[SinistraInRete] Marino Badiale: Fine della libertà?

Rassegna 05/01/2025

Marino Badiale: Fine della libertà?

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Fine della libertà?

Per la libertà di pensiero

di Marino Badiale

9c6e7bcaaf1066facedf686a30a1e386.jpg1. Una lenta erosione

Assistiamo da molto tempo, nei paesi occidentali, a una lenta erosione del fondamentale principio della libertà di pensiero, intesa naturalmente come libertà di espressione pubblica delle opinioni. Nel 2024 abbiamo assistito, per fare qualche esempio, all’arresto di Pavel Durov, fondatore del “social” Telegram, e a iniziative repressive contro le proteste nei confronti della politica israeliana, iniziative che assumono modalità diverse nei vari paesi ma sembrano avere in comune l’accomunare la critica alle politiche israeliane con l’antisemitismo. Il catalogo dell’intolleranza contemporanea è però, purtroppo, molto più vasto, e comprende per esempio alcuni aspetti di quello “spirito del tempo” che viene genericamente indicato con termini quali “politicamente corretto”, “wokism”, “cancel culture”. Un recente notevole esempio in questo senso è rappresentato dalle contestazioni verso il film “Ultimo tango a Parigi”, che hanno portato alla cancellazione di una proiezione prevista in una sala cinematografica della capitale francese.

In sostanza, l’intolleranza contemporanea è presente in versioni sia “di destra” sia “di sinistra”, e va quindi indagata appunto come una espressione dello “spirito del tempo”.

Per fissare un punto di partenza di questa deriva, almeno per quanto riguarda l’Europa, si può forse indicare la legge francese del 1990, legge Gayssot, che fra le altre cose rendeva reato la negazione dell’esistenza del genocidio subito dagli ebrei ad opera del nazismo. Questa legge è stata poi imitata, in un modo o nell’altro, da molti paesi europei. Sicuramente tale legge non è la prima, in un paese occidentale, a colpire la libertà di opinione: basti pensare, in Italia, alla legge Scelba. La legge Gayssot mi sembra però significativa perché è stata imitata, in forme diverse, in vari paesi europei, e soprattutto perché essa colpisce non tanto una posizione politica sgradita, ma proprio la pura e semplice manifestazione di un’opinione: negare il genocidio ebraico, di per sé, è solo un’opinione relativa a fatti storici e non sottintende nessuna particolare posizione politica, tanto che sono esistite correnti di estrema sinistra (ultraminoritarie anche all’interno dell’estrema sinistra, s’intende) che sostenevano tale opinione.

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Carlo Formenti: Apologia di Lukàcs

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Apologia di Lukàcs

di Carlo Formenti

luk.jpgI miei ultimi lavori (1) devono molto alla interpretazione che l’ultimo Lukacs (2) ha dato del pensiero di Marx. Analizzando i concetti fondamentali della ontologia lukacsiana in un ciclo di lezioni che sto tenendo per il Centro Studi Domenico Losurdo (la più recente si può ascoltare all’indirizzo You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=z6q7KhmGK5g ) mi sono reso conto che, in tutte le cose che ho sin qui scritto e detto su di lui, ho fatto solo brevi accenni alla sua biografia. È vero che, ragionando su un pensiero di grande spessore le considerazioni relative all’opera tendono a prevalere su quelle dedicate alla figura dell’autore, tuttavia, nel caso specifico, tale approccio non è del tutto appropriato. Non solo perché la sua vicenda umana ha incrociato eventi storici di enorme portata – la Prima guerra mondiale, le Rivoluzioni russa e ungherese, lo stalinismo, la Seconda guerra mondiale, l’insurrezione ungherese del 56 – e personaggi della statura di Georg Simmel, Max Weber, Thomas Mann, Ernst Bloch, Lenin e Stalin. Ma perché proprio il fatto di aver attraversato – uscendone indenne – queste grandi prove, ha fatto sì che critici e detrattori abbiano potuto attribuirgli una “prudenza” al limite della pavidità, se non di un vero e proprio opportunismo. Il tutto al fine malcelato di sminuire la portata del suo pensiero.

È per questo che ho deciso di rimettere mano a una sua lunga intervista autobiografica (Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo) pubblicata in edizione italiana dagli Editori Riuniti nel 1983. Nelle pagine che seguono ne richiamerò alcuni passaggi perché ritengo che, da questa “confessione”, emerga un profilo di straordinaria coerenza personale, politica, ideale e morale, anche – se non soprattutto – nelle discontinuità e nei ripensamenti autocritici: la sua storia è quella di un intellettuale e militante comunista che, pur consapevole delle contraddizioni e delle storture emerse nel corso del grande esperimento sociale inaugurato nell’Ottobre 1917, non ha mai voluto “salvarsi l’anima” (e intraprendere una ricca carriera in qualche università occidentale) indossando i panni del “dissidente”, perché, dichiara, è sempre rimasto convinto che “sia meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”.

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Davide Malacaria: Fine anno: piovono aerei. Catena fatale di incidenti

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Fine anno: piovono aerei. Catena fatale di incidenti

di Davide Malacaria

Azerbaigian, Canada, Norvegia, Corea del Sud: quattro incidenti aerei in pochi giorni

Il 25 dicembre è precipitato l’Embraer 190 dell’Azerbaijan Airlines, partito da Baku e mai arrivato a destinazione, che era Grozny. Giunto quasi alla meta, infatti, ha dovuto deviare perché sulla capitale della Cecenia imperversava una battaglia aerea tra droni ucraini e contraerea russa, complicata dalla nebbia. L’aereo è poi precipitato in Kazakistan, provocando la morte di 38 persone.

La propaganda ha subito incolpato la Russia, come se avesse di proposito buttato giù l’aereo, nonostante l’incidente fatale sia avvenuto mentre Grozny era sotto attacco ucraino, come riportato anche su RBC Ukraine.

 

L’aereo azero

Putin ha chiamato il suo omologo azero e ha chiarito le circostanze dell’incidente, in attesa di ulteriori chiarimenti. Resta la grancassa contro Mosca, come se quanto avvenuto fosse voluto o nascondesse circostanze oscure, come evidenzia un articolo sul Washington Post del cantore neocon Max Boot dal titolo “La Russia ha una lunga storia di abbattimenti di aerei passeggeri e di occultamento di tali fatti” (Boot dimentica il volo Iran Air 655, abbattuto nel 1988 da un missile della U.S. Navy, l’incrociatore Vincennes, 290 i morti, e l’attentato che abbatté nel 1976 il CU-455 della Cubana aviacion, 73 morti, a opera di due terroristi affiliati alla Cia, oltre e qualcos’altro, ma tant’è).

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Pierluigi Fagan: La guerra artica

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La guerra artica

di Pierluigi Fagan

La Groenlandia è l’isola più grande del mondo e corrisponde al 22% del territorio degli US, circa la somma di Italia + Francia + Spagna + Germania + Polonia + Regno Unito, 50 volte la superficie della Danimarca con soli 60.000 abitanti. È parte del regno di Danimarca ma dotata di ampi poteri autonomi.

Secondo un rapporto dell’US Geological Survey nel sottosuolo (tra terra emersa e pertinenza sui fondali marini) si troverebbero il 13% delle risorse mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas, più oro, rubini, diamanti, zinco, ferro, rame, terre rare e molto uranio, per uno stimato valore complessivo di circa 400 mld di US$, il Pil di un anno per la Danimarca.

Gli statunitensi vi hanno già diverse basi militari non pubblicizzate, tranne quella nota di Pituffik che è centro di tutta la rete di protezione spaziale (NORAD). Al di là delle risorse pur cospicue, non v’è dubbio che il peso strategico principale dell’isola ghiacciata è geo-strategico essendo parte del Polo Nord e controllando l’accesso al Polo per tutto il sud-ovest.

Per il Polo Nord, bordeggiando la Siberia, i cinesi pianificano lo sviluppo della loro Via della seta polare, una alternativa strategica per evitare gli stretti del sud-est asiatico (poi Bab el-Mandeb, Mar Rosso, Suez) ed accorciare anche i tempi di traversata per giungere in Europa.

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Sandokan: Depopolamento tra complotto e realtà

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Depopolamento tra complotto e realtà

di Sandokan

I mendaci ideologi del regime globalista sputtanano tutti coloro che disprezzano il sistema come “complottisti”. Il risultato che ottengono è tuttavia quello di ingrossarne le file. Se fossi complottista mi chiederei se dietro non ci sia un… complotto. Come infatti spiegare che codesti ideologi di regime, i quali sanno bene che “non c’è pubblicità negativa”, contribuiscono con la loro martellante campagna di pseudo-contrasto a ingrossare i ranghi dei tanto vituperati complottisti?

In effetti, se per complotto intendiamo un disegno recondito e inconfessato, il “complotto” c’è davvero. Ve lo spiego. Il potere agisce per scegliersi i nemici e tende a far emergere, contro quelli davvero pericolosi, quelli che considera funzionali al sistema, quelli che la buttano in caciara. L’obbiettivo che in tal modo si ottiene è quello di screditare chiunque si opponga, rafforzando così il sistema stesso.

Un recente caso da manuale di come l’élite sistemica riesca a scegliersi i suoi nemici è quello di Vannacci, un Signor Nessuno diventato un personaggione solo grazie alla pubblicità fattagli da Repubblica e dal sinistrato transgenico Matteo Pucciarelli. Chiediamoci: come mai, su questo folgorante fenomeno, tra i tanti canali complottisti che ammorbano il web, non ci sia stato nessuno che abbia interpretato la trionfale marcia del generale come un “complotto”? Come mai i complottisti hanno fatto come le tre scimmiette? Vannacci è stato assolto proprio perché è uno di loro, e si atteggia anzi a condottiero della loro sgangherata armata, per lo più composta da reazionari incalliti.

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Dante Barontini: Con la Turchia a Damasco, per Israele c’è un problema in più

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Con la Turchia a Damasco, per Israele c’è un problema in più

di Dante Barontini

Quando infili un bastone in un nido di serpenti, tutto si mette in moto e molto difficilmente l’autore della mossa può tenere sotto controllo il caos che ne deriva.

Vediamo in questi giorni che la Siria. Conquistata in un batter d’occhio dal proxy turco Al Jolani, alla guida di una sezione mediorientale di Al Qaeda – formazione nutrita inizialmente da Usa e Arabia Saudita in funzione antisovietica –, il nuovo equilibrio di poteri a Damasco inizia a prender forma anche se crescono i conflitti all’interno del paese (gli alawiti, fuggito Assad, provano a resistere nelle loro storiche roccaforti, mentre cristiani provano a marcare la loro presenza e i curdi a mantenere i loro territori).

Con Israele che occupa a sud ben più del solo Golan e bombarda ogni deposito militare del disciolto esercito siriano, nel tentativo di ridurre al minimo le potenzialità di chiunque emerga nel prossimo futuro come nuovo padrone di ciò che resta della Siria.

Ovvio, in questo contesto, che Israele e gli Usa appaiano come i vincitori del risiko mediorientale.

C’è però un però. Non sono questi gli unici protagonisti di peso sulla pelle dei popoli palestinese, siriano e libanese. E il puzzle si complica parecchio guardando quel che accade al di fuori dei riflettori miopi dell’informazione occidentale.

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Gabriele Germani: Le relazioni tra Israele e Turchia nel rebus siriano

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Le relazioni tra Israele e Turchia nel rebus siriano

di Gabriele Germani

Fine anno rocambolesco per la politica mondiale, con i protagonisti che affilano le armi e si preparano a farci vedere il meglio di loro.

La Turchia, come ormai di abitudine, mostra una vitalità e un dinamismo che la vecchia Europa ormai non può nemmeno sognare.

Continuano le mobilitazioni della società civile che chiedono un’azione ancora più decisa da parte del governo in sostegno della causa palestinese. Crescono i timori di essere i prossimi nel mirino israeliano, specie vista l’estensione del territorio controllato da Tel Aviv in Siria e la non applicazione del cessate il fuoco con Hezbollah. Israele procede nella distruzione di case – o peggio di interi villaggi –, ma soprattutto rimane sul suolo libanese, contravvenendo all’accordo che prevedrebbe il ritiro dell’IDF all’interno dei confini israeliani e di Hezbollah a Nord del fiume Litani; le truppe di Tel Aviv dovrebbero dunque lasciare il controllo dei territori all’esercito libanese.

Al momento dalla fine delle ostilità vi sono stati oltre duecentoquaranta attacchi, causando morti e feriti.

Crescono i timori ad Ankara di essere la prossima vittima. Tel Aviv sta infatti portando avanti il genocidio a Gaza e in Cisgiordania quotidianamente; occupa il Libano meridionale; ha bombardato e provocato Iran e Siria, paese di cui ha occupato anche alcune porzioni; ha bombardato lo Yemen (Netanyahu ha detto continueranno a colpire il paese fino ad “eliminare l’asse del male iraniano”).

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Roberto Iannuzzi: 2024: non ci sono vincitori

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2024: non ci sono vincitori

di Roberto Iannuzzi

Un’America in crisi all’interno tenta una proiezione “muscolare” all’esterno. Infrantasi contro il “muro” russo in Ucraina, affonda nel ventre molle mediorientale trainata dall’ariete israeliano

704c8609 7b3e 480e 843f
e64b416905ab 1920x1280Sebbene i bilanci di fine anno si risolvano spesso in stucchevoli elenchi di eventi e in previsioni il più delle volte erronee, al termine di un’annata così tragica e tumultuosa come quella che si sta chiudendo sarà forse utile tracciare un bilancio per tentare di comprendere cosa ci riserva il futuro.

Il 2024 era iniziato mentre infuriava la violentissima operazione militare di Israele a Gaza, e i primi omicidi mirati israeliani in Siria e Libano, così come gli attacchi degli Houthi (gruppo yemenita altrimenti noto come Ansar Allah) al traffico commerciale nel Mar Rosso, lasciavano presagire un possibile allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale.

Nel frattempo, dopo la fallita controffensiva delle forze armate ucraine nell’estate del 2023, il conflitto nel paese est-europeo ha cominciato a volgere al peggio per Kiev. L’Ucraina mancava di uomini e mezzi. L’Occidente stava perdendo la sfida della produzione bellica con la Russia.

Anche a causa dei contraccolpi della guerra ucraina, nel 2024 l’Europa ha iniziato a sprofondare in una crisi economica e politica in gran parte frutto delle disastrose scelte degli anni passati: le prolungate politiche di austerità, la ridefinizione delle catene di fornitura avviata con la crisi del Covid-19, la decisione europea di rinunciare all’energia a basso costo fornita dalla Russia.

I due paesi leader dell’UE, Germania e Francia, hanno cominciato ad avvitarsi in gravi crisi interne che hanno intaccato progressivamente la loro stabilità politica.

Nel vano tentativo di rovesciare le sorti del conflitto in Ucraina, i paesi NATO hanno adottato tattiche sempre più provocatorie (sebbene militarmente inconcludenti), incoraggiando Kiev a colpire obiettivi in territorio russo e violando progressivamente le “linee rosse” di Mosca.

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Francesco Galofaro: La guerra e la caduta dell’economia europea

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La guerra e la caduta dell’economia europea

di Francesco Galofaro*

Gli effetti disastrosi delle politiche belliciste di Nato e Unione europea su produzione industriale, esportazioni e occupazione.

Il mercato europeo, quello italiano in particolare, sta attraversando un periodo di grande difficoltà, che getta nella disperazione intere filiere produttive e macroregioni economiche. La causa è da individuare, senza mezzi termini, nella guerra.

Per raccontare questa storia, si può partire da un articolo del 22 dicembre, pubblicato dal quotidiano dei vescovi, l’«Avvenire». L’economia del nord-est è in allerta: in crisi diverse aziende come Tirso (settore tessile), Flex (elettronica), Wartsila (motori), Electrolux (elettrodomestici). Secondo Michelangelo Agrusti, presidente di Confindustria Alto Adriatico, il problema è “l’economia di guerra”: la sparizione del mercato russo e ucraino e i dazi nei rapporti con la Cina.

Un periodo di grande difficoltà è attraversato, su scala più ampia, dal gruppo Stellantis: in Italia, gli stabilimenti lavorano al minimo e i lavoratori sono in cassa integrazione. Tuttavia, a giugno 2024 il gruppo ha avviato la produzione di auto elettriche nello stabilimento di Tychy, in Polonia: una joint venture con la cinese Leapmotor per sfruttare i proventi del marchio in Europa. In questo modo i partner cinesi evitano i dazi europei sulle importazioni; inoltre, i costi sono dimezzati rispetto all’Italia.

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