Facciamola finita con le leggi che rendono la vita invivibile per i lavoratori, le leggi che precarizzano il lavoro e restaurano forme di vero e proprio schiavismo.
Facciamola finita con le leggi che costringono i lavoratori stranieri a vivere in condizioni di illegalità e quindi di ricattabilità. Facciamola finita con il jobs act, e con la discriminazione razzista.
Franco Berardi (Bifo) – 07/06/2025
https://francoberardi.substack.com/p/il-disertore-non-disertera-i-referendum
QUI SOTTO Massimo Laratro, avvocato di San Precario spiega il senso di questi referendum.
“L’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea in cui, negli ultimi 30 anni, il salario medio dei lavoratori è diminuito anziché aumentare. È quanto emerge da un’analisi di OpenPolis sulla base dei dati Ocse.”.
Ed ancora:
“Tra il 1990 e il 2020, infatti, nel nostro Paese si è registrato un calo del salario medio annuale pari al 2,9%.”.
Se i dati OCSE così considerati sono inaccettabili, giusto per usare un eufemismo, se li paragoniamo con gli altri paesi europei diventano drammatici.
Infatti, in Germania e in Francia, nello stesso arco di tempo, i salari medi hanno avuto un aumento rispettivamente del 33,7% e del 31,1%.
Perché le lavoratrici (per cui la situazione è sicuramente ancora più grave) ed i lavoratori che lavorano in Italia sono costretti a subire tale situazione?
Le cause evidentemente vanno ricercate in diversi fattori alcuni dei quali risalenti agli ultimi 25/30 anni.
Innanzitutto occorre analizzare il ruolo e l’atteggiamento tenuto dai sindacati, in particolare quello delle tre confederazioni maggiormente rappresentative, di fronte alle prime riforme legislative dirette, secondo la retorica del periodo, a rendere maggiormente flessibile il mercato del lavoro (v. la riforma Treu del 1997 e la riforma Biagi del 2003), ma che in realtà aprivano le porte ad un processo di precarizzazione dei lavoratori e delle loro vite che sarebbe continuato inesorabile fino ai giorni nostri.
Con la riforma Treu del 1997 venivano introdotte per la prima volta nel nostro ordinamento le società interinali ed abolito il divieto di interposizione nella fornitura di manodopera (in altre parole il datore di lavoro non è colui che usufruisce direttamente della prestazione lavorativa, ma una società terza, appunto le società interinali, oggi di somministrazione, il cui oggetto sociale è la mera vendita di manodopera). Con la riforma Biagi vengono introdotti nel nostro ordinamento una serie di contratti c.d. flessibili (lavoro intermittente, la collaborazione a progetto etc..) con cui di fatto viene meno il principio per cui la forma normale del contratto di lavoro è quello subordinato a tempo indeterminato.
Di fronte a questa prima offensiva volta alla precarizzazione del mercato del lavoro ed in particolare delle vite e delle esistenze delle lavoratrici e lavoratori, i sindacati confederali decisero di proteggere quelli che allora venivano considerati “lavoratori garantiti” (lavoratrici e lavoratori che in quel periodo godevano ancora delle piene tutele) lasciando alla mercé dei datori di lavoro le lavoratrici ed i lavoratori precari.
Tale errore (che si dimostrerà fatale nel corso degli anni) era dovuto principalmente al fatto che le tre confederazioni per affrontare il processo di precarizzazione in atto avrebbero dovuto rifondare la loro organizzazione e porre in campo nuove strategie di conflitto che fossero in grado di tutelare i diritti del c.d. “lavoratore precario”. Tutto ciò non venne fatto.
Anzi i sindacati confederali continuarono a retrocedere difronte alle massicce riforme che negli ultimi 25 anni hanno interessato il mercato del lavoro, con la conseguenza che i c.d. lavoratori garantiti sono divenuti una specie in via di estinzione come l’orso polare.
Non solo, le tre confederazioni sono altresì responsabili di essersi sottomesse al ricatto occupazionale delle imprese, siglando contratti collettivi sempre più al ribasso. Sul punto è sufficiente scorrere le tabelle retributive della maggior parte dei CCNL per rendersi conto di quanto infami siano i minimi retributivi.
L’altro grande colpevole della situazione fotografata dall’OCSE è certamente il Legislatore italiano il quale a partire dal 1997 ad oggi è intervenuto ripetutamente modificando e riducendo i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, rendendo la precarietà non più un’eccezione ma la regola.
Oltre alle riforme di cui si è detto sopra, occorre ricordare il c.d. “collegato lavoro”, L. 183 del 2010, con cui si è provveduto alla più grande sanatoria di contratti di lavoro illegittimi nella storia della Repubblica Italiana.
Altra importante riforma, sempre nel solco del processo di precarizzazione sopra descritto, è la c.d. “riforma Fornero”, L. 92 del 2012, con annesse lacrime dell’omonima Ministra del Lavoro, con cui il Legislatore inflisse il primo colpo all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Il colpo decisivo ai diritti delle lavoratrici e lavoratori veniva poi inferta con la riforma firmata Renzi, il c.d. “jobs act”, D.lgs n. 81 del 2015, di chiara matrice Thatcheriana (in ossequio alla prima ministra inglese famosa per aver ridotto alla fame milioni di lavoratori inglesi).
Con il c.d. “jobs act” vengono liberalizzati i contratti a tempo determinato, che diventano la principale forma contrattuale utilizzata dai datori di lavoro, e viene definitivamente abrogato l’art. 18.
Fermo quanto sopra, occorre da ultimo ricordare la legge Turco-Napolitano e la successiva Bossi-Fini con cui solo apparentemente si volevano regolare i flussi migratori. In realtà, come si evince chiaramente dall’impianto dei due testi legislativi, gli stessi intervenivano fattivamente sul mercato del lavoro. Lo scopo degli interventi normativi in questione era ed è tuttora quella di rendere particolarmente difficile la regolarizzazione dei migranti, favorendone il lavoro sommerso con le conseguenze che sono davanti agli occhi di tutti, come dimostra la situazione dei braccianti nelle campagne italiane soggetti alle ripetute violenze dei vari caporali di turno.
Da quanto sopra riportato, è evidente che negli ultimi venticinque/trent’anni, da una parte i sindacati confederali, colpevoli di aver completamente sbagliato lettura del momento storico che a partire dalla fine degli anni 90 ci apprestavamo a vivere, ovvero del processo di precarizzazione voluto dal potere economico del “nostro” paese, dall’altro il Legislatore italiano, braccio operativo di quello stesso potere economico, hanno fatto sì che si determinasse una progressiva ed inesorabile svalutazione del lavoro sia dal punto di vista sociale ed umano che dal punto di vista economico; processo di svalutazione che ha posto le lavoratrici ed i lavoratori in una condizione di ricatto lavorativo ed esistenziale difficilmente superabile.
Fatte queste premesse, ecco perché è quanto mai importante andare a votare.
Il primo di essi ha ad oggetto l’abrogazione del c.d. “Contratto di lavoro a tutele crescenti – Disciplina dei licenziamenti illegittimi”.
In altre parole, si sono venuti a creare lavoratori di serie A (quelli assunti prima del 2015) per cui anche se in misura attenuta hanno diritto all’applicazione dell’art. 18, e lavoratori di serie B, (quelli assunti dopo il 2015), per cui nei casi di licenziamento illegittimo hanno diritto alla sola indennità risarcitoria.
A tal proposito occorre comunque ricordare che dalla pubblicazione del jobs act ad oggi, la tanto sbandierata riforma di Renzi sull’art. 18 è stata di fatto ridimensionata dalle ripetute pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, le quali hanno di fatto ridotto l’impatto fortemente precarizzante della disciplina in questione.
Ad ogni modo, reintrodurre la possibilità per le lavoratrici ed i lavoratori di ottenere la reintegrazione (c.d. tutela reale) nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo certamente contribuirebbe a riequilibrare i rapporti di forza tra le lavoratrici ed i lavoratori e le imprese ed in ogni caso renderebbe gli stessi meno ricattabili.
Il secondo quesito riguarda l’abrogazione parziale l’articolo 8 della legge 604/1966, così come modificato dall’art. 2, comma 3 della L.108 del 1990, che disciplina le tutele per i lavoratori delle piccole imprese (con meno di 15 dipendenti) in caso di licenziamento ingiustificato.
Nel caso in cui il referendum portasse all’abrogazione parziale della norma verrebbe rimosso il limite delle 6 mensilità, potendo quindi il lavoratore ottenere un’indennità risarcitoria maggiore.
Tale modifica sarebbe quantomai opportuna soprattutto in un sistema economico dove al processo di atomizzazione della forza lavoro e conseguente precarizzazione della stessa vi è stato un parallelo processo di smaterializzazione dell’impresa e dei suoi mezzi di produzione. Basti pensare alle famose startup della Silicon Valley. Stiamo parlando di piccole imprese con enormi fatturati.
Al riguardo sarebbe infatti auspicabile che in caso di licenziamento ingiustificato operato da una c.d. piccola impresa l’indennità risarcitoria non sia legata al numero di dipendenti, ma alla capacità economica dell’impresa stessa.
Il terzo quesito riguarda la disciplina dei contratti a tempo determinato e chiede l’abrogazione, cioè l’annullamento, delle norme del Jobs act (v. art. 19 d.lgs 81/2015) che consentono al datore di lavoro di assumere lavoratori fino a dodici mesi senza la c.d. “causale”, senza cioè specificare il motivo per cui ad un contratto a tempo indeterminato si preferisce uno a termine, nonché delle norme che permettono di individuare causali in ambito aziendale, fuori dalla contrattazione collettiva, per i contratti di durata superiore.
Attualmente, con le norme in vigore, i datori di lavoro possono stipulare contratti a tempo determinato e prorogarli o rinnovarli fino a dodici mesi senza dover specificare una ragione giustificativa.
L’abrogazione parziale della norma permetterebbe di ridurre l’utilizzo illegittimo e fraudolento dei contratti a termine ed al contempo obbligherebbe le imprese ad una maggiore stabilità occupazione.
Il quarto quesito ha ad oggetto l’abrogazione parziale dell’art. 26, comma 4, ultimo cpv., del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che esclude la responsabilità solidale delle aziende committenti nell’appalto e nel subappalto, per i danni subiti dai dipendenti dell’appaltatore e di ciascun sub-appaltatore oltre la quota indennizzata dall’INAIL, in caso di infortunio, quindi per il c.d. “danno differenziale” riconosciuto dal giudice a copertura dei danni ulteriori subiti in base alle tabelle civilistiche.
Tale modifica, considerando la frammentazione di alcuni settori produttivi come la logistica e l’edilizia, andrebbe certamente ad incidere positivamente sulla riduzione degli infortuni sul lavoro e nello stesso tempo garantirebbe ai lavoratori danneggiati il giusto risarcimento.
Il quinto quesito riguarda la riduzione da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia del migrante per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana.
La riduzione dei tempi di attesa per l’ottenimento della cittadinanza permetterebbe di regolarizzare un numero importante di lavoratrici e lavoratori migranti, sottraendoli così al ricatto salariale dei datori di lavoro.

