Rassegna 13/02/2025
Gianni Del Panta: Come lottare contro l’università neoliberista? Una risposta a Jacobin
Come lottare contro l’università neoliberista? Una risposta a Jacobin
di Gianni Del Panta
Il movimento universitario che si ritrova in assemblea nazionale in questo fine settimana a Bologna muove dalla critica alla riforma Bernini e al taglio ai finanziamenti. Limitandosi a questo rischia però di riprodurre più che scardinare il modello di università esistente. Questo articolo discute perché le critiche al sottofinanziamento e alla precarizzazione non siano sufficienti e perché l’assemblea precaria deve guardare al movimento studentesco piuttosto che agli strutturati per costruire la propria mobilitazione
In vista dell’assemblea nazionale che si terrà a Bologna in questo fine settimana sono usciti numerosi articoli che provano a fare il punto sulla mobilitazione nelle università e a immaginare ulteriori sviluppi per il movimento. Data la composizione della propria redazione e la rete di collaboratori di cui dispone, la rivista Jacobin è quella che forse più si è spesa in tal senso. Questo è certamente un merito. Al tempo stesso però, ci sembra di poter dire che Jacobin sia anche l’espressione più nitida di una certa incapacità di proporre una critica più generale al modello di università liberista, proponendo soluzioni e parole d’ordine che tendono più a migliorare l’esistente che a metterlo in discussione. Di questa tendenza è emblematico l’articolo di Giacomo Gabbuti. La polemica che qui proponiamo non deve essere intesa, in alcun modo, come rivolta in maniera specifica all’autore, ma investe una serie di prese di posizione che il pezzo di Gabbuti condensa. Mentre infatti l’articolo risulta particolarmente utile per mappare lo stato di avanzamento del movimento di protesta e per avere contezza delle mobilitazioni messe in campo dalle varie assemblee precarie a livello locale nei mesi passati, soffre anche di due gravi criticità. La prima è la prospettiva generale attorno alla quale è costruito. La seconda è invece il rapporto tra la componente precaria e gli strutturati. Le due questioni possono essere poste singolarmente. Il nodo delle alleanze deriva però dalla prospettiva generale. Conviene quindi partire dalla prima per giungere alla seconda e non viceversa.
Fosco Giannini: La guerra imperialista dei dazi
La guerra imperialista dei dazi
di Fosco Giannini
Il protezionismo come prassi storica del capitalismo e base materiale del neoprotezionismo di Trump. La consustanzialità dell’isolazionismo alla guerra imperialista e all’odierna spinta bellica degli Usa. La necessità delle lotte dei comunisti e dei popoli per la liberazione dal giogo imperialista e della Nato.
Non saranno forse, “i dieci giorni che sconvolgeranno il mondo”, ma certo la quindicina di giorni che ha separato la seconda investitura di Trump alla Casa Bianca (20 gennaio 2025) dalla firma, da parte dello stesso presidente Usa (4 febbraio 2025), dell’ordine esecutivo per l’avvio della guerra doganale, ha già scatenato una scossa tellurica, sul terreno economico-finanziario internazionale, di almeno 9 gradi della scala Mercalli.
Il neoprotezionismo “trumpiano” inizia ufficializzando nuove tariffe doganali del 25% contro Messico e Canada e del 10% contro la Cina, che si assommerebbero, se praticate, a quelle già in atto contro il gigante guidato dal partito comunista cinese. Inoltre, “per proteggere gli Usa” anticipatamente da ogni ritorsione, il provvedimento firmato da Trump prevede “una clausola di ritorsione” in grado di far innalzare le stesse barriere doganali contro i Paesi già colpiti, qualora essi rispondessero con uguali misure protezionistiche.
Consapevole dell’atto di guerra economico-finanziario proclamato e della sua gravità oggettiva, Trump ha inoltre ratificato, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act, “lo stato di emergenza nazionale”, che gli consentirebbe di disporre di ampi poteri per affrontare le eventuali e molto probabili crisi e contraddizioni, sia sul piano internazionale che su quello nazionale.
OttolinaTV: Italia sull’orlo della bancarotta: governo Meloni ostaggio della PayPal mafia
Italia sull’orlo della bancarotta: governo Meloni ostaggio della PayPal mafia
di OttolinaTV
Fermi tutti! Fermi tutti che qui abbiamo lo scooppone del Foglio! PIL al ribasso, titola allarmato: l’economia italiana è entrata in una fase critica; incredibile ma vero, l’ufficio parlamentare di bilancio ha rivisto le stime sulla crescita del PIL per il 2024 e indovinate un po’? Incredibilmente l’obiettivo dell’1% non è stato raggiunto; anzi, non ci siamo manco avvicinati: 0,7, sentenzia il rapporto. Quando noi – e quelli che, come noi, non devono fare propaganda trionfalista filo-occidentale – lo dichiaravamo ormai quasi un anno fa, i sapientoni del Foglio, dall’alto dei loro curricula accademici in discipline economiche che da 30 anni non ne colgono una manco per sbaglio, ci davano dei gufi; propaganda putiniana, per creare una narrazione tossica sul declino dell’Occidente: “Fatti e numeri smentiscono l’eterna lagna nazionale” scriveva Marco Fortis il 26 marzo, forte del suo contributo alla rinascita italiana prima come consigliere di Mario Monti e poi di Matteo Renzi. Lo stesso Fortis che ancora in maggio rilanciava: “L’Italia ha scalato l’export mondiale”; “un bel successo per un Paese come il nostro che fino a una decina di anni fa era considerato in declino dalla maggior parte degli economisti e considerato come un perdente sicuro nel quadro della competizione globale”
Oggi lo stesso giornale la vede un po’ diversamente: “Il peggioramento della congiuntura è evidente già dallo scorso anno” scrivono, senza un minimo sussulto di dignità; quello che li ha spiazzati è che “nell’ultimo trimestre 2024 anche i servizi, che negli ultimi anni sono andati molto bene, hanno mostrato segnali negativi”. Ma te guarda a volte il caso… A parte gli economisti squinternati di regime che vogliono rilanciare l’Italia a suon di b&b e pizze gourmet, nessuna persona sana di mente può pensare che un Paese come l’Italia possa essere trainato dai servizi: se la produzione industriale crolla, inesorabilmente, a stretto giro, arriverà anche il turno dei servizi.
Alastair Crooke: La soluzione politica “inside out” del più grande uomo di spettacolo (geopolitico)
La soluzione politica “inside out” del più grande uomo di spettacolo (geopolitico)
di Alastair Crooke* – StrategicCulture
Come raggiungere l’impossibile? L’America è istintivamente una potenza espansionistica, che ha bisogno di nuovi campi da conquistare, di nuovi orizzonti finanziari da dominare e sfruttare. Gli Stati Uniti sono fatti così. Lo sono sempre stati.
Ma – se siete Trump, che vuole ritirarsi dalle guerre alla periferia dell’impero, ma vuole anche dare un’immagine brillante di un’America muscolosa che si espande e guida la politica e la finanza globale – come fare?
Il Presidente Trump, da sempre uomo di spettacolo, ha una soluzione. Disdegnare l’ideologia intellettuale, ormai screditata, dell’egemonia muscolare americana a livello globale; suggerire piuttosto che queste precedenti “guerre per sempre” non sarebbero mai dovute essere “le nostre guerre”; e, come ha avanzato e suggerito Alon Mizrahi, iniziare a ricolonizzare ciò che era già stato colonizzato: Canada, Groenlandia, Panama – e anche l’Europa, naturalmente.
L’America sarà quindi più grande; Trump agirà con decisa muscolarità (come in Colombia); farà un grande “show”, ma allo stesso tempo ridurrà l’interesse principale degli Stati Uniti per la sicurezza al centro dell’emisfero occidentale. Come Trump continua a osservare, gli americani vivono nell’“emisfero occidentale”, non in Medio Oriente o altrove.
Trump tenta così di staccarsi dalla periferia bellica espansionistica americana – “l’esterno” – per proclamare che l’“interno” (cioè la sfera dell’emisfero occidentale), è diventato più grande ed è indiscutibilmente americano. E questo è ciò che conta.
Il Chimico Scettico: L’Europa ultimo baluardo contro le fake news (o della censura)
L’Europa ultimo baluardo contro le fake news (o della censura)
di Il Chimico Scettico
“L’Europa ha un crescente numero di leggi che istituzionalizzano la censura” ha detto Zuckerberg, folgorato sulla via di Damasco della rielezione di Trump. Ovviamente da Bruxelles la risposta non è tardata: “Noi non censuriamo i social media”.
La questione della supposta fine del fact checking (o della censura) sta ormai prendendo tinte grottesche, ma una cosa è abbastanza chiara: se (e sottolineo se) oltreoceano c’è stato un tana libera tutti in Europa niente del genere. Su tutte le agende “pesanti” il vecchio continente va avanti come se a Washington ci fosse ancora l’amministrazione Biden. E questo riguarda anche la censura online: il contrasto alla diffusione della “disinformazione” era già l’oggetto principale dell’ European Union’s Code of Practice on Disinformation adottato in tempi di Brexit dopo lo scandalo Facebook/Cambridge Analytics (2018). La tesi fu che i risultati del refendum per Brexit erano stati prodotti dalla disinformazione online – e dagli hacker russi. Eppure dieci anni prima il massiccio uso dei social media da parte di Barack Obama durante la sua campagna elettorale fu commentato con entusiasmo.
Clara E. Mattei: Nasce il Che, l’economia si fa eterodossa
Nasce il Che, l’economia si fa eterodossa
Salvatore Cannavò intervista Clara E. Mattei
Clara Mattei, dell’Università di Tulsa, in Oklahoma, spiega le idee e la pratica del Centro per l’Economia eterodossa che vuole uscire dal modello dominante ed esplorare la critica dell’economia per la trasformazione sociale
Il Center for Heterodox Economics (Che) tiene la sua conferenza inaugurale dal 6 all’8 febbraio a Tulsa, Oklahoma, Stati uniti del sud, territorio trumpiano. E l’inizio è davvero dirompente (qui per seguirla). Si discuterà di «Economia politica di Karl Marx», di «Inflazione, austerity e conflitti», della «Economia politica della Palestina occupata», ma anche della «Economia politica di Piero Sraffa», degli approcci alla «storia del capitalismo», di clima e di lavoro di cura. L’insieme di studiosi e studiose chiamate a tenere i corsi descrive il senso di una scuola di pensiero critico (Carolina Alves, Nikolaos Chatzarakis, Riccardo Bellofiore, Costas Lapavitsas, Branko Milanovic, Robert Brenner, dall’Italia ancora Giovanna Vertova, e molti altri).
Il progetto vuole «esplorare prospettive alternative nella teoria e nella pratica economica» per «una comprensione più inclusiva e dinamica dell’economia».
Juan J. Paz-y-Miño Cepeda: Il dramma elettorale in Ecuador
Il dramma elettorale in Ecuador
di Juan J. Paz-y-Miño Cepeda
Il 9 febbraio si terranno in Ecuador le elezioni presidenziali e legislative e, se necessario, il 13 aprile si andrà al ballottaggio. Avremo 46 anni di “democrazia”, poiché dopo un decennio di dittature, l’agosto 1979 ha segnato l’inizio del più lungo periodo di governi costituzionali della storia, con una successione di 15 presidenti. Ma gli ultimi due decenni del XX secolo e fino all’inizio del XXI sono stati condizionati dalla crisi economica, dal debito estero, dall’ascesa dell’ideologia neoliberista attraverso il FMI e il Washington Consensus, dallo sviluppo della globalizzazione transnazionale dopo il crollo del socialismo di stampo sovietico, dall’imposizione del modello imprenditoriale nel Paese e dal predominio delle forze identificate con la destra politica.
L’economia costruita, unita all’indebolimento delle politiche sociali, ai privilegi della casta politica e alla progressiva de-istituzionalizzazione che ha aggravato la governance, ha fatto crollare anche le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione. Si tratta dello stesso fenomeno sociale che l’America Latina ha vissuto a seguito del neoliberismo imposto alla regione. Inoltre, nelle suddette condizioni interne e internazionali, il movimento popolare, un tempo espresso dalla significativa presenza del FUT (Frente Unitario dei Lavoratori) e la sinistra tradizionale hanno perso forza e non sono riusciti a diventare alternative elettorali, anche se dal 1990 il movimento indigeno guidato dal CONAIE ha acquisito uno slancio senza precedenti.
Gli italiani ripudiano la guerra: così andranno convertiti (con le buone o con le cattive)
di Pasquale Pugliese
Lo scorso 28 gennaio il Bulletin of the Atomic Scientists ha spostato le lancette del Doomsday Clock, l’Orologio dell’apocalisse, da 90 a 89 secondi alla mezzanotte. Fondato nel 1945 da Albert Einstein, J. Robert Oppenheimer e dagli scienziati che contribuirono a sviluppare le armi atomiche nel Progetto Manhattan, il Bulletin of the Atomic Scientists creò il Doomsday Clock utilizzando l’immagine dell’apocalisse e il conto alla rovescia per monitorare lo stato delle minacce nucleari all’umanità. A ottanta anni da Hiroshima e Nagasaki, attraversiamo il momento più vicino alla catastrofe mai registrato nella storia: “poiché il mondo è già pericolosamente vicino al precipizio, uno spostamento anche di un solo secondo dovrebbe essere interpretato come un’indicazione di pericolo estremo e un avvertimento inequivocabile che ogni secondo di ritardo nell’inversione di rotta aumenta la probabilità di un disastro globale” – scrivono gli scienziati – “Continuare ciecamente sul percorso attuale è una forma di follia”.
Il giorno dopo questo appello urgente all’inversione di rotta, fondato sul ripristino della ragione – che prevede il disarmo, a cominciare da quello nucleare, e la preparazione di strumenti non armati e nonviolenti per risolvere le controversie internazionali – anche il capo di stato maggiore dell’esercito italiano, Carmine Masiello, audito in Commissione Difesa della Camera dei Deputati, ha parlato della necessità “di un vero e proprio cambiamento culturale”, ma per attrezzare le forze armate a passare dalle “missioni di mantenimento della pace” alla “capacità di produrre operazioni ad alta intensità, attraverso rapidi interventi strutturali” con un “rinnovamento qualitativo e quantitativo dello strumento militare“.
Roberto Iannuzzi: Gli USA, la lotta globale per l’egemonia e il miraggio dell’intelligenza artificiale
Gli USA, la lotta globale per l’egemonia e il miraggio dell’intelligenza artificiale
di Roberto Iannuzzi
Mentre arriva la sfida cinese di DeepSeek, la Silicon Valley guarda sempre più al settore militare, proponendo un’alleanza all’establishment USA che teme di perdere l’egemonia mondiale
DeepSeek, una startup cinese fino a poco tempo fa pressoché sconosciuta, ha scosso le convinzioni del mondo dell’intelligenza artificiale (IA), a fine gennaio, lanciando un modello linguistico di grandi dimensioni (large language model, LLM) con capacità paragonabili a quelle dei migliori modelli di compagnie americane leader nel settore come OpenAI, Anthropic e Meta.
Per anni, molti hanno dato per scontato che le compagnie della Silicon Valley fossero all’avanguardia nello sviluppo dell’IA, ed essenzialmente destinate a dominare un settore considerato strategico nella lotta per l’egemonia tecnologica mondiale.
DeepSeek R1 è un “modello di ragionamento” in grado di risolvere problemi matematici, logici e di programmazione anche complessi, con prestazioni equiparabili a quelle di OpenAI o1, ma con software “open source” e senza iscrizione a pagamento (richiesta invece da quest’ultimo, che è un modello proprietario).
In più, DeepSeek R1 è stato addestrato a una frazione del costo richiesto da OpenAI o1 (secondo stime tuttavia non unanimemente condivise, l’addestramento avrebbe richiesto circa 6 milioni di dollari), e senza l’impiego di microchip di ultima generazione, la cui esportazione in Cina è proibita dagli USA.
Il lancio del modello “a basso costo” di DeepSeek avviene mentre giganti come Microsoft e Meta si apprestano a spendere rispettivamente 80 e 65 miliardi di dollari nel 2025 in infrastrutture legate all’IA.
Nell’anno appena iniziato, ci si attende che i “magnifici sette” fra le Big Tech americane (Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Nvidia, Meta, e Tesla) investiranno complessivamente almeno 250 miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale.
Alla luce dell’exploit di DeepSeek, il timore degli investitori USA è che simili investimenti si rivelino eccessivi, e soprattutto che possano danneggiare la redditività delle grandi compagnie americane, se una startup cinese relativamente piccola può fornire applicazioni di intelligenza artificiale a costi molto più bassi.
Roberto Paura: Le rivoluzioni di Kuhn e i molti mondi della scienza
Le rivoluzioni di Kuhn e i molti mondi della scienza
di Roberto Paura
“L’incommensurabilità della scienza” chiarisce il pensiero del filosofo delle rivoluzioni scientifiche
Per quanto possa apparire un’ovvietà, vale sempre la pena ricordare che in nessun’epoca della storia gli uomini si sono sentiti “antichi”. Poteva accadere – ed è accaduto quasi sempre finché la moderna ideologia delle “magnifiche sorti e progressive” non si è affermata – che ci si percepisse in un’epoca di decadenza; ma ogni generazione si considera moderna e attribuisce alle precedenti errori e concezioni superate, anche se questo può farci sorridere se pensiamo a coloro che credevano nella fissità della Terra o nell’etere luminifero. Di quest’ovvietà si rese conto Thomas S. Kuhn nell’estate del 1947 quando, giovane dottorando venticinquenne, meditando sul testo della Fisica di Aristotele, all’improvviso ebbe una illuminazione:
“Improvvisamente i frammenti nella mia testa si sono riordinati in modo nuovo e ognuno è andato al proprio posto. Sono rimasto a bocca aperta, perché tutto d’un tratto Aristotele mi sembrò davvero un ottimo fisico, ma di un tipo che non avevo mai sognato fosse possibile”
(Kuhn, 2024).
Era accaduto che Kuhn, chiedendosi come fosse possibile per il più grande filosofo dell’età antica credere nell’inesistenza del vuoto e in generale a tutta una serie di concezioni scientifiche del tutto errate rispetto alle nostre conoscenza moderne, comprese che la fisica di Aristotele si reggeva su concetti che avevano per lui significati del tutto diversi da quelli che hanno oggi e che, all’interno di quella tassonomia, la fisica aristotelica era non solo perfettamente sensata, ma corretta. Quell’epifania aveva proiettato per un attimo Kuhn nel mondo di Aristotele, vale a dire che gli era riuscito di vedere il mondo esattamente nello stesso modo in cui lo vedeva lo Stagirita, e non piuttosto – come sempre avviene – con gli occhi di noi “moderni” di oggi. Nell’opus magnum di Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), questa idea è trattata nel capitolo decimo, intitolato Le rivoluzioni come mutamenti nella concezione del mondo. Il cambio di paradigma che rappresenta, nell’opera di Kuhn, il processo con cui si verifica una rivoluzione scientifica, è un vero e proprio cambiamento di mondo:
Luca Benedini: Dalla nipote di Mubarak al povero torturatore vittima di un “mandato di cattura” internazionale redatto in un inglese maldestramente confuso
Dalla nipote di Mubarak al povero torturatore vittima di un “mandato di cattura” internazionale redatto in un inglese maldestramente confuso
di Luca Benedini
Passano gli anni ma in Italia i parlamentari di centro-destra mantengono la loro ormai consueta mancanza di dignità
Nel numero di luglio-agosto 2011 di quella bellissima esperienza di giornalismo locale che è stata in Lombardia il mensile La Civetta, sotto la direzione di Claudio Morselli (tra la metà degli scorsi anni ’90 e una dozzina d’anni fa, prima di soccombere – come tante altre esperienze – all’aspra recessione economica internazionale seguita alla “crisi dei mutui”), si scriveva nella seconda parte dell’articolo La deriva leghista-berlusconiana – La scomparsa del federalismo inteso come progresso sociale, a proposito del “caso Ruby” avviatosi il 27 maggio 2010 con una serie di telefonate del premier Berlusconi alla Questura milanese, miranti a salvaguardare dall’interessamento della polizia una minorenne straniera nota appunto come Ruby: «Il trionfo dei “governicchi ad personam” [messi tipicamente in piedi da Berlusconi nel corso degli anni, N.d.R.] è stato forse raggiunto il 3 febbraio e il 5 aprile [di quel 2011, N.d.R.], quando alla Camera 315 deputati la prima volta (su 614 presenti) e 314 la seconda (su 616) hanno approvato delle deliberazioni indirizzate alla magistratura di Milano e incentrate sullo spiegare le ormai famose telefonate che hanno avviato il “caso Ruby” (rivolte alla Questura di Milano dal premier e da suoi incaricati) come un’iniziativa “governativa” a tutela delle relazioni tra Italia ed Egitto, anziché come un’iniziativa personale di Berlusconi allo scopo di evitare che emergesse il suo coinvolgimento in cose come la prostituzione minorile. Tutti questi “onorevoli” hanno così sottoscritto la tesi che il premier pensasse davvero che la minorenne marocchina invitata col nome di Ruby ai party notturni di Berlusconi (dei quali è ormai notorio lo sfondo sessuale) fosse una nipote del premier egiziano Mubarak. Peccato che la tesi sia apertamente incompatibile con quanto è successo dopo quelle telefonate: quando la Questura ha aderito alle ripetute richieste di Berlusconi di affidare la ragazza (accusata di furto) non ai servizi sociali ma a un’inviata personale del premier stesso, cioè la consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti, quest’ultima non ha fatto che “consegnare” la minorenne Ruby a una prostituta brasiliana maggiorenne la cui professione era ben nota a Milano. Il premier era ovviamente a conoscenza di queste vicende (in seguito ampiamente documentate e rese pubbliche dagli apparati giudiziari), ma non disse alla Minetti di fare altrimenti, né l’ha criticata per queste sue azioni; anzi, più volte l’ha lodata pubblicamente per le sue grandi capacità…
Enrico Tomaselli: Il grande bluff
Il grande bluff
di Enrico Tomaselli
In molti cominciano a chiedersi: “ma perché Trump spara tante cavolate?”, e finiscono col rispondersi – sbagliando, ma comprensibilmente – che queste devono in qualche modo corrispondere a un disegno strategico degli Stati Uniti.
Vorrei quindi qui provare ad analizzare criticamente il personaggio Trump, cercando di delineare le (possibili) ragioni del suo comportamento alquanto sopra le righe.
Necessariamente, devo partire da quanto ho già sostenuto precedentemente; l’elezione di Trump alla presidenza è stata una operazione portata a termine da una parte minoritaria del deep state americano, da decenni emarginata dal blocco costituito da neocon e democratici, che ha controllato sia le istituzioni federali che la politica estera degli USA. Per ribaltare la situazione, questo gruppo minoritario ha deciso di sfruttare gli errori commessi dalle varie presidenze dem, e la debolezza ormai strutturale di quel partito, utilizzando come cavallo di Troia un leader populista, capace di catalizzare la rabbia e la frustrazione di una parte significativa degli americani. Oltretutto, Trump offriva da questo punto di vista ulteriori vantaggi. Innanzi tutto, non è un politico ma un imprenditore, e non possiede quindi le malizie di un politico navigato, abituato a muoversi nell’establishment federale. Nel suo primo mandato ha già dimostrato di essere abbastanza pilotabile (tutti i presidenti lo sono, ma lui di più), nonostante il suo ego smisurato – anzi, proprio per quello. E, infine, non è rieleggibile.
Dante Barontini: La corsa di Musk può sfiancare l’America
La corsa di Musk può sfiancare l’America
di Dante Barontini
Quando i reazionari prendono le leve del potere, sostituendo i conservatori che giochicchiavano parlando di sé come “progressisti”, abbiamo quelle classiche situazioni da “dieci giorni che sorpresero i cretini” (piuttosto diversi da quelli che “sconvolsero il mondo” oltre 100 anni fa).
Abituati a un mondo “basato sulle regole”, tutti – anche gli analisti più di sinistra o “antagonisti” – fanno fatica a cogliere quel che sta avvenendo al vertice degli States, e quindi nella “sala operativa” da cui nel bene o nel male dipende il corso del mondo.
Avvertenza: mondo “basato sulle regole” non significa affatto – come continuano a pensare i conservatori – che quelle regole fossero “buone”, “etiche”, “efficaci” o condivisibili. Significa solo che c’era un quadro di regole abbastanza fisso entro cui tutti, anche i rivoluzionari e gli antagonisti, si muovevano con relativa certezza, fissando obiettivi di medio o lungo periodo, iniziative di lotta o di semplice gestione, ecc.
Quelle regole stanno saltando e con esse l’impianto generale delle “attese razionali”, sia nelle dinamiche interne agli Usa che, a maggior ragione, nelle relazioni internazionali. E’ infatti in corso un blitz a carro armato da parte dei “trumpiani tecnologici” contro il cuore stesso dell’amministrazione Usa.
Enzo Brandi: Migrazioni. Per un dibattito oltre la “destra xenofoba” e la “sinistra neo-liberal”
Migrazioni. Per un dibattito oltre la “destra xenofoba” e la “sinistra neo-liberal”
di Enzo Brandi
Da un articolo del NYT sulle migrazioni: dubbi, perplessità e riflessioni eterodosse per l’apertura di un dibattito serio sul tema delle migrazioni
Un caro amico con cui ho condiviso lotte passate mi ha inviato un articolo del NYT (noto giornale “liberal”) a firma di Lydia Polgreen, in cui si analizza il moderno fenomeno delle migrazioni dandone sostanzialmente un giudizio molto positivo e considerandolo un fenomeno necessario.
In realtà, leggendolo, mi sono venuti in mente molti dubbi e perplessità e la convinzione che questo fenomeno vada affrontato con obiettività senza cadere nella retorica e nella demagogia né della “destra” xenofoba, né della “sinistra neo-liberale” paladina a chiacchiere dei “diritti umani”, e nemmeno di quella presunta “estrema sinistra” (alla Casarini, tanto per intenderci) che organizza ONG e si fa finanziare i suoi interventi in mare.
Respingendo ovviamente qualsiasi demagogia razzista e qualsiasi tentativo di deportazione “spettacolare” dei migranti in Messico, Albania o Rwanda, mi chiedo però cosa ci sia di tanto “progressista” nel fatto che milioni di persone provenienti dai paesi “poveri”- affidandosi a loschi trafficanti e correndo enormi pericoli – vengano sostanzialmente a implorare di poter essere sfruttati nei paesi “ricchi” neo-colonialisti e imperialisti. Non è in sostanza un moderno commercio di schiavi favorito anche dal falso mito dell’Occidente paese di Bengodi?
Eros Barone: Pensare la ‘forma-guerra’: Eco e Cacciari
Pensare la ‘forma-guerra’: Eco e Cacciari
di Eros Barone
Nel periodo tempestoso che stiamo vivendo e la cui origine si può far risalire alla fine della “guerra fredda” nel 1989, la guerra in tutte le sue molteplici manifestazioni e gradazioni (militare, commerciale, finanziaria, comunicativa, culturale, etnica, regionale, locale ecc.) è tornata prepotentemente a occupare la scena mondiale ed è divenuta oggetto di indagini condotte nell’ambito di varie discipline, a vari livelli e con differenti approcci (geopolitico, economico, tecnologico, sociologico, psicologico, antropologico ecc.). Una domanda tuttavia sorge spontanea: che cosa ha detto la filosofia, e in particolare la filosofia italiana di questi ultimi decenni, sulla guerra?
Si può cominciare a rispondere a tale domanda prendendo in considerazione due articoli di Umberto Eco pubblicati, non a caso, a ridosso della rottura epocale che si verificò nel 1989: uno intitolato, per l’appunto, Pensare la guerra e pubblicato in occasione della prima guerra del Golfo (1991), e un altro intitolato Quando la guerra è un’arma spuntata e risalente al periodo della guerra del Kossovo (1999). 1 Nel primo articolo Eco sottolineava il fatto che non esistono più due fronti opposti nettamente separati, poiché «l’esistenza di una società dell’informazione istantanea e dei trasporti rapidi, della migrazione intercontinentale continua, unita alla nuova tecnologia bellica, ha reso la guerra impossibile e irragionevole e, dunque, «la guerra è in contraddizione con le stesse ragioni per cui è fatta». L’illustre semiologo traeva da tale premessa la conseguenza per cui la guerra oggi non mette più di fronte due termini opposti, ma mette in concorrenza infiniti poteri.
Andrea Zhok: Usaid, Captain America e chi ancora crede al “complottismo”
Usaid, Captain America e chi ancora crede al “complottismo”
di Andrea Zhok*
Spesso discutendo del processo di asservimento e colonizzazione mentale dell’Europa da parte americana si incontrano voci inclini alla minimizzazione.
Si dice: “Vi saranno pure influenze culturali, come è naturale che sia in presenza di una grande potenza, ma pensare ad una regia di influenze sistematiche è complottismo.”
In questo quadro alcuni dati emersi in questi giorni sono interessanti e forniscono, forse, qualche chiarimento.
Su Wikileaks e sul Columbia Journalism Review sono comparse in questi giorni alcune pagine dei rapporti interni dell’USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, recentemente caduta in disgrazia con l’amministrazione Trump – il che ha consentito a molti attori critici del presente governo USA di diffondere informazioni precedentemente secretate.
Tra le informazioni emerse vi sono i dati 2023 sui finanziamenti forniti da USAID a 6.200 giornalisti in vari paesi del mondo (a sostegno della libertà di informazione, ça va sans dire), a 707 testate appartenenti a NGO (che, ricordo, sta per Non Governmental Organizations) e a 279 “organizzazioni della società civile operanti nel settore dei media”.
Tra le testate che appaiono coinvolte – nonostante frenetici tentativi di dire che è tutto un fraintendimento – ci sono prestigiose riviste di politica internazionale come “Politico”.