Iyah May, la cantautrice licenziata per aver parlato di genocidio

Simona Losito – 08/01/2025

Iyah May, la cantautrice licenziata per aver parlato di genocidio – InsideOver

 

La cantautrice australiana Iyah May ha recentemente attirato l’attenzione dei media per una vicenda legata al suo brano, Karmageddon, uscito a novembre 2024. Il focus non è però la sua musica, quanto la sua decisione di restare fedele ai propri principi.

La sua nuova canzone affronta temi di libertà artistica, censura, conflitti geopolitici e diritto internazionale, e la polemica è stata scatenata in particolare dalla definizione degli eventi in corso a Gaza come genocidio.

Questo, ma anche l’essersi rifiutata di apportare le modifiche richieste al testo, ha portato allo scioglimento del suo contratto con il management musicale che la rappresentava.

Il testo e il suo grido di giustizia

La canzone, descritta dalla stessa artista come “un inno per tutti voi e per chiunque voglia un mondo migliore, un mondo pacifico e che tutte queste orrende e disgustose ingiustizie finiscano”, non è solo una denuncia della violenza a Gaza, ma un manifesto contro l’indifferenza globale.

Si tratta della prima canzone socialmente impegnata dell’artista che in passato ha utilizzato l’R&B per affrontare temi più personali e relazionali. Karmageddon è invece un brano diverso. Sulle note di una canzone pop apparentemente serena, le parole utilizzate dall’artista sono piuttosto affilate. Il testo inizia rappresentando una realtà comune a qualsiasi persona che sui social scrolla reel barcamenandosi tra tragiche notizie e soddisfacente superficialità. “Forse è così che diventa la vita quando le persone sono meno importanti di una linea di profitto”, intona la seconda strofa.

Il ritornello, invece, con un riferimento alla pandemia dice “virus creati dall’uomo, guardate come muoiono milioni di persone. Il più grande profitto della loro vita. Ecco l’inflazione, questo è il vostro premio. Questo è il Karmageddon”. Un messaggio piuttosto chiaro e inequivocabile, con un esplicito rimando alla “cancel culture“.

Il riferimento al genocidio a Gaza arriva quando recita “mentre ci vengono propinate tutte queste distrazioni, i bambini vengono uccisi dalle azioni di Israele”. E poi, in modo più esplicito, “più che una guerra è un genocidio”. Proprio l’uso del termine ha innescato la controversia. Questo termine, fortemente controverso e carico di implicazioni, ha diviso profondamente l’opinione pubblica: c’è chi l’ha lodata per il suo coraggio e chi l’ha criticata per aver utilizzato una retorica considerata divisiva e politicizzata.

Il manager musicale le aveva chiesto esplicitamente di modificare il testo della canzone, definendolo un rischio per la sua carriera. Al suo rifiuto, è seguita la recessione del contratto. Ma come lei stessa ha detto a inizio dicembre in un post su Instagram, ora la canzone è virale, sedicesima canzone più ascoltata nel mondo su iTunes, e i suoi messaggi sono liberi di circolare.

L’annuncio della cantautrice ha suscitato reazioni contrastanti. Da una parte, molti artisti e attivisti hanno espresso solidarietà, lodando la sua determinazione e il coraggio di affrontare temi così complessi. Alcuni tra i sostenitori hanno anche sottolineato come la sua esperienza metta in luce le difficoltà di coniugare arte e attivismo in un’industria musicale sempre più commerciale e sensibile alle pressioni politiche.

Dall’altra parte, però, non sono mancate le critiche. Alcuni l’hanno accusata di sfruttare un linguaggio incendiario che rischia di polarizzare ulteriormente un conflitto già estremamente complesso. Altri, vicini alle posizioni filoisraeliane, respingono categoricamente la definizione di genocidio, ritenendola inappropriata ma anche offensiva.

Il termine “genocidio” è centrale nella controversia. Secondo il diritto internazionale, un genocidio implica l’intento deliberato di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, religioso o nazionale. La scelta di Iyah May di utilizzare questa parola ha inevitabilmente caricato il suo brano di una valenza politica che va ben oltre l’ambito artistico.

E la libertà artistica?

Non è la prima volta che il mondo della musica e dell’arte si scontra con temi legati al conflitto israelo-palestinese. Artisti, scrittori e musicisti si sono spesso trovati sotto pressione per le loro posizioni, ma il caso di Iyah May si distingue per il modo in cui un’artista indipendente ha deciso di sfidare apertamente le convenzioni e i limiti imposti dall’industria musicale. Senza dubbio, questa mossa le è valsa un discreto successo al momento.

La vicenda solleva una domanda più ampia: fino a che punto un artista può esprimersi liberamente in un contesto sempre più globalizzato e politicamente sensibile? In un settore in cui le case discografiche e i management spesso operano in base a logiche commerciali e politiche, la libertà creativa rischia di diventare un lusso.

Ora che il suo contratto è stato risolto, Iyah May sembra determinata a proseguire come artista indipendente. La cantante ha annunciato che continuerà a lavorare a nuovi progetti musicali, senza rinunciare alla sua voce e al suo messaggio. Il un altro post su Instagram ha ringraziato il suo pubblico con queste parole: “Dire la verità anche quando le forze si rivoltano contro di te è molto più gratificante che mettere a tacere la tua integrità.”.

L’intera vicenda evidenzia la necessità di un dibattito più ampio su come l’industria musicale affronti le questioni politiche e sociali. Se l’arte deve avere un ruolo nel promuovere il cambiamento, allora deve essere libera di affrontare anche i temi più scomodi, sapere che c’è qualcuno che ancora combatte per i propri ideali invece di soffocarli in nome del successo non può che essere motivo di speranza.

 

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