Sara Uboldi* – 06/12/2024
“Sono stata invitata a partecipare con una delegazione di Città Migrante di Reggio Emilia, un’associazione composta da cittadini di origine straniera e italiana che promuove la cultura dell’accoglienza, alla mobilitazione promossa in Albania dal Network Against Migrant Detention. Ho potuto raggiungere l’hotspot di Shënglin e il centro di detenzione di Gjadèr, in questo momento senza migranti a seguito della sentenza emessa dal Tribunale di Roma.
Ho cercato di documentare le ragioni, le parole e i gesti degli attivisti, di raccogliere testimonianze dalle persone che vivono in prossimità di questi centri. Sono queste architetture, infrastrutture, spazi militarizzati imposti dal governo italiano alla popolazione albanese, attraverso una retorica di stampo colonialista. A Sheejin, l’hotspot si inserisce in un panorama tra mare e montagna caratterizzato dall’abuso di cemento e, raccontano dei testimoni, da infiltrazioni malavitose, anche italiane. La tentata (e, pare, già abortita) scalata del turismo, che depaupera ambiente e comunità (e che conosciamo bene anche in Italia e nelle aree mediterranee), appare ancor più drammatica se accostata alla costruzione di stigma e pregiudizio verso la popolazione albanese, ancora oggi additata nel nostro paese da pesanti pregiudizi (stupratore-prostituta).
Luoghi militarizzati e marginalizzati questi, non-spazi attentamente selezionati e ri-significati come campi di detenzione e carceri. A Gjadèr, mentre gli attivisti presiedevano e la polizia attendeva in assetto antisommossa dietro i cancelli, ho potuto misurare con lo sguardo la mostruosa architettura incastrata tra le montagne e il paesaggio rurale. Non potrebbe essere stato altrimenti, Gjadèr, contemporanea e tragica Fortezza Bastiani, è collocata secondo il principio di continuità dei confini che devono apparire inviolabili e senza tempo, parti integranti della natura (Khosravi 2023). Primordiali e con statuto indiscutibile. Il centro, posto a pochi chilometri dal piccolo paese, soffoca un’abitazione dove la proprietaria parlando con un’attivista dice che “non è stata chiesta alcuna autorizzazione a lei e alla sua famiglia” e “non è stato pagato nessun indennizzo dall’esercito italiano”, aggiungendo che “comunque loro non vogliono mettersi contro il governo”.
Ho percepito la renitenza degli abitanti ad affrontare l’argomento dell’accordo Meloni-Rama e il tema della costruzione di strutture di deportazione e detenzione per migranti. In alcuni casi, la paura per il rischio di ritorsione è stata sussurrata a mezza voce.
C’è stato chi, con cautela, ha descritto i rischi dell’attivismo in Albania, del problema del patriarcato e del maschilismo che toglie voce alle donne e alle attiviste, in particolare.
“C’è paura, tanta paura… se osi dire la tua posizione sull’argomento, la tua famiglia rischia… se c’è un famigliare che lavora nel pubblico, rischia il posto di lavoro. Viene licenziato dall’oggi al domani, è già successo a un’attivista tra noi… Il popolo albanese ha sofferto il regime per quarant’anni e conosciamo la repressione, ma stiamo vivendo un sistema dittatoriale non esplicito”. Le connivenze di questo sistema con le organizzazioni criminali, albanesi ma anche italiane, sono quasi alla luce del giorno. “Gli accordi vengono fatti negli uffici del Ministero…” continua il testimone.
Fortezza Europa appare sempre più come un avamposto a difesa degli hard power, che gestiscono affari con la criminalità organizzata, e della militarizzazione, che intacca anche gli spazi della sociali. Il modello costruito a tavolino dal governo italiano e lodato da Ursula von der Leyen si inserisce all’interno di un programma di gestione delle frontiere, di governance della migrazione e di sfollamento forzato perseguito a livello europeo e globale.
Ripenso ai concetti di confine, di istituzione totale, di osmosi degli spazi della detenzione. C’è però anche una teoria, quella dei Sistemi aperti che indica che tutti i sistemi umani, anche quelli più totali, dipendono dall’ecosistema in cui sono inseriti, ovvero sopravvivono grazie alle relazioni con l’ambiente circostante. Questo è vero anche per il carcere, per le gli ospedali, i manicomi, per i CPT, per ogni forma di campo detentivo. Istituzioni costruite sempre su un modello binario di trattamento della persona che suddivide chi gestisce da chi è in posizione passiva; chi domina da chi viene etichettato come debole, indegno, colpevole, attraverso veri e propri rituali di degradazione che consentono la spersonalizzazione, l’umiliazione, la profanazione del sé. Insomma, sistemi basati su principi di sistematica spoliazione dei ruoli, ben definiti da Goffman (1961), supportati da pratiche di ricompensa e clientelismo all’interno delle stesse istituzioni, come micro-mondi socio culturali determinati per prevedere e imporre l’assenza di relazioni e l’impedimento nella costruzione di legami tra le persone gestite.
Shënglin e Gjadèr, con i loro elementi simbolici di confine, il filo spinato, i cancelli, le cabine di sicurezza, sono forme di etero-utopie, “luoghi reali, luoghi effettivi, luoghi che sono progettati nell’istituzione stessa della società” (Foucault 1993) e che plasmano la percezione di identità, comunanza, sovranità, nazionalità, natività, legalità e illegalità.
La trasgressione di questi confini viene quindi riconfigurata nelle dicotomie puro-impuro, cittadino-non cittadino, sicurezza e minaccia, portando alla criminalizzazione dell’immigrazione e del superamento dei confini.
La mobilità assoluta di piccoli gruppi privilegiati, basata su politiche di discriminazione sociale, economica e neocoloniale, viene contrapposta alla forzata immobilità nei paesi terzi, alla prigionia dei confini e dei loro spazi di reclusione (Wilson, Weber 2008).
Proprio in questi stessi giorni è stata avanzata all’ipotesi che il centro di detenzione di Gjadèr possa essere riconvertito a carcere italiano per i detenuti di origine albanese.
De-territorializzazione della detenzione, deportazione dei non cittadini indesiderati. Lo scarto metonimico esercitato è quasi imbarazzante nella sua banale nefandezza supportata dal discorso e dalla normativa politica e giuridica della gestione dell’ordine pubblico che marchia gli individui come sotto-prodotti, residui di essere umani, che possono essere rimbalzati tra frontiere e stati, rifiutati e rinnegati, illegittimati, condannati come fantasmi a esistenze liminari (Bauman 2004).
Ma le istituzioni totali sono spazi solo apparentemente definiti che sopravvivono grazie alla polarità chiuso-aperto, sono luoghi osmotici e la loro esistenza è possibile soltanto in un sistema complesso di relazioni con l’esterno.
Mi sono recata a Shënglin e Gjadèr per partecipare a un sopralluogo di massa, per diventare parte di un presidio, per porre una pietra simbolica che intimasse a non dimenticare questo e altri confini. Perché, come esseri umani antropologicamente sempre in attraversamento dei confini – simbolici, sociali, territoriali, relazionali -, nessun luogo, dove si transiti, ci si fermi o si venga fermati, dove ci si incontri o ci si perda, dove si soffra e si ami, nessun confine possa mai cadere nell’oblio.
Pena la perdita dell’umanità nel senso più ampio del termine, la caduta della civiltà. La presa di posizione non è un’opzione, una possibilità, è un’urgenza.
Ricordava Anna Arendt che esiste un unico diritto umano, il diritto di avere diritti, che non si limita a uno statuto giuridico, ma che costituisce una base imprescindibile perché l’uomo possa essere considerato tale (Maresciallo 2020).
Diritto che comprende l’agire e e il discorrere nel mondo.
L’avere un posto nel mondo, contrapporre alla forza il potere, ovvero la possibilità dell’agire insieme.
Esattamente questo è il diritto che, con le attiviste e gli attivisti, abbiamo rivendicato a Shënglin e a Gjadèr.”
*Sara Uboldi: ricercatrice e attivista, conduce ricerca sugli impatti sociali della cultura. Coordina il progetto Pre-texts in carcere, utilizzando il protocollo creativo di Doris Sommer (Università di Harvard) nei luoghi della marginalità estrema.
Foto disponibili qui: Centri immigrazione in Albania, insieme al Network Against Migrant Detention a Shënglin e Gjadèr – di Sara Uboldi – Vauro
Riferimenti bibliografici (nelle edizioni consultate)
Arendt H., 2006, L’umanità in tempi bui, Raffello Cortina Editore.
Arendt H., 2009, Le origini del totalitarismo, Einaudi.
Bauman Z., 2004, Vite di scarto, Laterza.
Foucault M., 1993, Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Einaudi.
Goffman, E. (1961). Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates. Anchor Books.
Khosravi S., 2010, “Illegal” traveller; An Auto-Etnograpgy of Borders, MacMillan Publishers.
Maresciallo F., 2020, Il diritto di avere diritti. Storia, natura e giudizio nel pensiero politico di Hannah Arendt, Aracne.
Lotto A., 2022, Diritti umani e cittadinanza in Hannah Arendt, DEP, Deportate, Esuli, profughe, rivista telematica dell’Università Ca’ Foscari, https://www.balcanicaucaso.org/Libreria/Copertine/DEP-Deportate-Esuli-Profughe
Wilson D., Weber L. (2008), Surveillance, risk and preemption on the Australian border, “Surveillance and Society”, 5(2), 124-141.