a qualunque costo, e ci riferiamo alla contraddizione palesatasi in piazza Vittorio su chi avrebbe dovuto tenere la testa del corteo. Che si sia trattato di una ingiustificabile bagarre è fuori discussione, ma chi ragiona di cose sociali non si può accontentare di una presa d’atto e magari condannare, no, perché si impone di ragionare sulle cause che generano certi comportamenti sia individuali che di gruppi.
Che vuol dire prendere la testa di un corteo come quello di sabato 30 novembre 2024 a Roma? Stabilire chi aveva per primo prenotato la piazza o la data? Suvvia, non scherziamo, non ci nascondiamo dietro i formalismi per nascondere le ragioni teoriche e politiche che marciano fin dal 7 ottobre 2023 all’interno delle formazioni politiche di sinistra italiane (più o meno estremiste) per un verso e dei gruppi dei palestinesi che in Italia, in Europa, negli Usa e nel mondo intero cercano faticosamente di far valere le loro ragioni.
Entriamo perciò nel merito della contraddizione che in Italia si va sempre di più aggrovigliando e sabato 30/11 ha rischiato qualcosa di molto sgradevole. Mettiamo senza pudore i piedi nel piatto e diciamo che è ragione di buon senso rispettare l’ospite, anzi in Italia (ma crediamo un po’ dappertutto) è abitudine ripetere che l’ospite è sacro, un principio di buona educazione, di civiltà, di galateo o di bon ton come si usa dire nei tempi moderni.
Se quel principio è valido in generale, a maggior ragione dovrebbe essere valido per un ospite di riguardo che sta subendo un genocidio da parte di un nemico cui il nostro paese, cioè il paese ospitante ha qualche responsabilità in maniera diretta e indiretta perché sta sostenendo senza condizione il genocidio sia attraverso il proprio governo che con gran parte dell’opposizione parlamentare democratica.
Quale occasione migliore per separare le nostre responsabilità genocide tanto del governo che della sua opposizione democratica se non quella di dimostrare in piazza il rispetto per chi sta subendo il genocidio e che a testa alta resiste? Dunque non c’è ragione che tenga che ci si dimeni a voler contendere la testa del corteo: andrebbe data senza nessuna esitazione ai palestinesi.
Elena Basile: Niente di nuovo sul fronte globale
Niente di nuovo sul fronte globale
di Elena Basile
La finanza internazionale sembra giocare l’uno contro l’altro gli schieramenti politici che concorrono a un disegno non molto diverso. Le politiche neo-liberiste con la fine dello Stato sociale e della compromesso capitale-lavoro si affermano negli Stati Uniti come in Europa. Trump non è molto diverso dalla Harris. Famosa la frase del talento musicale Frank Zappa: la politica è la sezione intrattenimento dell’apparato militare-industriale. Oggi più che in precedenza. Non vi sono grandi sfumature tra il bellicismo nazionalista, affetto da suprematismo di varia natura, dell’Europa di destra come di quella del centro-sinistra.
I venture-capitalist della Silicon Valley, i petroliferi, i donatori cristiani e la lobby di Israele sono alla base dell’elezione di Trump.
La politica estera non mi sembra possa cambiare. Mark Rubio, Segretario di Stato e Michael Walts, Consigliere alla Sicurezza Nazionale, rappresentano la continuità con i neoconservatori. La politica del bastone contro la Cina sarà il cavallo di battaglia. Si potrebbe passare dal contenimento a una politica di confronto aggressivo che costringa la Cina a fare passi indietro. Protezionismo e tariffe non basteranno. La sfida relativa a Taiwan e le minacce militari nel pacifico aumenteranno. Si tratta di una strategia rischiosa ed essenzialmente controproducente. La potenza nucleare nemica al fine di proteggere il proprio sviluppo economico e la sovranità sarà infatti costretta a posizioni bellicose che oggi vorrebbe evitare.
Fabrizio Poggi: NYT rompe l’ultimo tabù: Armi atomiche all’Ucraina come ultimo atto dell’amministrazione Biden?
NYT rompe l’ultimo tabù: Armi atomiche all’Ucraina come ultimo atto dell’amministrazione Biden?
di Fabrizio Poggi
Joe Biden potrebbe ridare a Kiev “le testate atomiche toltele nel 1991”, scrive The New York Times. Come reagirebbe Mosca?
Pare ci sia un po’ di apprensione, a Kiev, da quando, ieri, Donald Trump ha annunciato di aver nominato Keith Kellogg inviato speciale per l’Ucraina e la Russia, sapendo che l’ex generale, già in estate, aveva proposto un piano che prevede il congelamento del conflitto in Ucraina sulla linea del fronte, la revoca di alcune sanzioni alla Russia, ma, soprattutto, il blocco di qualsiasi tranche all’Ucraina finché Zelenskij non accetta di negoziare.
Ma, come si dice, “It’s a Long, Long Way to” 20 gennaio, con l’entrata in carica a pieno titolo di Trump; e forse anche per questo Biden cerca di mandare, ora, quanto più possibile ai nazisti ucraini, sia in soldi che in armi.
E allora, ecco che tra Washington e Bruxelles c’è chi parla di fornire armi nucleari alla junta (forse “Tomahawk”) in risposta, dicono quei signori, al lancio del “Orešnik” su Dnepropetrovsk ed è insomma non solo dubbia e prematura la speranza in una deescalation del confronto politico-militare; no: c’è proprio qualche criminale che è al lavoro perché la situazione si faccia davvero drammatica. Joe Biden potrebbe ridare a Kiev le testate atomiche toltele nel 1991, scriveva il 21 novembre citando funzionari il The New York Times. Siamo insomma, come qualcuno ha già ricordato, alla terza “crisi dei missili”, dopo quella di inizi anni ’60, quella dei Pershing e Cruise una ventina d’anni dopo e ora questa, in condizioni già di per sé incandescenti.
comidad: La miliardariolatria è trasversale al politicorretto e al politiscorretto
La miliardariolatria è trasversale al politicorretto e al politiscorretto
di comidad
Uno dei mantra allegati all’elezione e alla rielezione di Trump è quello della perdita dell’influenza dei media mainstream sull’elettorato; in altri termini oggi gli elettori tenderebbero in maggioranza a votare in senso contrario a quanto indicato dai principali quotidiani e dai grandi network televisivi. La realtà però è più complicata; infatti, sebbene ostili a Trump, i media mainstream hanno contribuito ad alimentare il mito secondo il quale il suo politicamente scorretto costituirebbe una sfida ideologica all’establishment.
Il problema è che il politicamente scorretto non è altro che un sottoprodotto comunicativo del politicamente corretto e vive in funzione del gioco delle parti, cioè del battibecco che nasconde i veri problemi. Ad esempio: il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro aveva cercato goffamente di fregare il detenuto al 41bis Alfredo Cospito incaricando un parlamentare suo sodale di diffondere alcune intercettazioni effettuate in carcere. Purtroppo da quelle intercettazioni risultava con chiarezza che il regime carcerario del 41bis non comporta affatto l’isolamento dei detenuti; anzi, questi vengono regolarmente fatti incontrare a gruppi nelle ore d’aria. Ciò pone dei dubbi seri sul 41bis; se esso sia davvero un regime di “carcere duro” per il controllo dei boss, oppure sia uno strumento di gestione e manipolazione del crimine organizzato da parte di apparati non identificabili.
Pierluigi Fagan: Questioni di metodo nella lettura delle questioni internazionali
Questioni di metodo nella lettura delle questioni internazionali
di Pierluigi Fagan
Un caro amico di pensiero, mi ha mandato questo articolo americano che porta avanti le tesi espresse nel mio ultimo post https://www.facebook.com/photo/?fbid=10233136375967101&set=a.1148876517679. Un articolo di chi?
Si tratta della prestigiosa rivista The National Interest, fondata nel 1985 da un seguace di Irving Kristol, ideologo fondatore del neoconservatorismo. In seguito, la rivista venne acquistata da un think tank repubblicano fondato da Richard Nixon e a seguire, la fazione neocon – tra cui F. Fukuyama- uscì per fondare un’altra rivista. Per poco meno di trenta anni, Henry Kissinger ne è stato presidente onorario. Appoggiano Trump ma non appartengono alla galassia del trumpismo, sono la versione “colta” di certo repubblicanesimo storico americano, specializzati in politica internazionale.
Ma la questione fondamentale è che sono di scuola realista. John Mearsheimer, le cui analisi sul conflitto russo-ucraino nonché sul peso della lobby israeliana sulla politica di Washington sono state molto condivise dall’area critica, è un realista sebbene ideologicamente probabilmente conservatore e certo non anti-imperialista o anti-capitalista di principio.
Personalmente, a livello ideologico, nulla ho a che spartire con repubblicani conservatori americani dediti alla coltivazione dell’interesse nazionale del loro Paese. Tuttavia condivido l’approccio realista. Può capitare che tra realisti si diano letture concordi pur avendo ideologie diverse (anche radicalmente diverse).
Martino Dettori: Perché il “patriarcato” è uno strumento del capitale
Perché il “patriarcato” è uno strumento del capitale
di Martino Dettori
Come insegna la migliore strategia di guerra, per ottenere una vittoria, è necessario conoscere i tuoi nemici e dividerli, amplificando i punti di discordia e rendendo ininfluenti i punti di contatto
Da un po’ di tempo, sulla scia di certi fatti di cronaca nera, si assiste a un movimento di opinioni che vuole dipingere l’uomo (soprattutto quello europeo, caucasico e bianco) come soggetto tendenzialmente violento, meschino e possessivo nei confronti della donna. Una tendenza questa che viene impropriamente battezzata “pratriarcato”.
Impropriamente, perché il patriarcato è una struttura sociale di tipo famigliare nella quale il cosiddetto “patriarca” esercita la propria autorità sulla moglie, sui figli, sui nipoti, sulle nuore e persino sui pro-nipoti e le loro mogli. Ed è una struttura famigliare arcaica che, qui in Italia, è morta e sepolta da almeno cinquant’anni.
Definire, dunque, “patriarcale” l’atteggiamento violento, meschino e possessivo di un uomo nei confronti della propria moglie o della compagna, non ha senso alcuno, se non per rendere generalizzati certi fenomeni criminali e/o socialmente violenti di natura marginale, attribuendoli pregiudizialmente a una categoria generale: i maschi.
Ne consegue che se, nella generalità dei casi, il rapporto uomo-donna è un rapporto sano ed equilibrato (ben lontano dai fatti di cronaca nera), con la storia del patriarcato, il rapporto malato uomo-donna — l’eccezione appunto — diventa il caso generale dal quale trarre la regola secondo la quale l’uomo è intrinsecamente violento, e come tale necessita di essere (ri)educato.