[SinistraInRete] Gli USA tagliano i fondi all’USAID. Panico tra i professionisti delle “rivoluzione colorate”

Rassegna 09/02/2025

 

Kit Klaremberg: Gli USA tagliano i fondi all’USAID. Panico tra i professionisti delle “rivoluzione colorate”

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Gli USA tagliano i fondi all’USAID. Panico tra i professionisti delle “rivoluzione colorate”

di Kit Klaremberg*

USAIDTra la raffica di ordini esecutivi emessi dal presidente Donald Trump nei primi giorni della sua amministrazione, forse il più importante fino a oggi è quello intitolato “rivalutare e riallineare l’assistenza estera degli Stati Uniti”.

In base a quest’ordine è stata immediatamente imposta una pausa di 90 giorni a tutta l’assistenza allo sviluppo all’estero degli Stati Uniti in tutto il mondo, a eccezione, naturalmente, dei maggiori beneficiari degli aiuti statunitensi in Israele ed Egitto. Per ora, l’ordine vieta l’erogazione di fondi federali a qualsiasi “organizzazione non governativa, organizzazione internazionale e appaltatore” incaricato di attuare i programmi di “aiuto” degli Stati Uniti all’estero.

Nel giro di pochi giorni centinaia di “appaltatori interni” dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) sono stati messi in congedo non retribuito o licenziati a titolo definitivo come risultato diretto dell’ordine esecutivo.

Il collaboratore del Washington Post John Hudson ha riferito i funzionari dell’organizzazione definiscono le direttive di Trump sull’”assistenza allo sviluppo estero” un “approccio shock-and-awe”, che li ha lasciati barcollanti, incerti sul loro futuro.

Un membro anonimo dell’USAID gli ha detto che “hanno persino rimosso tutte le fotografie dei programmi di aiuto nei nostri uffici”, come attestano le fotografie che accompagnano l’ordine.

Mentre l’epurazione dell’amministrazione Trump ha provocato onde d’urto tra il corpo di sviluppo internazionale di Washington e i banditi di Washington che si nutrono delle sue reti, l’improvviso taglio dei fondi dell’USAID ha scatenato il panico all’estero.

Dall’America Latina all’Europa dell’Est, gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari nelle ONG e nei media per spingere per le rivoluzioni colorate e varie operazioni di cambio di regime, il tutto in nome della “promozione della democrazia”.

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Emilio Quadrelli: György Lukács, un’eresia ortodossa / 4 – Il partito e la dialettica marxiana

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 4 – Il partito e la dialettica marxiana

di Emilio Quadrelli

Lenin cover.jpgIl terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.

Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività.

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Jacques Bonhomme: Il “punto di vista di classe”, la dialettica e il partito

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Il “punto di vista di classe”, la dialettica e il partito

di Jacques Bonhomme

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1047ED278AD9.jpeg1. Tra passato e presente: “il punto di vista di classe”

Le locuzioni che fanno parte del vocabolario marxista novecentesco, di quel marxismo che è stato la lingua parlata e accomunante – pur con tutti i suoi dialetti – delle Rivoluzioni che vi hanno preso avvio, si usano spesso con timida circospezione, con molta esitazione e quasi chiedendo il permesso. La formula “punto di vista del proletariato” entra subito e facilmente in questo repertorio. E quindi, per poterla recuperare, per poterla incorporare in una “lingua ritrovata”, in una lingua che articoli le pratiche delle lotte sociali e politiche, serve, ineludibilmente, uno sforzo di traduzione. In prima istanza, traduzione da un libro cruciale, da Storia e coscienza di classe di György Lukács, del quale il concetto di “punto di vista del proletariato” è l’architrave filosofico. In seconda istanza, traduzione dai contesti in cui quella teoria di Lukács e importanti forze storiche si sono vicendevolmente rispecchiati e più o meno direttamente sostenuti.

Qualunque sforzo è tuttavia un prezzo sempre troppo basso in proporzione all’importanza dei problemi, dei contenuti teorici e delle prospettive pratiche che l’espressione e, inseparabilmente, il concetto di “punto di vista del proletariato” hanno seminato durante un lungo tempo storico, dalla Terza Internazionale all’emergere del cosiddetto “marxismo occidentale”, dai movimenti studenteschi a Fanon. Infatti, le traduzioni sono avvenute attraverso le pratiche, poiché le continuità hanno beneficiato delle critiche e le situazioni hanno incessantemente riconvertito le idee. Comunque, non è mai crollato il ponte filosofico tra il “punto di vista di classe”, che altro non è che il modo di conoscere il mondo sociale nella sua storicità – la coscienza di esso -, e la classe antagonistica della borghesia imperialista; per quanto quella classe non abbia più il volto del proletariato della guerra civile rivoluzionaria degli anni Venti, delle Repubbliche dei Consigli in Germania e in Ungheria e del Biennio Rosso in Italia.

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Chris Hedges: La via occidentale al genocidio

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La via occidentale al genocidio

di Chris Hedges* – Scheerpost

Gaza è una terra desolata con 50 milioni di tonnellate di macerie e detriti. Ratti e cani frugano tra le rovine e le pozze fetide di liquami grezzi. Il lezzo putrido e la contaminazione dei cadaveri in decomposizione emergono da sotto le montagne di cemento in frantumi. Non c’è acqua potabile. Poco cibo. Una grave carenza di servizi medici e quasi nessun riparo abitabile. I palestinesi rischiano di morire a causa di ordigni inesplosi, lasciati dietro di sé dopo oltre 15 mesi di attacchi aerei, raffiche di artiglieria, colpi di missili e scoppi di carri armati, e di una varietà di sostanze tossiche, tra cui pozze di liquami grezzi e amianto.

L’epatite A, causata dal consumo di acqua contaminata, è dilagante, così come le malattie respiratorie, la scabbia, la malnutrizione, la fame e la diffusa nausea e vomito causati dal consumo di cibo rancido. Le persone vulnerabili, compresi i neonati e gli anziani, insieme ai malati, rischiano la condanna a morte. Circa 1,9 milioni di persone sono state sfollate, pari al 90% della popolazione. Vivono in tende di fortuna, accampati tra lastre di cemento o all’aperto. Molti sono stati costretti a spostarsi più di una dozzina di volte. Nove case su 10 sono state distrutte o danneggiate. Condomini, scuole, ospedali, panetterie, moschee, università – Israele ha fatto saltare in aria l’Università Israa a Gaza City con una demolizione controllata – cimiteri, negozi e uffici sono stati cancellati. Il tasso di disoccupazione è dell’80% e il prodotto interno lordo si è ridotto di quasi l’85%, secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’ottobre 2024.

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Enrico Tomaselli: Trump kill USAID

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Trump kill USAID

di Enrico Tomaselli

La coppia Trump-Musk, nell’ambito della squadra presidenziale, continua a svolgere il proprio ruolo di punta di sfondamento, sia nei toni che nei modi. Da ultimo, a finire nel mirino è l’USAID (US Agency for International Development), che il miliardario matto ha definito “una tana di serpenti marxisti di sinistra che odiano l’America”. Oltre a licenziare numerosi alti dirigenti dell’organismo, il capo del DOGE (Department of Government Efficiency) intende riportare l’agenzia – attualmente autonoma – sotto il diretto controllo del Dipartimento di Stato.

Trattandosi di una delle più importanti agenzie governative statunitensi, per quanto riguarda la politica estera, è importante comprendere qual’è il senso della mossa di Musk.

L’USAID è ufficialmente una struttura dedita al sostegno delle organizzazioni della società civile che, nei vari paesi del mondo, lavorano per favorire lo sviluppo, ma in realtà è ormai da decenni uno dei principali strumenti di sovversione, utilizzato dagli Stati Uniti per destabilizzare e rovesciare governi, ed è di fatto un hub centrale che organizza tutte le diverse operazioni clandestine all’estero. Come ha detto Mike Benz (un noto neocon, direttore della Foundation for Freedom Online) in un’intervista, “ha un budget di 50 miliardi di dollari. L’intera comunità di intelligence è di soli 72 miliardi di dollari.

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Sergio Segio: Quel periodo storico maledetto e irrisolto

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Quel periodo storico maledetto e irrisolto

di Sergio Segio

«E siamo stati insorti, per mille anni o per un solo minuto, correndo dietro a quella particolare forma d’amore che “solo noi sappiamo pronunciare”» (Stefano Tassinari, L’amore degli insorti)

Il silenzio di Sabina, scritto da Francesco Barilli e appena pubblicato da Momo edizioni, è un romanzo che deve molto alla realtà. Si sviluppa in un periodo storico male-detto e irrisolto, come Sabina condannato al silenzio, all’incomprensione o alla falsificazione, alla gogna e all’eterna dannazione: gli anni Settanta del secolo scorso. Un lungo e tormentato decennio che non fu solo di piombo, come pretendono il mainstream e i vincitori, ma anche di sogni e di miraggi, di conflitti e di amori.

Amori come quello triste, solitario e finale tra Sabina e Alfredo, inesorabilmente segnato dalla sofferenza del vissuto, da ferite impossibili da archiviare e tali da precludere il futuro. Eppure, prima, nella realtà, in quegli anni ve ne furono anche di gioiosi, collettivi e nascenti, alimentati dalla fiducia nel domani e dalla determinazione a costruirlo invece di subirlo. Amori spesso brevi e al tempo stesso intensi e luminosi come saette. Gli uni e gli altri così profondi da non poter più essere dimenticati. Amori che trovavano radici e altezze in un continuo processo di liberazione – ancor oggi aperto – e in una rivoluzione vincente, quella delle donne, che aveva trasformato – non senza accanite resistenze – il personale in politico, sovvertendo convenzioni e tradizioni, affermando nuove soggettività, rivendicando diritti e poteri.

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Sara Gandini e Paolo Bartolini: Covid: un contropiede per le autorità, ma la sanità era in crisi da tempo. Ora serve unità

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Covid: un contropiede per le autorità, ma la sanità era in crisi da tempo. Ora serve unità

di Sara Gandini e Paolo Bartolini

Dopo l’insediamento di Trump e l’improvvisa giravolta della Cia, si torna a parlare della fuoriuscita di Sars-Cov-2 da un laboratorio di Wuhan. Onestamente crediamo che la ricerca della verità storica non debba fermarsi alle ipotesi sull’origine dell’agente patogeno, ma richieda anche – e soprattutto – un bilancio complessivo della gestione della pandemia negli anni 2020/2022. È maturo il tempo per uscire dalle polarizzazioni promosse dai mass media e dai social, che semplificano e creano schieramenti poco utili alla politica, riconoscendo finalmente una questione decisiva: il trauma Covid ha riguardato in maniera trasversale molte fasce della popolazione e affonda le sue radici in una situazione strutturale di lunga data. La grande massa dei soggetti traumatizzati dal “caos pandemico” rompe le partizioni comode dell’ideologia e ci costringe a ragionare individuando le coordinate strutturali di un evento epocale che ha impresso un salto quantico alle criticità già presenti.

Se pensiamo al danno subìto ci accorgiamo che sono state vittime, a titolo diverso, gli anziani deceduti e abbandonati nelle Rsa, il personale sanitario sotto pressione impossibilitato a lavorare in condizioni decenti, coloro che hanno atteso vanamente delle cure adeguate a casa o un posto in terapia intensiva, tutti gli esseri umani che – nel Sud del mondo – avrebbero avuto diritto ai vaccini ma non potevano usufruirne perché i brevetti sono nelle mani delle multinazionali del farmaco, i cittadini costretti dal dispositivo del green pass a rinunciare a diritti costituzionali inalienabili, scienziati e personalità della medicina (e non solo) presi di mira dai quotidiani per il loro dissenso argomentato nei confronti delle restrizioni governative e, ancor più, dell’obbligo vaccinale e del lasciapassare verde imposto senza nessuna ragione scientifica.

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kamo: Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università

kamomodena

Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università

di kamo

banner Guerra e Industria
formazione 3.pngNote per approfondire la discussione

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della riproduzione capitalistica e sociale.

Da una parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione politica prendere parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.

Come si stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione, mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento, con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della guerra»?

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Francesco Piccioni: “Le tre regole di Trump”, o come si fa la guerra

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“Le tre regole di Trump”, o come si fa la guerra

di Francesco Piccioni

tre regole trump.jpegLasciateci, per una volta, segnalare che – pur essendo un giornale solo online, senza finanziamenti né padroni, con redattori “militanti” senza paga – per una volta ci avevamo preso, anticipando di molto i professionisti del mainstream.

Deve essere colpa di quella curiosità che non può albergare nelle redazioni dove “la notizia” è quella che arriva dall’alto… Da un’agenzia di stampa internazionale, da un tweet di un potente, da un ordine della proprietà del giornale…

Però, parlando onestamente e senza alcuna intenzione ironica (per una volta), abbiamo apprezzato che il Corriere della Sera abbia ospitato un pezzo di Andrea Marinelli che prova a dar conto dello “stile comunicativo” di Donald Trump e che gli conferisce – per riconoscimento quasi unanime – il dominio sull’agenda politica: Le tre regole spregiudicate di Trump e chi è Roy Cohn, l’avvocato che gliele ha fornite: «Se vuoi vincere, si vince così».

L’attenzione e l’occasione permettono infatti di precisare quanto avevamo già scritto quasi due mesi fa, subito dopo le elezioni stravinte dal tycoon. E forse abbiamo sbagliato anche noi, allora, a inserire il ragionamento critico sulle “tre regole” all’interno di un articolo più generale, invece di dedicargli un “pezzo a parte”. Rimediamo oggi.

L’articolo di Marinelli è di qualità, ben scritto, coglie molti punti importanti del Trump style. Ma, detto con sincera tranquillità, si svolge interamente dentro i criteri della critica cinematografica, al confine tra fiction e realtà, e quindi non coglie il punto vero – tutto politico – quello che segna un “cambio d’epoca” nella visione politica dell’Occidente collettivo, e che caratterizza l’avanzare apparentemente inarrestabile della destra più reazionaria e suprematista che sia mai apparsa al mondo dalla conquista del Reichstag da parte dei sovietici, il 9 maggio del 1945.

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Carla Filosa: “Povero” Trump!

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“Povero” Trump!

di Carla Filosa

La “verità” del broncio minaccioso di Trump è il sorriso felice e il ghigno tracotante e aggressivo di Elon Musk. È lui la vera personificazione dell’imperialismo del capitale e non il presidente della stanza ovale, un figurante prestanome qualsiasi

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eda09aca0cf9.jpg“Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è l’agente involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori”. (K. Marx, Il Capitale, I, VII, 24)

“Il capitalista non è capitalista perché dirigente industriale ma diventa comandante industriale perché è capitalista.  Il comando supremo nell’industria diventa attributo del capitale, come nell’età feudale il comando supremo in guerra e in tribunale era attributo della proprietà fondiaria”. (K. Marx, Il Capitale, I, 2, 11)

Solerte nel suo nuovo incarico, Donald non ha perso tempo per il bene degli “americani” – da sempre gli statunitensi sono stati chiamati così: il “tutto per la parte”! al contrario – proprio come ormai il “loro” golfo, non più del Messico, finora così insignificante con quel nome! Ha graziato i suoi pretoriani di Capitol Hill, ha promesso di scaraventare fuori dalla fortezza a stelle e strisce gli ultimi immigrati, dato che non si sa chi si salverebbe se si chiedesse agli statunitensi di buttarsi a mare qualora avessero avuto origini migratorie. Il termine “deportation” non lascia dubbi, anche se molti traducono con “rimpatrio” o “espulsione”, al punto che anche la vescova evangelica ha chiesto “misericordia” a Trump nei confronti di chi, emigrato in ritardo con la storia, teme per la propria vita.

Dimissioni dall’Oms, e dimissioni per la seconda volta dagli accordi di Parigi sulla transizione energetica, per “Make America affordable and energy dominant again”, cioè rendere l’America accessibile e di nuovo dominante in ambito energetico! Ripresa devastatrice delle trivellazioni per ottenere petrolio e gas (stimato lo scorso novembre in 4 miliardi di tonnellate in più alle emissioni entro il 2030. D’altronde, le industrie dei combustibili fossili hanno sborsato 75 milioni di dollari per la campagna di Trump!).

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Andrea Zhok: USA e getta

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USA e getta

di Andrea Zhok*

La situazione di crisi perdurante e priva di apparenti sbocchi in cui si muove l’Europa tutta e l’Italia in modo particolare è un problema che va molto al di là della perdita di status internazionale, della perdita di benessere, della perdita di competitività, dell’aumento della povertà e della disoccupazione (tutte cose, naturalmente, parecchio gravi). Il problema di fondo è che esistere per lunghi periodi in una condizione di crisi permanente, percezione di declino e mancanza di prospettive produce un graduale ma sistematico abbattimento della stessa voglia di vivere, della “vitalità primaria” di chi è avvolto in questo sudario storico.

Le cause di questa condizione sono molteplici e possono (e devono) essere analizzate in grande dettaglio sul piano empirico, storico, economico.

Possiamo prenderla larga e far partire l’analisi dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, con susseguente condizione di paese occupato.

Possiamo concentrarci su apparenti “errori” più recenti, come il suicidio industriale decretato dal riorientamento dei rifornimenti energetici dalle fonti prossimali (Libia, Russia) a quelle del maggior competitore diretto (USA).

Possiamo condannare la struttura oligarchica e tecnocratica dell’Unione Europea, drammaticamente fallimentare nell’unica cosa che ufficialmente ne giustificava l’esistenza, ovvero far valere il peso economico dell’Europa come leva per ottenere uno status internazionale di maggior rilievo, con accresciuta capacità di difendere l’interesse dei popoli europei, ecc…

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Fulvio Grimaldi: L’asse terrestre spostato dai palestinesi — — Ha perso chi ha vinto

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L’asse terrestre spostato dai palestinesi — — Ha perso chi ha vinto

di Fulvio Grimaldi

Zakaria Zubeidi, leader delle Brigate di Al Aqsa, fondatore e direttore del “Teatro della Libertà” a Jenin, nel momento della sua liberazione.

Per il “Ringhio del bassotto” Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi

https://youtu.be/G4TbIgcBGNo

Medio Oriente: ha perso chi ha vinto – Il ringhio del bassotto, con Fulvio Grimaldi

Partiamo dalla constatazione del trionfo registrato da Hamas, a nome, nel segno e per merito del popolo palestinese di Gaza e dalla speculare sconfitta strategica di chi si era assegnato ottant’anni di vittorie. Poi vedremo che cosa c’è da prendere e cosa da buttare delle smargiassate della coppia di bulli che va ora riunendosi a Washington per organizzare una qualche soluzione B.

L’evidenza della vittoria di Hamas è abbagliante. Partito politico che nasce e si sviluppa con crescente consenso popolare, al punto da vincere, 2006, le ultime elezioni che ANP e Abu Mazen hanno permesso nei territori occupati. Poi forza armata di Resistenza sostenuta quasi esclusivamente dal proprio popolo, in condizioni di sostanziale isolamento politico per quanto riguarda la dimensione internazionale, araba e islamica. Ciò che arrivava dal Qatar e che l’Egitto lasciava passare non cambiava nulla sul piano strategico.

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Infoaut: Tecnotrumpismo. Dalla Groenlandia al caso DeepSeek

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Tecnotrumpismo. Dalla Groenlandia al caso DeepSeek

di Infoaut

Trump è diventato il referente politico delle Big Tech e non è una congiuntura

Abbiamo già provato a raccontare come mai a nostro parere il secondo ciclo trumpista rappresenta una cesura definitiva con l’immaginario liberale. In sostanza l’idea di un capitalismo in grado di coordinare progresso sociale (o almeno civile) e sviluppo infinito è arrivata a fine corsa (almeno nella versione che abbiamo conosciuto finora). Questo frame ideologico ha mostrato la corda diverse volte negli ultimi decenni, ma oggi a cadere non è solo la maschera, ma l’alleanza storica tra determinati settori del capitalismo USA (ma non solo) e il ceto politico che negli Stati Uniti, come ovunque in Occidente, si è candidato a favorire lo sviluppo neoliberista “da sinistra”.

Lo si nota nello spaesamento che alcuni giornali liberal mostrano nel raffigurare Elon Musk come uno e trino: allo stesso tempo imprenditore brillante, genio della tecnologia ed estremista di destra. Ne parlano come se si trattasse di tre persone diverse, indice della difficoltà in cui versa una certa narrativa.

Ma qui, più che concentrarci sulla crisi del paradigma precedente ci interessa provare a inquadrare quali sono gli elementi che hanno prodotto questa svolta, che va ben oltre il semplice opportunismo, ma ha motivazioni profonde. Come spiega Raffaele Sciortino: “Se noi prendiamo Musk o Peter Thiel, loro, piaccia o meno […] sono pienamente consapevoli che gli Stati Uniti, e direi di più il mondo, sono di fronte a una crisi di civiltà a cui loro approntano una certa risposta.”

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Angela Fais: Coding e “didattica esperienziale”: la scuola italiana da educatrice ad addestratrice?

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Coding e “didattica esperienziale”: la scuola italiana da educatrice ad addestratrice?

di Angela Fais

Anticipando alcuni degli elementi che caratterizzeranno le nuove Indicazioni curriculari nazionali, l’intervista del Min. Valditara ha subito innescato una querelle infuocata. Sulla reintroduzione del latino e in difesa degli studi classici si è già detto. Sulla lettura della Bibbia sin dalla scuola primaria invece si resta basiti dinnanzi alle reazioni scomposte di chi vede nella proposta un attentato alla laicità della scuola. Laici si, ma ignoranti perché? La lettura della Bibbia infatti è proposta sia per coltivare il piacere della lettura, sia “per rafforzare le conoscenze delle radici della cultura italiana”. E non è un’idea così peregrina, tra l’altro, dal momento che essa insieme alle leggende nordiche cui nell’intervista si fa riferimento, è richiamata anche da visioni pedagogiche radicate e di cui sono destinatari migliaia di alunni in Italia, in Europa e nel resto del mondo, come ad esempio anche quella steineriana. Qui la lettura dei testi in questione risponde a interventi pedagogici calibrati in maniera assai precisa, anche in rapporto alle tappe evolutive degli allievi, e non certo per impartire lezioni di catechismo. Ma c’è ben altro di rilevante nella riforma.

Si dichiara infatti “guerra alla obsolescenza educativa” proponendo tramite l’integrazione delle competenze digitali addirittura di ripensare le materie tradizionali. Anche le scienze esatte. Dunque la matematica sarà ripensata per essere messa al servizio della Intelligenza Artificiale. Inspiegabilmente nessuno si è preoccupato di quella che potrebbe essere la parte più agghiacciante della riforma, la cifra che potrebbe svelare tutto il suo potenziale di pericolosità.

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Forum italiano dei comunisti: Dal leninismo al dannunzianesimo

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Dal leninismo al dannunzianesimo

L’ultima variante dei ‘comunismi’ in cerca del partito 

di Forum italiano dei comunisti

Sabato 25 gennaio si è tenuta a Roma un’assemblea di gruppi di reduci provenienti da esperienze ‘comuniste’ con l’intenzione di creare le basi di un nuovo partito. Conosciamo bene la storia di queste vicende, che si susseguono da circa un trentennio e sempre con lo stesso esito. Purtroppo la diaspora comunista, nata dalla disintegra­zio­ne da varie esperienze fallite, riproduce sempre nuove illusioni per coloro che, seppure a ranghi ridotti, perseverano nell’errore.

La cosa che ci colpisce di più di queste vicende è il fatto che gli attori presenti sulla scena non vengono da Marte nè partono dall’anno zero. No, sono gente che in questi decenni è stata dentro i ‘comunismi’ che sono falliti e hanno vissuto le esperienze della ‘rifondazione’ di bertinottiana memoria fino alle avventure di Marco Rizzo. Eppure, invece di riflettere e fare un bilancio di come sono andate le cose, ripartono di nuovo con slogan come questo:

“È l’ora! Nessuno si tiri indietro! È l’ora della costruzione del partito comunista!”. Testualmente questo è stato scritto recentemente in un appello a firma di Fosco Giannini coordinatore del ‘Movimento per la Rinascita Comunista’, uno dei quattro gruppi che hanno organizzato il ‘cantiere’ a Roma.

Viene naturale chiedersi: ma fino a ieri che cosa hanno fatto? Che cosa li induce a dire che è oggi l’ora di costruire il partito? E ieri e l’altro ieri, che ora era?

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