Mariam Khateeb* – 19 Maggio 2025
https://mondoweiss.net/2025/05/the-war-where-womens-bodies-lost-their-rights
La guerra a Gaza non è solo la storia delle macerie e degli attacchi aerei. È la storia della ragazza che ha il ciclo sotto i bombardamenti, della madre che sanguina in silenzio e abortisce sul pavimento freddo o partorisce sotto i droni.
A ottobre ho sanguinato per dieci giorni senza accesso a un bagno adeguato.
La casa in cui siamo fuggiti – come la maggior parte dei rifugi di Gaza – non aveva privacy. Quaranta persone dormivano in due stanze. Il bagno non aveva porta, solo una tenda strappata. Ricordo di aver aspettato che tutti dormissero per potermi pulire con una bottiglia d’acqua e brandelli di stoffa. Ricordo di aver pregato di non macchiare il materasso che condividevo con tre cugini. Ricordo la vergogna – non del mio corpo, ma di non essere in grado di prendermene cura.
In guerra, il corpo perde i suoi diritti, soprattutto il corpo femminile.
I titoli dei giornali parlano raramente di questo, di cosa significhi per una ragazza avere il ciclo sotto i bombardamenti, di madri costrette a sanguinare in silenzio e ad abortire su pavimenti freddi o a partorire sotto i droni. La guerra a Gaza non è solo una storia di macerie e attacchi aerei. È una storia di corpi interrotti, invasi e privati del riposo. Eppure, in qualche modo, questi corpi continuano.
Come donna palestinese e studentessa sfollata che ora vive in Egitto, porto con me questo ricordo fisico. Non come metafora, ma come fatto. Il mio corpo sussulta ancora ai rumori forti. La mia digestione vacilla. Il mio sonno arriva in frammenti. Conosco molte donne – amiche, parenti, vicine di casa – che hanno sviluppato malattie croniche durante la guerra, che hanno perso il ciclo per mesi, il cui seno si è seccato mentre cercava di allattare nei rifugi. La guerra entra nel corpo come una malattia e rimane.
Il corpo di Gaza è una mappa dell’interruzione. Impara presto a contrarsi, a occupare meno spazio, a stare all’erta, a sopprimere il desiderio, la fame, il sanguinamento. La natura pubblica dello sfollamento distrugge la privacy, mentre la paura costante rode il sistema nervoso. Le donne che un tempo custodivano il loro pudore ora si cambiano d’abito davanti agli estranei. Le ragazze smettono di parlare dei loro cicli. La dignità diventa un peso che nessuno può permettersi.
Questo è il paradosso della sopravvivenza: lo stesso corpo a cui viene negata la sicurezza diventa lo strumento della resistenza. Le donne fanno bollire le lenticchie a lume di candela, calmano i bambini negli scantinati, cullano i moribondi. Questi atti non sono passivi; Sono radicali. Avere le mestruazioni, portare, nutrire, lenire – in mezzo alla distruzione – significa insistere sulla vita.
Torno, ancora e ancora, all’immagine di mia madre durante la guerra. La sua schiena curva su una pentola, le sue mani tremavano, i suoi occhi scrutavano il soffitto a ogni suono. Non mangiava finché non lo facevano tutti gli altri. Non dormiva finché non lo facevano i bambini. Il suo corpo portava l’architettura della guerra e della maternità allo stesso tempo. Mi rendo conto ora di quanto fosse politica la sua stanchezza – di come il suo lavoro, come quello di tante donne palestinesi, sfidasse la logica dell’annientamento.
Non c’è una tenda per il corpo a Gaza. Non c’è uno spazio sicuro in cui il corpo femminile possa dispiegarsi senza paura. La guerra ci spoglia non solo delle nostre case e dei nostri averi, ma anche dei rituali che ci rendono umani: fare il bagno, avere le mestruazioni, piangere in privato. Ma anche senza riparo, i nostri corpi resistono. Ricordano. Resistono.
E forse, nella loro trepidante persistenza, scrivono la storia più vera di tutte.
*Mariam Khateeb
Mariam Mohammed El Khatib è una scrittrice, poetessa e attivista palestinese di Gaza. Studia odontoiatria in Egitto, dove continua anche la sua attività letteraria. I suoi scritti – pubblicati su piattaforme come This Week in Palestine, We Are Not Numbers e Avery Review – esplorano i temi della memoria, della guerra e della resistenza, soprattutto da prospettive femministe ed esistenziali. Usa la narrazione come forma di resistenza culturale, documentando l’esperienza palestinese e amplificando le voci del suo popolo.
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