Rassegna 05/03/2025
Amos Harel – 28 febbraio 2025 – Haaretz
Il disastro del 7 ottobre non è stato solo il risultato di decisioni sbagliate di quella notte, ma è derivato da anni di errori. I principali: la concezione politica secondo cui Hamas era utile a Israele, l’errore di valutazione dell’intelligence secondo cui non avrebbe potuto lanciare un attacco su vasta scala e il carente schieramento difensivo.
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Questa è stata una delle settimane più difficili che la società israeliana abbia affrontato da quando è iniziata la guerra. Il ritorno dei corpi degli ostaggi, che ha fatto seguito alle commoventi immagini del ritorno di ostaggi vivi riuniti alle loro famiglie nelle settimane precedenti, sembrava avvolgere l’intero Paese in una spessa coltre di tristezza. Decine di migliaia di persone si sono unite al corteo funebre della famiglia Bibas del kibbutz Nir Oz -Shiri, per la madre e suoi figli Kfir e Ariel. Molti altri l’hanno visto in televisione.
Le settimanali esibizioni di insensibilità dei membri della coalizione di governo, che hanno continuato a fare il proprio lavoro come se la tragedia li sfiorasse appena, hanno solo reso più intenso il lutto. Il primo ministro Benjamin Netanyahu li ha superati tutti. Prima sventola foto della madre e dei figli alla Knesset e diffonde dettagli sul loro agghiacciante assassinio in prigionia, ignorando totalmente la richiesta della famiglia affinché si astenesse dal farlo. Due giorni dopo si presenta in tribunale indossando una cravatta arancione [colore simbolo dei bambini morti, che avevano i capelli rossi, ndt.] e chiedendo ai giudici di iniziare il processo con un minuto di silenzio in memoria della famiglia Bibas, cercando di conquistarsi simpatie. I giudici, sfoggiando un inedito coraggio, hanno giustamente rifiutato di assecondarlo.
L’alto comando delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] aveva altre ragioni per sprofondare nella depressione. A fronte del pensionamento anticipato del capo di stato maggiore dell’IDF Herzl Halevi la prossima settimana, le inchieste dell’esercito sugli avvenimenti del 7 ottobre saranno finalmente concluse, soprattutto l’indagine interna sul massacro e sugli errori che hanno portato ad esso. Lunedì 600 ufficiali, dai comandanti di battaglione che hanno preso parte ai combattimenti fino ai generali e al capo di stato maggiore, si sono ritrovati presso la base aerea di Palmahim per una lunghissima riunione e per ascoltare le principali risultanze dell’inchiesta. Poi le conclusioni sulle varie battaglie sono state presentate alle comunità del Negev occidentale, i cui abitanti sono stati uccisi o rapiti durante il massacro.
Se qualcuno si aspettava di sperimentare una catarsi, chiaramente ciò non è avvenuto. “Siamo ancora tutti bloccati al 7 ottobre,” ha ammesso un ufficiale che ha partecipato alle indagini. È impossibile disconnettersi da esso.” Costantemente sospeso sullo sfondo è il timore che il cessate il fuoco sui principali fronti, Gaza e il Libano, sia solo temporaneo. In effetti se i colloqui più avanti dovessero fallire, la guerra potrebbe essere ripresa e le prospettive che gli ostaggi ancora in vita vengano liberati saranno notevolmente ridotte. Nella Striscia di Gaza ci sono ancora 59 soldati e civili rapiti, e di 24 di essi si crede siano vivi.
L’esercito che non c’era
La cerimonia in cui Halevi consegnerà il comando al suo successore, Eyal Zamir, avrà luogo mercoledì. Si terrà nel quartier generale delle IDF a Tel Aviv invece che presso l’ufficio del primo ministro a Gerusalemme, come sarebbe la regola. Oltretutto saranno presenti poche persone e i media non saranno ammessi. La ragione ufficiale dell’esercito è che non sarebbe opportuno tenere un evento festoso nel bel mezzo di una guerra (e, implicitamente, a causa delle circostanze delle dimissioni di Halevi). Ma in pratica è stata una direttiva dell’ufficio del primo ministro, che evidentemente teme una diffusione dal vivo delle dichiarazioni di Halevi.
Di conseguenza la presentazione dei risultati dell’indagine è stata l’ultima importante apparizione di Halevi in uniforme. Ed è ammirevole. Sotto il suo comando gli errori hanno giocato un ruolo fondamentale nel disastro del 7 ottobre (e la riluttanza ad approfondire i suoi errori personali, nonostante si sia pubblicamente assunto le sue responsabilità, continua a stupire). Ma l’approfondito processo di indagine che ha guidato è stato un passo importante, anche se non tutte le inchieste sono state uguali quanto a natura e qualità.
Un problema deriva dalla scelta delle persone che hanno condotto l’indagine. Inizialmente Halevi aveva nominato un gruppo di esperti, importanti ufficiali in pensione, guidato dall’ex-capo di stato maggiore Shaul Mofaz. Ma Netanyahu lo ha obbligato ad annullare la decisione, affermando che si trattava di figure politiche. Di conseguenza una parte significativa delle indagini è stata invece condotta da ufficiali della riserva degli stessi corpi o comandi che stavano indagando. Oltretutto erano di grado inferiore rispetto ai generali che comandavano questi corpi.
L’intelligence militare sembra aver condotto un’indagine in profondità riguardo ai propri errori e al modo in cui la sua cultura organizzativa vi ha contribuito, così come alla concezione errata dell’IDF alla vigilia della guerra. E l’inchiesta dell’aeronautica militare ha smentito l’affermazione insensata secondo cui la protesta dei piloti contro la riforma della giustizia del governo sia stata la causa del ritardo nell’assistenza aerea alle comunità e agli avamposti dell’esercito attaccati durante il massacro.
Ad Halevi non manca il coraggio civile. A differenza di Netanyahu, egli si è recato nella regione di confine [con Gaza, ndt.] sia prima che dopo il 7 ottobre. In una delle sue visite a Nir Oz, il kibbutz di cui l’esercito si è dimenticato e che ha abbandonato, ha sentito una cosa che lo ha scioccato. Un membro del kibbutz gli ha detto che l’ultimo terrorista coinvolto nella strage ha lasciato Nir Oz molto prima che vi entrasse il primo soldato.
E questa in sintesi è la tragedia. Nir Oz è stato il colmo, ma nel sud di Israele quella mattina l’IDF semplicemente non c’era, almeno non nel momento giusto e con il numero necessario di soldati.
Secondo l’indagine in realtà l’aeronautica ha raggiunto Nir Oz prima delle forze di terra. Alle 9,30 il comandante dell’aeronautica Tomer Bar ha ordinato di attaccare veicoli che cercavano di attraversare il confine per tornare a Gaza. Vari attacchi sono stati portati nei pressi di Nir Oz, e in un caso un missile sparato da un elicottero ha ucciso l’abitante del kibbutz Efrat Katz insieme ai suoi rapitori.
Ma i piloti dell’elicottero e gli operatori dei droni che hanno tardivamente attaccato la zona di confine non avevano, a Nir Oz o in altri kibbutz e basi militari, contatti sul terreno che permettessero attacchi aerei di precisione per aiutarli a contrastare l’attacco e a distinguere tra i rapitori e le loro vittime.
Ed è lì che risiede l’errore. La principale responsabilità dell’IDF, il fondamento stesso della sua esistenza in un Paese fondato sulle ceneri dell’Olocausto, è proteggere gli ebrei in pericolo, da Nir Oz a Entebbe, in Uganda [riferimento a un dirottamento aereo del 1976 terminato con un attacco israeliano contro l’aeroporto ugandese, ndt.].
Ma nella mattina di Simhat Torah [festività ebraica alla fine di Sukkot, ndt.] del 2023 madri nei kibbutz si sono nascoste con i loro figli nei rifugi e hanno scritto a gruppi WhatsApp, a volte con dita insanguinate, messaggi che chiedevano solo una cosa: “Dove accidenti è l’IDF?” A Nir Oz, e nel kibbutz Kfar Azza, al Nova Festival e nel kibbutz Be’eri, sono morti o sono stati rapiti civili prima che potessero sentire almeno un soldato nelle vicinanze.
L’idea fissa dell’esercito riguardo a Gaza non corrisponde alla teoria dell’estrema destra secondo cui si è trattato del lavoro di un immaginario Stato profondo appostato nelle tenebre.
A livello diplomatico ciò riguarda l’insistenza di Netanyahu (e in misura minore a quello del precedente “governo del cambiamento”) sul fatto di gestire il conflitto con i palestinesi senza cercare di risolverlo, adottando una politica del dividi e conquista tra Hamas a Gaza e l’Autorità Palestinese in Cisgiordania, e consentire al denaro qatariota di fluire a Gaza con la consapevolezza che sarebbe stato usato per costruire la mostruosa macchina terroristica di Hamas.
A livello militare, successivi capi di stato maggiore hanno condiviso l’obiettivo governativo di contenimento, la mancanza di volontà di lanciare operazioni di terra in aree urbane densamente abitate, la mancanza di fiducia nella capacità delle forze di terra di condurre tali operazioni e la difficoltà a dissentire da ufficiali di grado superiore, con o senza uniforme, che dipingevano un quadro roseo del presente e rifiutavano di ascoltare gli avvertimenti riguardo a un futuro cupo.
Tutto quanto detto va molto al di là del mandato delle indagini militari. Per questo c’è bisogno di una commissione parlamentare d’inchiesta.
Hamas da Marte, l’intelligence dell’IDF da Venere
Il risultato finale è che le inchieste confermano buona parte delle informazioni pubblicate da Haaretz e altri media durante gli ultimi 16 mesi e condividono molte delle stesse conclusioni. Quello che è successo è un’idea fissa concettuale. La comunità dell’intelligence, con in prima linea i servizi di sicurezza dell’IDF e dello Shin Bet [intelligence interna, ndt.], non credeva che Hamas fosse in grado di organizzare un attacco coordinato di migliaia di terroristi e attraversano il confine in più di 100 punti, che avrebbe sopraffatto con successo la Divisione Gaza e preso il controllo di gran parte del territorio di cui la divisione era responsabile.
Israele sceglie di adottare interpretazioni alternative, persino quando sono arrivate prove che Hamas aveva preparato un dettagliato piano operativo per un attacco di sorpresa di quel genere (il documento “Mura di Gerico” [rapporto israeliano del 2022 che descriveva nei dettagli l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ndt.]), stava addestrando le sue unità per metterlo in pratica (come la sottufficiale dell’intelligence V. aveva scoperto e informato), stava conducendo inusuali perlustrazioni (su cui le vedette dell’esercito avevano dato avvertimenti) e stava tenendo un dialogo operativo articolato con i suoi alleati riguardo alle caratteristiche dell’attacco e forse ai suoi tempi.
C’è stata una negligenza doppia: riguardo all’esercito terrorista che era avanzato lungo il confine e riguardo all’evidente intenzione ideologica e pratica di mettere in atto un’azione per modificare radicalmente lo status quo e sconfiggere Israele in una guerra su vari fronti. I comandanti si sono convinti che se fosse mai avvenuto un qualche cambiamento l’onnisciente intelligence israeliana lo avrebbe scoperto e fornito un tempestivo avvertimento che avrebbe dato loro il tempo adeguato per organizzarsi.
L’elemento complementare per il terreno fertile da cui è derivato il disastro risiede nello schieramento operativo. Sul confine libanese, di fronte a migliaia di organici della Forza Radwan [reparti speciali, ndt.] di Hezbollah, l’IDF schierava solo quattro battaglioni, lo stesso numero che l’esercito aveva dislocato contro Hamas. Quando, prima della guerra, il comandante della Divisione Galilea, generale Shai Kalper, ha manifestato la preoccupazione secondo cui non avrebbe ricevuto un avvertimento con sufficiente anticipo, l’intelligence militare lo ha rassicurato dicendo che l’allerta gli sarebbe stata data per tempo.
In pratica sul confine di Gaza, dove era in atto una politica particolarmente permissiva di licenze per il sabato e le feste, la mattina dell’attacco c’erano solo 770 combattenti (o 680, secondo una diversa versione) e 14 carrarmati con equipaggio. Hanno dovuto affrontare un’ondata di invasori che includeva quasi 5.600 terroristi prima che significativi rinforzi dell’IDF raggiungessero la zona. La situazione sul confine libanese avrebbe potuto essere ancora più seria se il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah non avesse esitato; il comando settentrionale ha approfittato del tempo per schierarvi tre divisioni entro la sera.
Essendo in inferiorità numerica di 5 o più a 1, i soldati negli avamposti e nei comandi militari lungo il confine di Gaza si sono trovati immobilizzati, cercando disperatamente di difendere se stessi e con difficoltà a prestare aiuto alle comunità o a quanti erano a bordo delle automobili che sono state attaccate sulle autostrade, lungo le quali Hamas aveva organizzato imboscate mortalmente efficaci.
Un fattore che ha contribuito è stata la graduale erosione nelle regole d’ingaggio dell’IDF nei compiti difensivi, in cui l’esercito non è mai stato comunque molto brillante. Le truppe da combattimento di riservisti sono rimaste sorprese scoprendo che la vecchia e collaudata procedura di un’“allerta all’alba”, in cui tutti i soldati degli avamposti sono schierati durante il passaggio di turno dalla notte al giorno in base al ragionevole assunto che quello sia il momento in cui un attacco è più probabile, era stato sostituito da una versione ridotta consistente solo di un leggero rinforzo delle pattuglie.
Alla base di tutto questo, e insieme a un certo disprezzo verso il nemico palestinese (con l’attenzione concentrata su Hezbollah e Iran), c’era anche eccessiva fiducia negli ostacoli sul confine, la cui costruzione era stata completata nel 2021. Netanyahu e l’allora capo di stato maggiore Aviv Kochavi descrissero il muro contro i tunnel e la barriera costruita in superficie come una soluzione definitiva che avrebbe eliminato la minaccia di un’incursione contro le comunità israeliane lungo il confine.
In un’indagine a posteriori l’intelligence militare ha identificato una serie di eventi e dichiarazioni che hanno segnato il percorso di Hamas verso l’attacco molto prima del trafugamento del documento “Mura di Gerico”. Sembra che sia stata una convinzione che si è consolidata nei vertici dopo la guerra di Gaza del 2024, accentuata in seguito all’ascesa di Yahya Sinwar alla guida dell’organizzazione nel 2017 e divenuta un piano operativo in seguito al conflitto tra Gaza e Israele nel maggio 2021. È lì che la comprensione delle due parti sulla situazione reale di Gaza si è differenziata: quella di Hamas è venuta da Marte, quella dell’intelligence militare da Venere.
Sinwar e il suo collega Mohammed Deif hanno considerato un grande successo l’operazione del 2021, durante la quale Hamas è riuscita a infiammare Gerusalemme, a reclutare l’opinione pubblica araba in Israele e per la prima volta ha sperimentato una campagna su più fronti simultaneamente. È stato allora che è maturata l’idea che un attacco di sorpresa potesse essere realizzabile, purché la sorpresa fosse totale.
Per contro Israele si è complimentato con se stesso in seguito al bombardamento del sistema di tunnel di Gaza, denominato il “Metro” (anche se in realtà è stato un completo fallimento), ha spiegato che Hamas era stato scoraggiato e indebolito e ha confermato fantasiosamente di avere ragione quando l’organizzazione si è astenuta dal prendere parte alla serie di scontri tra l’IDF e il Jihad islamico.
Il generale Itai Brun, che ha coordinato l’indagine della Divisione Ricerche dell’Intelligence Militare, crede che la direzione errata della lettura di Hamas da parte della comunità dell’intelligence potrebbe essere iniziata più di un decennio fa e che il sistema era “totalmente errato riguardo ad Hamas”, benché eccellesse nel raccogliere informazioni e nello sventare il contrabbando di armi un grande numero di fronti. Oltretutto Brun lo mette in rapporto con il fatto che Israele non ha compreso la profondità del “piano di distruzione” e i colloqui dell’asse radicale regionale guidato dall’Iran, che negli anni era diventato pratico e concreto.
L’inchiesta di Brun attribuisce il fallimento a una serie di errori madornali, alcuni dei quali culturali. Afferma che si è trattato di un classico errore di intelligence: quella militare si atteneva alla concezione che Hamas fosse stata dissuasa da un scontro militare totale con Israele, mentre Israele credeva alle mosse ingannevoli di Hamas, che trasmetteva il desiderio di regolarizzare la situazione con Israele. Brun ha riscontrato carenze nella cultura e nei metodi di ricerca delle informazioni, pregiudizi che hanno condizionato la comprensione, e una serie di problemi strutturali e organizzativi. Come ha detto recentemente in interviste con i media, l’abbaglio “non è occorso a un piccolo gruppo specifico del personale dell’intelligence durante una certa notte,” ma riflette una discrepanza più ampia.
All’interno della comunità dell’intelligence le opinioni di Brun sono controverse, ieri come oggi. Alcuni pensano che stia andato troppo oltre, fino a “una visione totalmente negativa dell’intelligence”, che esclude completamente la capacità di predire tendenze ed eventi. Altri sono furiosi per il fatto che Brun ignori le avvertenze strategiche che fin dal 2015 la Divisione Ricerca fece circolare e che mettevano in guardia contro un’esplosione del contesto palestinese, totalmente ignorate da Netanyahu, che intendeva continuare con la politica corrente. In quest’ottica l’attenzione esagerata alle carenze dell’intelligence nel corso del tempo assolve troppo facilmente Netanyahu.
Secondo il generale (della riserva) Moshe Schneid, che ha guidato le indagini dell’intelligence alla vigilia dell’attacco, almeno parte del problema si rispecchia anche là, “in una notte che è un assoluto microcosmo.” La rivoluzione informatica ha portato a un grande flusso di rapporti di intelligence da una vasta gamma di rilevatori (dalla penetrazione cibernetica all’intercettazione delle reti cellulari), e gli analisti informatici hanno avuto molte difficoltà a metterli in ordine e a individuare i dettagli più significativi e critici.
Gli eventi di quella notte, tra le più tragiche nella storia del Paese, sono stati decostruiti e analizzati dall’esercito a livello di ore e minuti. La questione fondamentale riguarda le indicazioni di pericolo che avevano cominciato ad accumularsi la sera precedente, soprattutto l’attivazione di carte SIM israeliane nella rete di cellulari dei terroristi di Hamas da parte delle unità Nukhba [le forze speciali di Hamas, ndt.]. I rapporti documentano conversazione su conversazione e prolungate precisazioni riguardo a indicazioni, che si andavano accumulando, che qualcosa non andava. Ma Halevi, che le ha controllate all’ultimo in stretto coordinamento con lo Shin Bet guidato da Ronen Bar, ha anche percepito un ampio consenso dell’intelligence secondo cui non era stato pianificato alcun attacco massiccio, che tutti i segnali indicavano che Hamas si stava comportando nel solito modo e che comunque non fosse il caso di lanciare un allarme a breve termine.
“Ho vissuto quella situazione decine se non centinaia di volte,” dice un importante ufficiale della riserva che, su richiesta del capo di stato maggiore, ha esaminato con cura le indagini. “Retrospettivamente è chiaro che avrebbero dovuto adottare un atteggiamento serio e prendere più misure di allerta. Ma non penso che in base a circostanze simili quella notte capi di stato maggiore come Gadi Eisenkot o Shaul Mofaz avrebbero preso decisioni diverse da quelle di Halevi.”
Eppure, in parte a causa del fatto che l’uso di agenti (humint [informatori, ndt.]) a Gaza è sotto la totale responsabilità dello Shin Bet, le indagini non offrono alcuna spiegazione su uno dei fallimenti più sorprendenti: il fatto che non ci sia stato alcun informatore della Striscia che abbia avvertito i propri referenti israeliani in tempo reale riguardo a quello che stava per avvenire. Non si tratta solo di una questione di intelligence umana. Poco dopo che sono terminate le consultazioni telefoniche sotto la direzione di Halevi, alle 4,50 del mattino, nella Striscia sono iniziati i preparativi concreti dell’attacco.
Migliaia di terroristi di Hamas si sono separati dalle proprie famiglie, hanno lasciato le proprie case e si sono diretti ai luoghi di riunione stabiliti. Come è stato possibile che nessuno dei sistemi israeliani di gestione delle informazioni, del tipo che l’intelligence militare era così orgogliosa di utilizzare, abbia identificato questa accumulazione di attività inusuali? “Lì c’era uno schermo con migliaia di pixel sfavillanti, ma eravamo tutti concentrati a decifrare cinque o sei altri lampeggiamenti, e semplicemente non ce ne siamo accorti,” dice tristemente uno degli investigatori.
Il disastro del 7 ottobre, più che essere il risultato delle decisioni errate di quella notte, riflette il culmine e l’intersezione di processi negativi che si sono sviluppati nel corso di molti anni. Su tutti la concezione politica (Hamas come una risorsa per Israele), gli errori dell’intelligence (Hamas non vuole e non può organizzare un attacco su vasta scala) e il debole schieramento difensivo. È stata un’eclissi totale le cui conseguenze alle 6,29 di quel mattino si sono schiantate contro gli israeliani, come il cedimento di una diga a causa di uno tsunami.
“E’ questione di fisica. Le cose prendono tempo,” hanno ripetutamente affermato ufficiali di alto rango dell’aviazione per spiegare perché l’aeronautica abbiano avuto difficoltà ad attaccare rapidamente quando non gli è stato dato un avvertimento anticipato di intelligence (Tomer Bar non si trovava neppure al telefono nelle consultazioni di Halevi). La stessa cosa viene affermata con maggiore veemenza dalle brigate della riserva alle cui truppe lo stato maggiore ha ordinato di entrare nel Negev occidentale con auto private, con fucili e caricatori, quando è diventato evidente che i kibbutz erano stati occupati.
Gli ufficiali superiori che si sono espressi durante l’evento a Palmahim hanno parlato molto delle responsabilità e delle crisi di coscienza. Alcuni hanno detto esplicitamente: questo fallimento, e la nostra responsabilità in esso, ci perseguiterà fino alla fine dei nostri giorni. Altri si sono aggrappati a dettagli e scene specifiche che hanno rispecchiato quanto il capo di stato maggiore ha sentito dire al kibbutz Nir Oz.
La scorsa Pasqua un comandante di battaglione della brigata di fanteria Golani, di cui sono state uccise decine di soldati lungo il confine nella battaglia del 7 ottobre, è stato intervistato da Yedioth Ahronoth. “Se solo ci fosse stato dato un preavviso di mezz’ora le cose sarebbero andate diversamente,” afferma.
Un altro ufficiale, di grado superiore, mi ha detto di non riuscire a smettere di pensare a una sequenza che ha visto nel film dell’orrore che l’unità del portavoce dell’IDF ha montato con le scene del massacro: il corpo di un soldato della Golani ucciso in uno degli avamposti che indossava solo le mutande e un giubbotto antiproiettile: “Non gli hanno neppure concesso il minimo riguardo in modo che riuscisse a vestirsi quando è iniziato l’attacco,” ha affermato.
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)
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