Uriel Araujo – 16/05/2025
Gli Stati Uniti emarginano Israele: la scommessa di Trump sul Medio Oriente
La politica di Donald Trump per il Medio Oriente del 2025 bilancia gli investimenti del Golfo e la diplomazia coercitiva, facendo pressione su Israele affinché si allinei agli interessi degli Stati Uniti, pur mettendo da parte le preoccupazioni palestinesi. Il suo perno strategico, segnato da accordi sauditi da 600 miliardi di dollari, segnala un cambiamento transazionale, con effetti sulla “relazione speciale” tra Stati Uniti e Israele.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta facendo una sorta di “atto di bilanciamento” in Medio Oriente? I suoi ultimi gesti nei confronti dei sauditi e del Qatar, e anche le dichiarazioni sorprendenti sulle pressioni esercitate su Israele affinché consenta agli aiuti umanitari di arrivare in Palestina, lo suggeriscono chiaramente.
La politica mediorientale di Donald Trump nel 2025 è, secondo tutte le indicazioni, un atto di equilibrio ad alto rischio, che mescola opportunismo economico, diplomazia coercitiva e pressione calcolata su alleati e avversari. Il suo recente viaggio in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti – in particolare escludendo Israele – segnala una svolta strategica, dando priorità agli investimenti del Golfo e alla stabilità regionale rispetto alla fedeltà incrollabile alla “relazione speciale” USA-Israele.
Mentre i gesti di Trump verso l’Arabia Saudita e il Qatar, insieme alle richieste di aiuti umanitari alla Palestina, suggeriscono una ricalibrazione pragmatica, il suo approccio rimane radicato in quella mentalità transazionale del “ci stanno fregando”. Questa tattica brusca, in stile mafioso, spesso priva di diplomazia tradizionale, impiega tariffe, minacce e proposte provocatorie per ottenere concessioni, lasciando così i partner con il fiato sospeso, come Israele sta vedendo ora. Eppure, al di là delle spacconate, le mosse di Trump servono fondamentalmente come un duro promemoria per lo Stato ebraico: Washington tiene le redini, e quindi anche il suo più stretto alleato deve “comportarsi bene”, per così dire, o pagare un prezzo.
La politica estera di Trump è, dopo tutto, definita dalla convinzione che gli alleati in qualche modo “sfruttino” la generosità americana, una prospettiva che ironicamente trascura il dominio globale degli Stati Uniti attraverso l’uso del dollaro come arma e la potenza militare. Comunque sia, l’approccio del “bastone grosso” di Trump, spesso paragonato al metodo della “teoria del pazzo” di Nixon, mescola il bluff con l’intento serio, creando così confusione tra alleati e avversari.
In Medio Oriente, questo si manifesta ora come una pressione su Israele, il più grande beneficiario degli aiuti statunitensi – 150 miliardi di dollari entro il 2022 – per spingerlo ad allinearsi con i più ampi interessi americani. Si può ricordare che all’inizio di quest’anno Trump ha riferito di aver spinto Tel Aviv a votare contro l’Ucraina all’ONU, come ho scritto. Ciò sottolinea la volontà del presidente americano di sfruttare la dipendenza di Israele in modo da servire l’agenda degli Stati Uniti.
Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas del gennaio 2025, in gran parte attribuito all’inviato di Trump Steve Witkoff, esemplifica questa dinamica. Se da un lato la tregua ha rafforzato la sicurezza israeliana con la sospensione delle ostilità, dall’altro ha anche evidenziato la moderazione degli Stati Uniti. La squadra di Trump ha costretto lo Stato ebraico ad accettare un accordo che aveva precedentemente respinto, segnalando così che il sostegno all’occupazione israeliana ha dei limiti.
Si può anche ricordare la provocatoria proposta del repubblicano per una “conquista” di Gaza da parte degli Stati Uniti, ampiamente respinta dagli Stati arabi e criticata come pulizia etnica: si trattava, in ogni caso, probabilmente meno di un piano serio (per quanto assurdo) che di una tattica di “bullismo” per ricordare a Tel Aviv l’influenza americana. Lanciando tali idee, Trump sottolinea che le azioni di Israele – in particolare gli obiettivi di escalation di Netanyahu – rischiano di alienarsi gli Stati Uniti, che a loro volta cercano di evitare una guerra regionale più ampia (con l’Iran) che potrebbe sconvolgere gli investimenti del Golfo o i mercati petroliferi.
Il tour di Trump in Medio Oriente illustra ulteriormente questo atto di equilibrio. In Arabia Saudita, il leader americano ha siglato accordi per 600 miliardi di dollari, tra cui la vendita di armi e partnership per la tecnologia dei chip AI, il tutto minimizzando le richieste di un’immediata normalizzazione saudita-israeliana (cioè la normalizzazione dei legami). Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha a sua volta sottolineato la necessità di un cessate il fuoco a Gaza e di uno Stato palestinese, una posizione che Trump (abbastanza sorprendentemente, per alcuni) non ha sfidato pubblicamente.
Allo stesso modo, in Qatar, il leader statunitense si è concentrato sul commercio e sugli investimenti, compreso l’accordo con Boeing, mentre si impegnava in colloqui per il cessate il fuoco senza dare priorità agli interessi immediati di Tel Aviv. Inoltre, la sua visione per la regione, così come articolata in Arabia Saudita, faceva scarsa menzione di Israele, un notevole allontanamento dai controversi Accordi di Abramo del suo primo mandato. Queste mosse suggeriscono uno “spostamento” deliberato verso gli Stati del Golfo, il cui peso finanziario e i ruoli di mediazione a Gaza e in Ucraina si allineano con le priorità transazionali di Trump. Dato il pragmatismo spesso imprevedibile di Trump, qualsiasi cambiamento del genere dovrebbe essere preso con le pinze.
Per lo Stato ebraico, in ogni caso, questo è motivo di preoccupazione. La volontà di Trump di mettere da parte la questione della normalizzazione – una volta una pietra miliare della sua politica in Medio Oriente – segnala che Israele non è l’unico gioco in città. Il disagio di Tel Aviv è già abbastanza palpabile, con alcuni analisti e opinionisti israeliani che sostengono che Trump sta “andando avanti con gli accordi in Medio Oriente senza Netanyahu”, accusandolo sostanzialmente di trascinare i piedi sulla normalizzazione saudita. Altri notano che le politiche tariffarie di Trump e l’accordo di cessate il fuoco degli Houthi escludono Israele, mettendo ulteriormente a dura prova i legami.
L’assenza di Israele dall’itinerario di Trump, insieme alla sua frustrazione nei confronti di Netanyahu, rafforza il messaggio: il sostegno di Washington non è incondizionato
Tuttavia, l’approccio del presidente degli Stati Uniti non è privo di rischi. Le sue tattiche coercitive, come minacciare Hamas di “pagare l’inferno” o proporre lo sfollamento di Gaza, alienano ancora i partner arabi e alimentano la percezione dell’insensibilità americana alle sofferenze dei palestinesi. L’Arabia Saudita e il Qatar, pur essendo aperti agli investimenti statunitensi, rimangono fermi sulla loro posizione sullo Stato palestinese, un punto fermo per il governo di Netanyahu. Inoltre, l’attenzione di Trump sugli accordi economici – chip AI, minerali di terre rare e vendita di armi – rischia di mettere da parte la questione palestinese (in mezzo alla difficile situazione dei palestinesi, in una situazione catastrofica che può essere descritta come genocida), destabilizzando così potenzialmente ulteriormente la regione.
Il rifiuto di Trump di condannare fermamente il blocco israeliano di Gaza, nonostante le pressioni del Golfo, suggerisce una delicata corda tesa: sostenere la sicurezza israeliana e segnalare che l’eccesso di portata potrebbe mettere a repentaglio il sostegno degli Stati Uniti.
In sostanza, la politica mediorientale di Trump è l’ennesima scommessa calcolata per riaffermare il dominio degli Stati Uniti attraverso la leva economica e la moderazione strategica. Avvicinandosi agli Stati del Golfo e facendo pressione su Tel Aviv, mira a garantire investimenti e stabilizzare la regione (per gli interessi americani) senza impegnarsi in costosi coinvolgimenti militari. Per Israele, il messaggio è chiaro: Washington rimane il suo più forte alleato, ma lo Stato ebraico deve allinearsi con i più ampi interessi americani o rischiare l’isolamento.
Il successo di questo equilibrio dipende dalla capacità di Trump di placare abbastanza bene i settori dello “Stato profondo” e dell’industria della difesa, oltre alla sua capacità di navigare nelle complessità della regione senza innescare nuovi conflitti. Per ora, i suoi schietti richiami al potere di Washington tengono in allerta alleati come Israele, anche se mettono a dura prova la “relazione speciale” che una volta definiva la politica degli Stati Uniti in Medio Oriente (e, in un certo senso, lo fa ancora).

