Pubblichiamo una interessante intervista a cura di Viola Briskin, studentessa universitaria, nell’ambito delle ricerche per la sua tesi di laurea “La società israeliana tra indifferenza e militarismo” ad Anat Matar, professoressa di filosofia all’Università di Tel Aviv e attivista politica che si è occupata del movimento dei Refusinik e dei detenuti politici palestinesi. Negli ultimi anni Anan Matar si è impegnata nell’organizzazione “Academy for Equality”
Fai parte di qualche organizzazione o movimento pacifista? Quando e perché sei entrata nell’organizzazione?
Sono attiva da tantissimi anni (ho 68 anni) nei movimenti, nell’università e poi molte altre cose; sono stata attiva in molte organizzazioni, tante che riguardano i detenuti perché mio figlio nel 2003 ha rifiutato di arruolarsi ed era in prigione; ero attiva con detenuti di diverso tipo: quelli che rifiutavano la leva militare e soprattutto detenuti palestinesi amministrativi e politici e altre attività che riguardano i detenuti. Ho partecipato a tanti altri movimenti di protesta nelle università, a manifestazioni… Ci sono talmente tanti anni dietro di me che è inutile che continui ad elencare. Parliamo anzi degli ultimi anni, che è più rilevante. Negli ultimi anni sono attiva in un’organizzazione che si chiama “Academy for Equality“, l’abbiamo fondata sette-otto anni fa con l’idea di portare la vera sinistra dentro l’Università di Israele; dico sinistra nel senso ampio, lavorando anche sulle condizioni di studio, di lavoro, sull’assunzione diretta dei lavoratori delle pulizie; e anche contro la militarizzazione dentro l’Università, che è terribile. Abbiamo formato dei gruppi di ricerca per capire i progetti che ha l’esercito dentro l’università, progetti di ricerca militare e abbiamo organizzato delle forme e manifestazioni di protesta; è un tentativo che non è molto riuscito, ma d’altra parte niente è riuscito. Il campo delle lavoratrici delle pulizie è un settore dove siamo riusciti ad ottenere qualcosa, tutto quello che riguarda la militarizzazione non aveva molte possibilità. Ma è importante che siamo lì. Io avevo fatto un tentativo di espellere le armi dai campus, in modo che i soldati non entrassero con le armi, i mitra, le pistole, perché non ci fosse questo tipo di presenza. Da ottobre siamo stati molto impegnati ad aiutare gli studenti palestinesi che sono stati perseguitati e anche professori che sono stati licenziati per aver detto anche solo una “frase” sbagliata. Anch’io ho subito delle pressioni, ero nel gruppo di solidarietà e poi il gruppo ha dovuto difendere me.
Quali sono le idee del movimento? E quali sono le principali attività che svolgete?
È un po’ quello che ho detto; l’idea principale è quella di essere una sinistra che non si vergogna, perché c’è una persecuzione contro la sinistra e vogliamo far vedere che la sinistra è una cosa molto vasta che unisce idee anti-occupazione, socialismo, antisionismo, il modo in cui funziona l’università, la democratizzazione delle università, l’avanzamento della carriera per mezzo delle pubblicazioni senza guardare alla qualità. Lavoriamo in gruppi e io lavoro in quello che si occupa della questione palestinese. C’è un altro gruppo che lavora sulle molestie sulle donne, un altro gruppo che cerca di aiutare gli studenti che vengono da famiglie disagiate che sono di solito famiglie palestinesi o di orientali [si riferisce agli ebrei di origine araba, n.d.r], sono persone che hanno meno strumenti, facciamo anche dei convegni, abbiamo un’agenda progressista.
Come è cambiata la partecipazione a questo tipo di iniziative negli anni?
È una domanda che fa male; la sinistra è molto diminuita, noi siamo un’organizzazione che conta 800 membri, ma attivi siamo una settantina, gli altri ricevono la posta, sostengono e va bene che sostengano, ma le persone che fanno veramente qualcosa sono molto meno. È molto difficile in questi tempi coinvolgere le persone nell’attivismo: la gente ha paura, non è politicizzata, non vuole sentire parlare di politica, è un’atmosfera poco buona e specialmente nell’ultimo anno.
Guardando la società israeliana di oggi credi che sia possibile avere un’idea condivisa della risoluzione del conflitto basata su ideali di pace?
Non più. Una volta ci ho creduto, ma nell’ultimo anno…anche così sono diventata pessimista. Da ottobre tante cose sono cambiate. Oggi penso di no. La gente è manipolata, un lavaggio del cervello. L’unica possibilità, anche se non la vedo, è che accadrà qualche evento inaspettato che farà sì che la gente pensi diversamente; mi dispiace parlare cosi perché è molto poco di sinistra dire che le masse non sanno pensare, ma ora il vento è molto di destra ed è di destra in tanti altri posti al mondo, in Europa, negli Stati Uniti, anche in Italia, non ve lo devo dire io. È molto difficile oggi trovare gente che ci crede; quando dico sinistra intendo sinistra vera, questo tipo di sinistra quanto c’è in Italia? Quanto c’è in Francia? Va beh, in Francia c’è un po’ di più; in l’Inghilterra secondo me è un esempio molto buono quello che è successo con Corbin: aveva un senso, ma tutte le istituzioni, compresa la sinistra, hanno fatto di tutto per farlo cadere. Questo esempio chiarisce, anche se non è in Israele, che quando c’è una piccola voce radicale che cerca di avanzare, tutti la reprimono e il problema è che qua in Israele tutti passano dall’esercito e l’esercito distrugge il loro cervello.
Secondo te che ruolo svolge il servizio militare obbligatorio all’interno del tema dell’avvicinamento agli ideali di pace? Io credo che la maggior parte delle persone dopo l’esercito abbiano un’idea ancora più militarizzata del paese, ma qualcuno invece si rende conto del contesto reale in cui vive. Puoi parlarmi anche della tua esperienza personale se vuoi.
Sono d’accordo con la tua riflessione, penso che sia proprio vero. In Israele arriva il momento in cui tutti vanno a servire nell’esercito, tutti tranne gli ultraortodossi, gli arabi, c’è anche chi non ci va, ma la maggior parte ci va e questo i bambini lo sanno dall’età di tre-quattro anni. Anche quando sei all’asilo, alle elementari, durante tutta la tua adolescenza sai sempre che dovrai andare all’esercito. Ci sono tante cerimonie, senza l’esercito l’asilo e la scuola in generale sarebbe stata un’altra cosa. Questa è la prima fase: tutto è pronto per farti vivere con l’idea che tu sarai un soldato. E poi accetti le cose che dice il portavoce dell’esercito, ora lo si vede molto bene: ora tutto quello che dice l’IDF è la verità, anche se dice sempre bugie, ma tutti ci credono. Ora che c’è l’opposizione a Netanyahu, l’autorità a cui tutti danno fiducia è l’esercito: è il pilastro portante della società israeliana, sia quella laica che quella religiosa. E poi vanno a servire nell’esercito dopo il lavaggio del cervello che hanno ricevuto prima di essere arrivati lì, e l’esperienza di essere soldato nell’esercito è un’esperienza che ti forma ed è molto difficile uscirne fuori; ci sono quei pochi, come dimostrano alcune organizzazioni, che ne escono scioccati e non ci stanno. Ma la maggior parte lo accetta, accetta che bisogna difendere il nostro paese pensando che questo è il nostro destino, entri sempre più in profondità, diventi parte di questa cosa e poi trasmetti tutto alla generazione successiva e cosi via. E nell’ultimo anno lo vediamo molto bene, come tante cose che si evidenziano di più, ma è stato sempre così.
Secondo te perché il consenso al Likud e verso Netanyahu continua ad essere presente da 20 anni nel paese ? Cosa vedono in lui gli israeliani?
Perché di fatto non esiste un’alternativa seria, lo si può vedere dall’unico periodo dove c’era opposizione. In questi ultimi due anni con la riforma giudiziaria ci sono state manifestazioni di massa nelle strade ed era un grande movimento contro Netanyahu. Però la cosa contro la quale erano contro era una cosa formale, amministrativa: cercavano di custodire la democrazia in Israele, in modo che tutto vada bene, che ci siano i giudici, ma che in Israele non c’è democrazia non l’hanno notato. Custodire il parlamento, i tribunali, i giudici: questa è l’opposizione. Anche per la sinistra è la stessa storia: c’è l’esercito che ci custodisce, che ci protegge, le soluzioni sono sempre prima militari, ogni partito ha il suo generale, il modo di pensare è sempre lo stesso, è molto simile; loro dicono che sono contro gli insediamenti, che sono contrari all’annessione, ma che c’è bisogno dell’esercito per la sicurezza, bisogna ammazzarli a Jenin; questo modo di pensare alla sicurezza è quello della sinistra sionista. Alla fine è quella che viene chiamata la “superiorità ebraica”.
Israele è considerato l’unica democrazia del Medio Oriente. Sei d’accordo con questa affermazione? Perché?
Ovviamente no, perché non credo che sionismo e democrazia possano andare insieme; tante volte quando sono all’estero la gente vuole capire la sinistra radicale e ho visto che questo convince anche persone che non capiscono; io chiedo: voi vivete in democrazia? Vi sembra una casa importante? E io dico: io non vivo in una democrazia; io voglio vivere in un paese democratico e vedi che all’improvviso si chiarisce il concetto all’istante; dico che io voglio solo vivere in una democrazia e basta; non può essere una democrazia solo per gli ebrei
Dopo il 7 ottobre l’estremismo nel paese è aumentato? Quali sono le proposte dell’organizzazione in merito a questo tema?
Come prima cosa la destra è cresciuta; in verità sono quasi cancellate tutte le differenze nello spettro politico, mi sembra ovvio, allora non dirò tanto su questo. Quello che abbiamo cominciato a fare come sinistra nell’Università sia israeliani che palestinesi, uomini e donne, è stato istituire subito sin dal primo giorno dei gruppi che hanno sostenuto diversi palestinesi che sono stati perseguitati o dall’Università o dalla destra perché magari hanno pubblicato un post sui Facebook; anche i professori venivano licenziati perché hanno messo un post di solidarietà con Gaza. In parallelo facevamo anche degli incontri in zoom con palestinesi e loro raccontavano cosa stavano attraversando, come affrontavano la loro situazione. Abbiamo provato a ottenere informazioni di quello che succedeva nell’Università nella West Bank, ma era difficile trovare con chi parlare, però stiamo cercando di mantenere contatti con il mondo accademico nei territori e aiutare come si può.
Secondo te qual è il ruolo della paura nella storia di Israele e nella risposta all’attacco del 7 ottobre?
È una domanda difficile. Ti dico perché è difficile: è ovvio che la paura ha un ruolo per il discorso dell’Olocausto e quando è successo il 7 ottobre si è detto: ecco che l’Olocausto ritorna, però è un discorso molto manipolatorio, credo che sia molto difficile separare la paura dalla manipolazione della paura. Capisco il fatto che le persone abbiano paura, anche io personalmente, lo si può anche capire, i primi giorni, sette e otto ottobre era un cosa terribile; Israele è piccola per cui tutti conoscevano qualcuno che era morto o era stato rapito, e questo faceva molta paura. Ma dopo, quando tutto assume una sua forma, il suo contesto e ci si chiede il perché, da dove viene; qui entra in ballo la storia e qui entra la manipolazione, e perciò anche ora il Libano, e l’Iran, c’è sempre una manipolazione.
Secondo te perché il movimento pacifista israeliano è così debole?
Per questo motivo, per tutte le cose di cui abbiamo parlato prima; l’esercito io credo che sia una cosa determinante; senza fare una graduatoria, il sionismo stesso, per il fatto che la maggioranza è sionista e perché io credo che non si possa essere sia sionista e contemporaneamente a favore della pace, con i palestinesi come uguali, non dando le briciole, l’uguaglianza non sta insieme con l’educazione sionista. C’erano movimenti per la pace, poi c’erano i partiti come i laburisti o più a sinistra MERE-TZ, però sono la sinistra sionista; quelli che hanno provato a tenere le due cose insieme, sinistra e sionismo, non ci sono riusciti e sono diventati più sionisti, non più di sinistra, si spostano verso destra o spariscono per la disperazione e lasciano il paese.
Perché le proteste in atto nel paese secondo te sono tutte incanalate verso il salvataggio degli ostaggi e contro Netanyahu e non si sente parlare di tutte le vittime palestinesi?
Penso che all’inizio l’abbiano fatto in modo pragmatico perché all’opinione pubblica non interessa per niente di Gaza, che è la verità; i familiari dei rapiti pensavano, e li posso anche capire, cosa potesse influenzare opinione pubblica, ed erano gli ostaggi, gli sembrava che non ci fosse bisogno di questo elemento in più, della guerra; anche noi abbiamo provato e abbiamo fatto manifestazioni per fermare la guerra chiedendo il rilascio degli ostaggi, il rilascio dei prigionieri palestinesi, di fermare la guerra, ma i familiari degli ostaggi volevano in modo più realistico per quello che li riguardava togliere questo “rumore” per arrivare a un pubblico più vasto, e quello che è successo, come si poteva prevedere, è che non riescono perché la gente crede che bisogna eliminare Hamas, che è centrale l’aspetto della sicurezza; e allora alla fine questa rinuncia alla questione palestinese non è valsa la pena, non funziona, perché non funziona niente.
Come pensi sia risolvibile il conflitto?
Non si può, in questo momento non credo che sia possibile, ora non vedo nessuna soluzione; la situazione è sempre peggio, l’uno odia l’altro sempre di più rispetto ad un anno fa, ed hanno ragione.
Cosa pensi riguardo al tema del diritto al ritorno dei palestinesi?
Se ci fosse una soluzione, se ci fosse un accordo, deve essere un argomento trattato; non è che questo necessariamente deve voler dire che devono entrare milioni e milioni di persone; bisogna riconoscere la Nakba, bisogna riconoscere che tutte le persone che muoiono oggi a Gaza sono profughi del ‘48, alcuni sono i familiari, alcuni sono loro stessi, i più vecchi sono gente espulsa nel ‘48 e ora viene ammazzata. E’ già successo tante volte nel mondo e nella storia, non è realistico che tutti tornino, ma prima bisogna dare il riconoscimento a tutto questo, poi trovare la soluzione, però in questo mi sembrano solo parole senza nessun significato.